Cultura & Società
Zerocalcare e la risposta che (giustamente) non c’è
Abbiamo detto che Decoder (rubrica dell’agenzia Sir) vuole essere una rubrica in cui, una volta tanto, la Chiesa possa parlare affabilmente e in modo poco “strutturato” di cose che la gente vede, mangia, legge, sente ogni giorno, come intrattenimento, distrazione, svago, istruzione spicciola o semplice riempitivo.
Iniziamo allora da un prodotto nostrano, e cioè dalla serie Netflix del fumettista romano Michele Rech, in arte “Zerocalcare”, intitolata Strappare lungo i bordi. Partiamo da qui anzitutto perché personalmente mi divertono e mi piacciono moltissimo i suoi fumetti, e poi perché, quando a uno dei gruppi dei giovani che guido settimanalmente, ho chiesto se conoscessero Zerocalcare, vedere quaranta teste ventenni fare un cenno di assenso mi ha convinto che una parolina su di lui valesse la pena spenderla.
E allora interpelliamolo, Zerocalcare, in questa sua variante “animata”, e vediamo cosa ne esce di utile per noi, per questa finalità che abbiamo espresso.
(Come è d’etichetta in questi tempi, m’è d’uopo avvisare che ci saranno degli SPOILER nel prosieguo del presente articolo.)
Va detto che, rispetto al fumetto scritto, l’audio del cartone trasmette un certo senso di oppressione: la voce del protagonista, incalzante, rapida, smozzicata, che corre corre corre nel tentativo di sincronia con immagini e situazioni trasmette bene il clima interno di ossessioni che lo abitano; emerge in modo più caustico la cruda asprezza di persone e situazioni, l’inevitabile scurrilità, fino a qualche malcelata (e ben poco censurata) bestemmia. Il linguaggio cartaceo, fatto di simboli, si trasforma qui in una cacofonia ipnotica, che inevitabilmente porta lo spettatore a immedesimarsi con l’ansia del protagonista, e a prestare orecchio alla voce, pacata e in qualche modo cullante, dell’Armadillo.
Già, l’Armadillo. Qui l’audio aiuta a svelarne la natura, perché la sua voce, più solida perché acustica, ne smaschera l’indole. Ecco l’origine del solipsismo zerocalcariano, delle sue tristezze e delle sue paranoie arrese: molto semplicemente, alla base di tutto questo buio c’è un equivoco, per il quale il nostro chiama “coscienza” quello che un minimo di spiritualità cosciente saprebbe riconoscere come nient’altro che il tentatore in persona.
Zerocalcare (e qui mi riferisco, sia chiaro, al personaggio protagonista, non all’autore in carne e ossa, che non è dato ai più di conoscere) fa l’amore con i suoi pensieri neri, li sposa, li ascolta, se ne fa consigliare, ci gioca insieme… e il risultato è un graduale, inevitabile deperimento della vita, fino alla morte, rappresentata dall’apparentemente enigmatico suicidio della sua amica Alice.
Questo dubbio lascia in sospeso la vita, ma permette anche sprazzi di liberante umiltà, come quella che lo induce a gettare via le aspettative dell’io ideale supereroico (i “bordi”) per essere quello che è: incompiuto.
Penso che questa sia la cosa più preziosa che un cristiano può recepire dall’opera di Zerocalcare, al di là dello spasso e dei revival (per la mia generazione di bamboccioni, almeno): che l’uomo, senza Cristo, semplicemente non ha risposte ed è incompleto, e non ha difese convincenti contro l’apparente ragionevolezza della disperazione (l’Armadillo).