Opinioni & Commenti
Wikileaks, l’unica vittima è la politica di Obama
di Piero Isola
«Benvenute» le rivelazioni di Wikileaks. Pure se coinvolgenti in parte l’Italia, per qualche giorno si parlerà un po’ meno della nostra situazione politica e dello scontro Fini-Berlusconi, argomenti che incominciano, se già non lo sono, a diventare stucchevoli. Che dire dell’iniziativa di Julian Assange, l’inventore dello sito spione, di mettere in rete i «segreti» carpiti agli Stati Uniti? Solo cinque considerazioni.
1. Dispiace dirlo, ma gli americani continuano a fare la figura dei babbei. Non sapersi custodire i segreti di casa, per quanto poco segreti, è per una grande potenza una prova di sventatezza. Hanno dovuto sorbirsi perfino il commentino ironico dei russi: «Da noi queste cose non succedono». Non è mai detto. Oggi a me, domani a te, verrebbe di rispondere. Quella delle «talpe» non è una specie in via di estinzione. Allignano in ogni dove. La sicurezza informatica è una pia illusione. Internet, ormai si è capito, è un colabrodo.
2. Troppa carne al fuoco. O Julian Assange è un ingenuo e non ha ancora capito quello che perfino i «pentiti» nostrani hanno capito, e cioè che, da che mondo è mondo, le «grandi rivelazioni» non si buttano all’ingrosso sulla piazza ma, per fare effetto, vanno dosate col contagocce. Oppure, resosi conto che nessuna delle rivelazioni a sua disposizione era alla fin fine clamorosa, ha voluto supplire alla scarsa qualità con la quantità: 260.000 file di documenti messi in rete tutti in un botto. Una massa così enorme di informazioni non può che generare confusione e difficoltà di discernimento anche agli analisti più smaliziati, con il presumibile risultato che i presunti segreti svelati resteranno ancora più segreti.
3. Gran parte dei file resi noti da Wikileaks riguarda le relazioni degli ambasciatori Usa al Dipartimento di Stato americano. Ma i diplomatici difficilmente comunicano «segreti» che non siano già a conoscenza dell’opinione pubblica. Una vecchia battuta spiegava che l’occupazione prevalente di un ambasciatore è quella di trasmettere «in cifra» a mezzogiorno, al proprio Governo, ciò che ha letto sui giornali la mattina. Non occorreva la pubblicazione dei rapporti dei rappresentanti diplomatici americani per conoscere vita e abitudini di esponenti politici nostrani o di altri Paesi.
4. Che mestiere fa Julian Assange? Molti giornali lo accreditano come giornalista. Abile, indubbiamente. Ma di una nuova categoria di «giornalisti» che sta prendendo piede e vigore col moltiplicarsi delle intercettazioni e, vedi sopra, delle «talpe». C’è il vago sospetto che, senza le une e le altre, questa nuova categoria di giornalisti resterebbe disoccupata. Non avrebbe di che scrivere, anzi, il verbo esatto è pubblicare. Perché non c’è niente da scrivere, bensì trascrivere le intercettazioni o, ancora meglio, copiarle se fornite già belle e trascritte, oppure mettere in Internet i file trafugati. Comoda la vita, se si conosce la talpa giusta.
5. Qualcuno ha paragonato la pubblicazione dei rapporti segreti all’11 settembre. Verrebbe da dire «bum» se non ci fosse di mezzo il ricordo delle vittime di quella giornata. Il paragone sembra azzardato ed esagerato. Né appare fondata la preoccupazione di esponenti della Difesa Usa sulle possibili conseguenze per la vita di cittadini e militari americani all’estero. Per ora c’è una sola «vittima», se così può dirsi, in senso politico, ed è Obama. Il presidente Usa non ne esce bene, da questa nuova iattura, di talpe e di documenti riservati trafugati, che si abbatte sulla sua amministrazione. Ma qui si aprirebbe un altro discorso per domandarsi a chi giova tutta l’operazione Wikileaks.