«Nemmeno durante la guerra avevo visto situazioni simili». Don Uberto Fedi è uno dei preti toscani che finalmente, dopo una lunga attesa, hanno potuto rinnovare le loro promesse sacerdotali nella Messa crismale che non era stata celebrata il Giovedì Santo, e che nelle diocesi toscane è stata recuperata sabato 30 maggio. Ogni vescovo, come avviene tutti gli anni, ha potuto quindi chiedere ai suoi sacerdoti: «Carissimi presbiteri, volete rinnovare le promesse, che al momento dell’Ordinazione avete fatto davanti al vostro vescovo e al popolo santo di Dio?»Un’occasione per riflettere sul ministero sacerdotale, e su come questi giorni di pandemia hanno inciso, mettendo in risalto aspetti della vita e del ruolo del prete che spesso dimentichiamo.Don Uberto, parroco di Tavola in diocesi di Prato, ha alle spalle 66 anni di sacerdozio, è entrato in seminario nel 1942: «Ricordo quegli anni da seminarista, ci si nascondeva nei rifugi, si dovette fare un periodo a casa. Ma almeno si stava insieme agli altri. Una situazione come questa non l’avevo mai passata: l’ho vissuta con dolore, con sofferenza, ma cercando sempre di essere vicino alla gente». Uno degli appuntamenti fissi delle sue giornate, ad esempio, è il martedì mattina: «Per me è un momento sacro, lo lascio sempre libero per andare a portare la comunione ai malati, almeno 15 persone ogni settimana, in certi momenti anche di più. Nei giorni in cui non potevo andare, ho passato il martedì a contattare le persone per telefono, gli facevo fare la comunione spirituale, ascoltavo cosa avevano da dirmi. Adesso ho ricominciato e vedo che anche loro hanno sofferto questa mancanza».Ogni domenica la Messa, ripresa con il telefonino: «So che tanti parrocchiani hanno apprezzato. Poi, dopo la Messa, mi affacciavo alla porta di chiesa col Santissimo per dare la benedizione eucaristica. Il giorno di Pasqua ho anche benedetto le uova, dalla porta di chiesa».Poi, finalmente, la ripresa delle Messe col popolo: «In tanti si sono messi a disposizione, come nei giorni precedenti tanti si erano dati da fare nella attività caritative. Da questo passaggio difficile spero che la comunità esca più unita, più forte».Eppure, di passaggi che hanno cambiato il ministero del prete e la vita della parrocchia don Uberto nella sua lunga carriera ne ha vissuti diversi. La riforma liturgica, ad esempio, con il passaggio dal latino all’italiano: «Una riforma molto bella, così la Messa è più partecipata, c’è più consapevolezza nelle persone». Negli anni tante abitudini si sono perse, la vita delle parrocchie è cambiata: «Magari prima c’era una presenza più numerosa, ma tante cose sono meglio ora». Don Stefano Papini appartiene a un’altra generazione: è nato nel 1989, è viceparroco nella parrocchia di San Giuseppe a Grosseto. In questi giorni, racconta, vive il suo ministero di prete «alternando la stola e la tuta da lavoro», preso tra la vita di preghiera, liturgica, sacramentale, e il servizio per far ripartire le varie attività della parrocchia, dal centro d’ascolto all’oratorio. L’importante, spiega «è che le due cose siano unite, tutto deve far parte dello stesso cammino di fede e ogni servizio che la parrocchia offre ai poveri, alle famiglie, ai bambini, ai giovani, agli anziani, deve essere espressione di una comunità che si riunisce intorno a Cristo».In questi giorni di pandemia, racconta, «il fatto di non poter visitare i malati è stato un grande peso. Anche il servizio della carità, che è stato intenso, l’ho sentito molto limitato dalla mancanza di un rapporto personale, diretto con le persone assistite. Consegnare un pacco di viveri è importante ma è più bello farlo se si può scambiare due parole, conoscere le persone». Altra mancanza forte, l’oratorio: «Mi mancano molto le voci dei ragazzi, il doposcuola, le attività sportive… Non è solo un servizio che offriamo alla città, è un modo di essere Chiesa che non è stato possibile vivere».Per il resto, dice, «Abbiamo cercato di non interrompere i legami con le persone, come era possibile». Poi finalmente il ritorno dei fedeli alla Messa: «Mi sembra che la voce orante della comunità sia più squillante: nonostante le mascherine sento l’amen più forte, più bello. Abbiamo ripreso a pieno ritmo anche le confessioni: ascoltiamo dolori, drammi, difficoltà, tanti di noi hanno sperimentato la propria fragilità. Qualcuno era arrabbiato con Dio, lo abbiamo aiutato a riconoscere che questa rabbia faceva male solo a lui». Della sua vita da prete, don Stefano dice: «Mi sono riavvicinato all’essenzialità del ministero, la distanza dalle persone e dalle attività a volte serve anche a capire meglio. Ho sentito molto la fraternità, l’essere tutti sulla stessa barca di cui ci ha parlato il Papa».Don Andrea Malacarne festeggia, in questo mese di giugno, dieci anni di sacerdozio. È parroco a Torrita di Siena e Montefollonico, nella diocesi di Montepulciano – Chiusi – Pienza. «Quando ho celebrato la Messa in questi mesi non mi sono mai sentito solo – racconta – perché sapevo che i miei parrocchiani erano con me. Ho sempre ricordato loro che il Signore non ci lascia mai soli, che anche in questo tempo era con noi». Non nega, don Andrea, che sia stato un tempo difficile, ricorda i tanti malati, i morti che ha dovuto accompagnare al cimitero con una semplice benedizione. Questi mesi hanno mostrato anche quanto per la gente sia importante la figura del prete: «In tanti mi hanno cercato per una parola di conforto, una preghiera… E tanti mi hanno detto quanto gli faceva bene sentire il suono delle campane».Un tempo anche per pensare al futuro: «Molte delle persone che vengono in chiesa oggi sono anziane, e ho pensato anche che potremmo trovarci a celebrare spesso in una chiesa vuota, o quasi. Questo però non è motivo di scoraggiamento, ma di maggiore impegno e zelo pastorale». Perché il modo di fare il prete può cambiare col cambiare dei tempi e delle situazioni. Ma l’essenzialità del suo ministero, essere al servizio di Dio e del suo popolo, è sempre la stessa.