Benedetto XVI
Visita in Turchia (28 novembre – 1° dicembre 2006)
Nel pomeriggio di martedì, 28 novembre 2006 il Papa ha raggiunto in auto la Presidenza per gli Affari Religiosi “Diyanet” di Ankara per l’incontro con il Presidente per gli Affari Religiosi, il professor Ali Bardakoglu. Concluso l’incontro privato, Benedetto XVI e il Presidente per gli Affari Religiosi si sono recati nella Conference Room della “Diyanet”. Qui, dopo il discorso del Presidente per gli Affari Religiosi, il Papa ha pronunciato in inglese il discorso che riportiamo di seguito nella traduzione italiana.
Eccellenze, Signore e Signori!
Sono grato dell’opportunità di visitare questa terra, così ricca di storia e di cultura, per ammirarne le bellezze naturali, per vedere con i miei occhi la creatività del Popolo turco, e per gustare la vostra antica cultura come pure la vostra lunga storia, sia civile che religiosa.
Appena sono giunto in Turchia, sono stato gentilmente ricevuto dal Presidente della Repubblica. E’ stato per me un grande onore incontrare anche e salutare il Primo Ministro, Signor Erdoðan, all’aeroporto. Nel salutarli, ho avuto il piacere di esprimere il mio profondo rispetto per tutti gli abitanti di questa grande Nazione e di onorare, nel suo Mausoleo, il fondatore della moderna Turchia, Mustafa Kemal Atatürk.
Ora ho la gioia di incontrare Lei, che è il Presidente del Direttorato degli Affari Religiosi. Le porgo l’espressione dei miei sentimenti di stima, riconoscendo le Sue grandi responsabilità, ed estendo il mio saluto a tutti i leader religiosi della Turchia, specialmente ai Gran Muftì di Ankara e Istanbul. Nella Sua persona, Signor Presidente, saluto tutti i musulmani della Turchia con particolare stima ed affettuosa considerazione.
Il Suo Paese è molto caro ai cristiani: molte delle primitive comunità della Chiesa furono fondate qui e vi raggiunsero la maturità, ispirate dalla predicazione degli Apostoli, particolarmente di san Paolo e di san Giovanni. La tradizione giunta sino a noi afferma che Maria, la Madre di Gesù, visse ad Efeso, nella casa dell’apostolo san Giovanni.
Questa nobile terra ha visto, inoltre, una ragguardevole fioritura della civiltà islamica nei più svariati campi, inclusa la letteratura e l’arte, come pure le istituzioni.
Vi sono tantissimi monumenti cristiani e musulmani che testimoniano il glorioso passato della Turchia. Voi ne andate giustamente fieri, preservandoli per l’ammirazione di un numero sempre crescente di visitatori che qui accorrono numerosi.
Mi sono preparato a questa visita in Turchia con i medesimi sentimenti espressi dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII, quando giunse qui come Arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli, per adempiere l’incarico di Rappresentante Pontificio ad Istanbul: “Io sento di voler bene al Popolo turco affermò -, presso il quale il Signore mi ha mandato… Io amo i Turchi, apprezzo le qualità naturali di questo Popolo, che ha pure il suo posto preparato nel cammino della civilizzazione” (Giornale dell’anima, 231.237).
Per parte mia, desidero anch’io sottolineare le qualità della popolazione turca. Qui faccio mie le parole del mio immediato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II di beata memoria, il quale disse, in occasione della sua visita nel 1979: “Mi domando se non sia urgente, proprio oggi in cui i cristiani e i musulmani sono entrati in un nuovo periodo della storia, riconoscere e sviluppare i vincoli spirituali che ci uniscono, al fine di ‘promuovere e difendere insieme i valori morali, la pace e la libertà'” (Alla comunità cattolica di Ankara, 29 novembre 1979, 3).
Tali questioni hanno continuato a presentarsi lungo gli anni successivi; in effetti, come ho rilevato proprio all’inizio del mio Pontificato, esse ci sospingono a portare avanti il nostro dialogo come un sincero scambio tra amici. Quando ebbi la gioia di incontrare i membri delle comunità islamiche lo scorso anno a Colonia, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, ho ribadito la necessità di affrontare il dialogo interreligioso e interculturale con ottimismo e speranza. Esso non può essere ridotto ad un extra opzionale: al contrario, esso è “una necessità vitale, dalla quale dipende in larga misura il nostro futuro” (Ai rappresentanti delle comunità islamiche, Colonia, 20 agosto 2005).
I cristiani e i musulmani, seguendo le loro rispettive religioni, richiamano l’attenzione sulla verità del carattere sacro e della dignità della persona. È questa la base del nostro reciproco rispetto e stima, questa è la base per la collaborazione al servizio della pace fra nazioni e popoli, il desiderio più caro di tutti i credenti e di tutte le persone di buona volontà.
Per più di quarant’anni, l’insegnamento del Concilio Vaticano II ha ispirato e guidato l’approccio della Santa Sede e delle Chiese locali di tutto il mondo nei rapporti con i seguaci delle altre religioni. Seguendo la tradizione biblica, il Concilio insegna che tutto il genere umano condivide un’origine comune e un comune destino: Dio, nostro Creatore e termine del nostro pellegrinaggio terreno. I cristiani e i musulmani appartengono alla famiglia di quanti credono nell’unico Dio e che, secondo le rispettive tradizioni, fanno riferimento ad Abramo (cfr Concilio Vaticano II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate, 1,3). Questa unità umana e spirituale nelle nostre origini e nei nostri destini ci sospinge a cercare un comune itinerario, mentre facciamo la nostra parte in quella ricerca di valori fondamentali che è così caratteristica delle persone del nostro tempo. Come uomini e donne di religione, siamo posti di fronte alla sfida della diffusa aspirazione alla giustizia, allo sviluppo, alla solidarietà, alla libertà, alla sicurezza, alla pace, alla difesa dell’ambiente e delle risorse della terra. Ciò perché anche noi, mentre rispettiamo la legittima autonomia delle cose temporali, abbiamo un contributo specifico da offrire nella ricerca di soluzioni adatte a tali pressanti questioni.
In particolare, possiamo offrire una risposta credibile alla questione che emerge chiaramente dalla società odierna, anche se essa è spesso messa da parte, la questione, cioè, riguardante il significato e lo scopo della vita, per ogni individuo e per l’intera umanità. Siamo chiamati ad operare insieme, così da aiutare la società ad aprirsi al trascendente, riconoscendo a Dio Onnipotente il posto che Gli spetta. Il modo migliore per andare avanti è quello di un dialogo autentico fra cristiani e musulmani, basato sulla verità ed ispirato dal sincero desiderio di conoscerci meglio l’un l’altro, rispettando le differenze e riconoscendo quanto abbiamo in comune. Ciò contemporaneamente porterà ad un autentico rispetto per le scelte responsabili che ogni persona compie, specialmente quelle che attengono ai valori fondamentali e alle personali convinzioni religiose.
Come esempio del rispetto fraterno con cui cristiani e musulmani possono operare insieme, mi piace citare alcune parole indirizzate da Papa Gregorio VII, nell’anno 1076, ad un principe musulmano del Nord Africa, che aveva agito con grande benevolenza verso i cristiani posti sotto la sua giurisdizione. Papa Gregorio VII parlò della speciale carità che cristiani e musulmani si devono reciprocamente, poiché “noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, ogni giorno lo lodiamo e veneriamo come Creatore dei secoli e governatore di questo mondo” (PL 148, 451).
La libertà di religione, garantita istituzionalmente ed effettivamente rispettata, sia per gli individui sia per le comunità, costituisce per tutti i credenti la condizione necessaria per il loro leale contributo all’edificazione della società, in atteggiamento di autentico servizio, specialmente nei confronti dei più vulnerabili e dei più poveri.
Signor Presidente, desidero terminare dando lode all’Onnipotente e Misericordioso Iddio per questa felice occasione che ci consente di trovarci insieme nel suo nome. Prego affinché questo sia un segno del nostro comune impegno al dialogo fra cristiani e musulmani, come pure un incoraggiamento a perseverare lungo questa via, nel rispetto e nell’amicizia. Auspico che possiamo giungere a conoscerci meglio, rafforzando i vincoli di affetto fra di noi, nel comune desiderio di vivere insieme in armonia, in pace e nella vicendevole fiducia. Come credenti, noi traiamo dalla preghiera la forza necessaria per superare ogni traccia di pregiudizio e offrire comune testimonianza della nostra salda fede in Dio. Possa la sua benedizione essere sempre sopra di noi! Grazie!
Martedì, 28 novembre 2006, lasciata la “Diyanet”, il Papa si è trasferito in auto alla Nunziatura Apostolica di Ankara per l’incontro con i Capi Missione del Corpo Diplomatico. Qui, introdotto dalla presentazione del Nunzio Apostolico, monsignor Antonio Lucibello e dall’indirizzo di saluto del Vice-Decano del Corpo Diplomatico, l’Ambasciatore del Libano Georges H. Siam, il Santo Padre ha pronunciato in francese il discorso che riportiamo di seguito nella traduzione italiana.
ho preparato il mio discorso in francese in quanto lingua della diplomazia, e spero che potrà essere compreso.
Vi saluto con grande gioia, voi che, come Ambasciatori, esercitate il nobile incarico di rappresentare i vostri Paesi presso la Repubblica di Turchia e che volentieri avete voluto incontrare il Successore di Pietro in questa Nunziatura. Ringrazio il vostro Vice-Decano, il Signor Ambasciatore del Libano, per le amabili parole che mi ha or ora rivolto. Sono lieto di confermare la stima che la Santa Sede ha innumerevoli volte espresso per le vostre alte funzioni, che rivestono oggi una dimensione sempre più globale. In effetti, se la vostra missione vi porta prima di tutto a proteggere e a promuovere gli interessi legittimi delle singole vostre Nazioni, “l’inevitabile interdipendenza che oggi collega sempre di più tutti i popoli del mondo invita tutti i diplomatici a essere, in uno spirito sempre nuovo e originale, gli artefici dell’intesa tra i popoli, della sicurezza internazionale e della pace tra le Nazioni” (Giovanni Paolo II, Discorso al Corpo Diplomatico, Messico, 26 gennaio 1979).
Desidero anzitutto evocare davanti a voi il ricordo delle memorabili visite dei miei due predecessori in Turchia, il Papa Paolo VI, nel 1967, e il Papa Giovanni Paolo II, nel 1979. Parimenti, come non far memoria del papa Benedetto XV, artefice infaticabile della pace nel corso del primo conflitto mondiale, e del Beato Giovanni XXIII, il Papa “amico dei Turchi”, che fu Delegato Apostolico in Turchia e Amministratore Apostolico del Vicariato latino di Istanbul, lasciando in tutti il ricordo di un pastore attento e colmo di carità, desideroso in maniera speciale di incontrare e conoscere la popolazione turca, della quale era ospite riconoscente! Sono pertanto lieto di essere oggi ospite della Turchia, giunto qui come amico e come apostolo del dialogo e della pace.
Oltre quarant’anni orsono, il Concilio Vaticano II scriveva che “la pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi al solo rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti”, ma “è il frutto dell’ordine impresso nell’umana società dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta” (Gaudium et spes, 78). In realtà, abbiamo imparato che la vera pace ha bisogno della giustizia, per correggere le disuguaglianze economiche e i disordini politici che sono sempre fattori di tensioni e minacce in tutta la società. Lo sviluppo recente del terrorismo e l’evoluzione di certi conflitti regionali, d’altra parte, hanno posto in evidenza la necessità di rispettare le decisioni delle Istituzioni internazionali ed anzi di sostenerle, dotandole in particolare di mezzi efficaci per prevenire i conflitti e per mantenere, grazie a forze di interposizione, zone di neutralità fra i belligeranti. Questo rimane, tuttavia, insufficiente se non si giunge al vero dialogo, cioè alla concertazione tra le esigenze delle parti coinvolte, al fine di giungere a soluzioni politiche accettabili e durature, rispettose delle persone e dei popoli. Penso, in modo particolare, al conflitto del Medio Oriente, che perdura in modo inquietante pesando su tutta la vita internazionale, con il rischio di veder espandersi conflitti periferici e diffondersi le azioni terroristiche; saluto gli sforzi di numerosi Paesi che si sono impegnati oggi nella ricostruzione della pace in Libano, e fra di essi la Turchia. Faccio appello ancora una volta, davanti a voi, Signore e Signori Ambasciatori, alla vigilanza della comunità internazionale perché non si sottragga alle sue responsabilità e dispieghi tutti gli sforzi necessari per promuovere, tra tutte le parti in causa, il dialogo, che solo permette di assicurare il rispetto verso gli altri, pur salvaguardando gli interessi legittimi e rifiutando il ricorso alla violenza. Come avevo scritto nel mio primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, “La verità della pace chiama tutti a coltivare relazioni feconde e sincere, stimola a ricercare e a percorrere le strade del perdono e della riconciliazione, ad essere trasparenti nelle trattazioni e fedeli alla parola data” (1° gennaio 2006, n. 6).
La Turchia, che da sempre si trova in una situazione di ponte fra l’Oriente e l’Occidente, fra il Continente asiatico e quello europeo, di incrocio di culture e di religioni, si è dotata nel secolo scorso dei mezzi per divenire un grande Paese moderno, in particolare facendo la scelta di un regime di laicità, distinguendo chiaramente la società civile e la religione, così da permettere a ciascuna di essere autonoma nel proprio ambito, sempre rispettando la sfera dell’altra. Il fatto che la maggioranza della popolazione di questo Paese sia musulmana costituisce un elemento significativo nella vita della società di cui lo Stato non può che tener conto, ma la Costituzione turca riconosce ad ogni cittadino i diritti alla libertà di culto e alla libertà di coscienza. È compito delle Autorità civili in ogni Paese democratico garantire la libertà effettiva di tutti i credenti e permettere loro di organizzare liberamente la vita della propria comunità religiosa. Ovviamente, mi auguro che i credenti, a qualsiasi comunità religiosa appartengano, continuino a beneficiare di tali diritti, nella certezza che la libertà religiosa è una espressione fondamentale della libertà umana e che la presenza attiva delle religioni nella società è un fattore di progresso e di arricchimento per tutti. Ciò implica, certo, che le religioni per parte loro non cerchino di esercitare direttamente un potere politico, poiché a questo non sono chiamate e, in particolare, che rinuncino assolutamente a giustificare il ricorso alla violenza come espressione legittima della pratica religiosa. Saluto a questo proposito la comunità cattolica di questo Paese, poco numerosa ma molto desiderosa di partecipare nel modo migliore allo sviluppo del Paese, specialmente attraverso l’educazione dei giovani, e l’edificazione della pace e dell’armonia tra tutti i cittadini.
Come ho recentemente ricordato, “abbiamo assolutamente bisogno d’un dialogo autentico tra le religioni e tra le culture, un dialogo in grado di aiutarci a superare insieme tutte le tensioni in uno spirito di proficua intesa” (Discorso all’incontro con gli Ambasciatori dei Paesi musulmani, Castel Gandolfo, 25 settembre 2006). Tale dialogo deve permettere alle diverse religioni di conoscersi meglio e di rispettarsi reciprocamente, al fine di agire sempre più al servizio delle aspirazioni più nobili dell’uomo, che è alla ricerca di Dio e della felicità. Desidero, per parte mia, di poter dire nuovamente durante questo viaggio in Turchia tutta la mia stima per i musulmani, invitandoli a continuare ad impegnarsi insieme, grazie al reciproco rispetto, in favore della dignità di ogni essere umano e per la crescita di una società dove la libertà personale e l’attenzione nei confronti dell’altro permettano a ciascuno di vivere nella pace e nella serenità. È così che le religioni potranno fare la loro parte nell’affrontare le numerose sfide con le quali le nostre società attualmente si confrontano. Sicuramente, il riconoscimento del ruolo positivo che svolgono le religioni in seno al corpo sociale può e deve spingere le nostre società ad approfondire sempre di più la loro conoscenza dell’uomo e a rispettarne sempre meglio la dignità, ponendolo al centro dell’azione politica, economica, culturale e sociale. Il nostro mondo deve prendere coscienza sempre più del fatto che tutti gli uomini sono profondamente solidali ed invitarli a porre in risalto le loro differenze storiche e culturali non per scontrarsi ma per rispettarsi reciprocamente.
La Chiesa, voi ben lo sapete, ha ricevuto dal suo Fondatore una missione spirituale ed essa non intende dunque intervenire direttamente nella vita politica o economica. Tuttavia, a causa della sua missione e forte della sua lunga esperienza della storia delle società e delle culture, essa si augura di far udire la propria voce nel concerto delle nazioni, perché venga sempre onorata la dignità fondamentale dell’uomo e specialmente dei più deboli. Di fronte allo sviluppo recente del fenomeno della globalizzazione degli scambi, la Santa Sede si attende dalla comunità internazionale che essa si organizzi ulteriormente, per darsi regole che permettano di governare meglio le evoluzioni economiche, di regolare i mercati, come ad esempio suscitando intese regionali fra i Paesi. Non dubito affatto, Signore e Signori, che voi abbiate a cuore, nella vostra missione di diplomatici, di far incontrare gli interessi particolari del vostro Paese e le necessità di comprendersi gli uni gli altri, e che voi possiate così contribuire grandemente al servizio di tutti.
La voce della Chiesa sulla scena diplomatica si caratterizza sempre per la volontà, contenuta nel Vangelo, di servire la causa dell’uomo, ed io mancherei a questo obbligo fondamentale se non richiamassi di fronte a voi la necessità di porre la dignità umana sempre più al centro delle nostre preoccupazioni. Lo sviluppo straordinario delle scienze e delle tecniche che il mondo oggi conosce, con le conseguenze quasi immediate per la medicina, l’agricoltura e la produzione di risorse alimentari, ma ugualmente per la comunicazione del sapere, non deve essere perseguito senza finalità e senza riferimenti, dato che si tratta della nascita dell’uomo, della sua educazione, della sua maniera di vivere e di lavorare, della sua vecchiaia e della sua morte. È più che necessario reinserire il progresso di oggi nella continuità della storia umana e dunque di gestirlo secondo il progetto che abita in noi tutti di far crescere l’umanità e che il libro della Genesi esprimeva già a suo modo: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela” (1,28). Permettetemi infine, pensando alle prime comunità cristiane cresciute in questa terra e particolarmente all’apostolo Paolo, che ne ha fondate personalmente diverse, di citare le sue parole ai Galati. Egli dice: “Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (5, 13). La libertà è servizio degli uni verso gli altri. Formulo voti affinché l’intesa fra le nazioni, da voi rispettivamente servite, contribuisca sempre di più a far crescere l’umanità dell’uomo, creato ad immagine di Dio. Un così nobile obiettivo richiede il concorso di tutti. E’ per questo che la Chiesa cattolica intende rafforzare la collaborazione con la Chiesa ortodossa e io auspico vivamente che il mio prossimo incontro con il Patriarca Bartolomeo I al Fanar vi contribuisca efficacemente. Come sottolineava il Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa cerca ugualmente di collaborare con i credenti e i responsabili di tutte le religioni, e particolarmente con i Musulmani, per “difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Nostra Aetate, n. 3). Spero che, in questa prospettiva, il mio viaggio in Turchia porti numerosi frutti.
Signore e Signori Ambasciatori, sulle vostre persone, sulle vostre famiglie e sui vostri collaboratori, invoco di gran cuore le Benedizioni dell’Altissimo.
Alle 8 di mercoledì 29 novembre, lasciata la Nunziatura Apostolica, Benedetto XVI si è recato all’aeroporto di Ankara da dove, a bordo di un Boeing 737-800 della Turkish Airlines – è partito alla volta di Izmir. Qui il Papa è stato accolto dal Governatore, dal Comandante Militare e dal Sindaco di Izmir. Dall’aeroporto si è poi trasferito in auto al Santuario di Meryem Ana Evì (Casa della Madre Maria) a Efeso. Al suo arrivo, dopo una breve sosta nella Cappella del Convento dei Frati Cappuccini annesso al Santuario, il Papa si è recato nel piazzale antistante dove ha celebrato la Santa Messa. Nel corso della Celebrazione Eucaristica, introdotta dall’indirizzo di omaggio dell’Arcivescovo di Izmir, mons. Ruggero Franceschini, O.F.M. Cap., il Papa ha pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:
Cari fratelli e sorelle,
In questa celebrazione eucaristica vogliamo rendere lode al Signore per la divina maternità di Maria, mistero che qui a Efeso, nel Concilio ecumenico del 431, venne solennemente confessato e proclamato. In questo luogo, uno dei più cari alla Comunità cristiana, sono venuti in pellegrinaggio i miei venerati predecessori i Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II, il quale sostò in questo Santuario il 30 novembre 1979, a poco più di un anno dall’inizio del suo pontificato. Ma c’è un altro mio Predecessore che in questo Paese non è stato da Papa, bensì come Rappresentante pontificio dal gennaio 1935 al dicembre del ’44, e il cui ricordo suscita ancora tanta devozione e simpatia: il beato Giovanni XXIII, Angelo Roncalli. Egli nutriva grande stima e ammirazione per il popolo turco. A questo riguardo mi piace ricordare un’espressione che si legge nel suo Giornale dell’anima: “Io amo i turchi, apprezzo le qualità naturali di questo popolo che ha pure il suo posto preparato nel cammino della civilizzazione” (n° 741). Egli, inoltre, ha lasciato in dono alla Chiesa e al mondo un atteggiamento spirituale di ottimismo cristiano, fondato su una fede profonda e una costante unione con Dio. Animato da tale spirito, mi rivolgo a questa nazione e, in modo particolare, al “piccolo gregge” di Cristo che vive in mezzo ad essa, per incoraggiarlo e manifestargli l’affetto della Chiesa intera. Con grande affetto saluto tutti voi, qui presenti, fedeli di Izmir, Mersin, Iskenderun e Antakia, e altri venuti da diverse parti del mondo; come pure quanti non hanno potuto partecipare a questa celebrazione ma sono spiritualmente uniti a noi. Saluto, in particolare, Mons. Ruggero Franceschini, Arcivescovo di Izmir, Mons. Giuseppe Bernardini, Arcivescovo emerito di Izmir, Mons. Luigi Padovese, i sacerdoti e le religiose. Grazie per la vostra presenza, per la vostra testimonianza e il vostro servizio alla Chiesa, in questa terra benedetta dove, alle origini, la comunità cristiana ha conosciuto grandi sviluppi, come attestano anche i numerosi pellegrinaggi che si recano in Turchia.
Madre di Dio Madre della Chiesa Abbiamo ascoltato il brano del Vangelo di Giovanni che invita a contemplare il momento della Redenzione, quando Maria, unita al Figlio nell’offerta del Sacrificio, estese la sua maternità a tutti gli uomini e, in particolare, ai discepoli di Gesù. Testimone privilegiato di tale evento è lo stesso autore del quarto Vangelo, Giovanni, unico degli Apostoli a restare sul Golgota insieme alla Madre di Gesù e alle altre donne. La maternità di Maria, iniziata col fiat di Nazaret, si compie sotto la Croce. Se è vero come osserva sant’Anselmo che “dal momento del fiat Maria cominciò a portarci tutti nel suo seno”, la vocazione e missione materna della Vergine nei confronti dei credenti in Cristo iniziò effettivamente quando Gesù le disse: “Donna, ecco il tuo figlio!” (Gv 19,26). Vedendo dall’alto della croce la Madre e lì accanto il discepolo amato, il Cristo morente riconobbe la primizia della nuova Famiglia che era venuto a formare nel mondo, il germe della Chiesa e della nuova umanità. Per questo si rivolse a Maria chiamandola “donna” e non “madre”; termine che invece utilizzò affidandola al discepolo: “Ecco la tua madre!” (Gv 19,27). Il Figlio di Dio compì così la sua missione: nato dalla Vergine per condividere in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana, al momento del ritorno al Padre lasciò nel mondo il sacramento dell’unità del genere umano (cfr Cost. Lumen gentium, 1): la Famiglia “adunata dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (San Cipriano, De Orat. Dom. 23: PL 4, 536), il cui nucleo primordiale è proprio questo vincolo nuovo tra la Madre e il discepolo. In tal modo rimangono saldate in maniera indissolubile la maternità divina e la maternità ecclesiale. Madre di Dio Madre dell’unità La prima Lettura ci ha presentato quello che si può definire il “vangelo” dell’Apostolo delle genti: tutti, anche i pagani, sono chiamati in Cristo a partecipare pienamente al mistero della salvezza. In particolare, il testo contiene l’espressione che ho scelto quale motto del mio viaggio apostolico: “Egli, Cristo, è la nostra pace” (Ef 2,14). Ispirato dallo Spirito Santo, Paolo afferma non soltanto che Gesù Cristo ci ha portato la pace, ma che egli “è” la nostra pace. E giustifica tale affermazione riferendosi al mistero della Croce: versando “il suo sangue” – egli dice -, offrendo in sacrificio la “sua carne”, Gesù ha distrutto l’inimicizia “in se stesso” e ha creato “in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo” (Ef 2,14-16). L’apostolo spiega in quale senso, veramente imprevedibile, la pace messianica si sia realizzata nella Persona stessa di Cristo e nel suo mistero salvifico. Lo spiega scrivendo, mentre si trova prigioniero, alla comunità cristiana che abitava qui, a Efeso: “ai santi che sono in Efeso, credenti in Cristo Gesù” (Ef 1,1), come afferma nell’indirizzo della Lettera. Ad essi l’Apostolo augura “grazia e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Ef 1,2). “Grazia” è la forza che trasforma l’uomo e il mondo; “pace” è il frutto maturo di tale trasformazione. Cristo è la grazia; Cristo è la pace. Ora, Paolo si sa inviato ad annunciare un “mistero”, cioè un disegno divino che solo nella pienezza dei tempi, in Cristo, si è realizzato e rivelato: che cioè “i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo” (Ef 3,6). Questo “mistero” si realizza, sul piano storico-salvifico, nella Chiesa, quel Popolo nuovo in cui, abbattuto il vecchio muro di separazione, si ritrovano in unità giudei e pagani. Come Cristo, la Chiesa non è solo strumento dell’unità, ma ne è anche segno efficace. E la Vergine Maria, Madre di Cristo e della Chiesa, è la Madre di quel mistero di unità che Cristo e la Chiesa inseparabilmente rappresentano e costruiscono nel mondo e lungo la storia. Domandiamo pace per Gerusalemme e il mondo intero Nota l’Apostolo delle genti che Cristo “ha fatto dei due un popolo solo” (Ef 2,14): affermazione, questa, che si riferisce in senso proprio al rapporto tra Giudei e Gentili in ordine al mistero della salvezza eterna; affermazione, però, che può anche estendersi, su piano analogico, alle relazioni tra popoli e civiltà presenti nel mondo. Cristo “è venuto ad annunziare pace” (Ef 2,17) non solo tra ebrei e non ebrei, bensì tra tutte le nazioni, perché tutte provengono dallo stesso Dio, unico Creatore e Signore dell’universo. Confortati dalla Parola di Dio, da qui, da Efeso, città benedetta dalla presenza di Maria Santissima che sappiamo essere amata e venerata anche dai musulmani eleviamo al Signore una speciale preghiera per la pace tra i popoli. Da questo lembo della Penisola anatolica, ponte naturale tra continenti, invochiamo pace e riconciliazione anzitutto per coloro che abitano nella Terra che chiamiamo “santa”, e che tale è ritenuta sia dai cristiani, che dagli ebrei e dai musulmani: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, destinata ad ospitare un popolo che diventasse benedizione per tutte le genti (cfr Gn 12,1-3). Pace per l’intera umanità! Possa presto realizzarsi la profezia di Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, / le loro lance in falci; / un popolo non alzerà più la spada contro una altro popolo, / non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2,4). Di questa pace universale abbiamo tutti bisogno; di questa pace la Chiesa è chiamata ad essere non solo annunciatrice profetica ma, più ancora, “segno e strumento”. Proprio in questa prospettiva di universale pacificazione, più profondo ed intenso si fa l’anelito verso la piena comunione e concordia fra tutti i cristiani. All’odierna celebrazione sono presenti fedeli cattolici di diversi Riti, e questo è motivo di gioia e di lode a Dio. Tali Riti, infatti, sono espressione di quella mirabile varietà di cui è adornata la Sposa di Cristo, purché sappiano convergere nell’unità e nella comune testimonianza. Esemplare a tal fine dev’essere l’unità tra gli Ordinari nella Conferenza Episcopale, nella comunione e nella condivisione degli sforzi pastorali. Magnificat La liturgia odierna ci ha fatto ripetere, come ritornello al Salmo responsoriale, il cantico di lode che la Vergine di Nazaret proclamò nell’incontro con l’anziana parente Elisabetta (cfr Lc 1,39). Consolanti sono pure risuonate nei nostri cuori le parole del salmista: “misericordia e verità s’incontreranno, / giustizia e pace si baceranno” (Sal 84, v. 11). Cari fratelli e sorelle, con questa visita ho voluto far sentire l’amore e la vicinanza spirituale non solo miei, ma della Chiesa universale alla comunità cristiana che qui, in Turchia, è davvero una piccola minoranza ed affronta ogni giorno non poche sfide e difficoltà. Con salda fiducia cantiamo, insieme a Maria, il “magnificat” della lode e del ringraziamento a Dio, che guarda l’umiltà della sua serva (cfr Lc 1,47-48). Cantiamolo con gioia anche quando siamo provati da difficoltà e pericoli, come attesta la bella testimonianza del sacerdote romano Don Andrea Santoro, che mi piace ricordare anche in questa nostra celebrazione. Maria ci insegna che fonte della nostra gioia ed unico nostro saldo sostegno è Cristo, e ci ripete le sue parole: “Non temete” (Mc 6,50), “Io sono con voi” (Mt 28,20). E tu, Madre della Chiesa, accompagna sempre il nostro cammino! Santa Maria Madre di Dio prega per noi! Aziz Meryem Mesih’in Annesi bizim için Dua et“. Amen.
Nel pomeriggio di martedì 29 novembre, Benedetto XVI è arrivato in aereo a Istanbul e si è recato in auto al Patriarcato Ecumenico. Qui, alle ore 19.30 si è recato per un momento di preghiera con il patriarca Bartolomeo I nella Chiesa Patriarcale di S. Giorgio al Fanar, che sorge accanto al Patriarcato e che custodisce le reliquie di alcune sante dell’antica Costantinopoli, tra cui Eufemia di Calcedonia, e parte delle reliquie dei Santi Padri della Chiesa di Costantinopoli, Gregorio il Teologo e Giovanni Crisostomo, già conservate in San Pietro e consegnate il 27 novembre 2004 da Papa Giovanni Paolo II al Patriarca Bartolomeo I. Quindi, dopo il discorso del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Benedetto XVI ha pronunciato in inglese il saluto che riportiamo di seguito nella traduzione italiana.
“Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133, 1)
Santità,
sono profondamente grato per l’accoglienza fraterna offertami da Lei personalmente, come pure dal Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico e ne custodirò per sempre memoria nel mio cuore con apprezzamento. Ringrazio il Signore per il dono di questo incontro, così ripieno di autentica buona volontà e di significato ecclesiale.
Mi è di grande gioia essere fra di voi, fratelli in Cristo, in questa Chiesa Cattedrale, mentre preghiamo insieme il Signore e ricordiamo gli importanti eventi che hanno sostenuto il nostro impegno per lavorare alla piena unità di cattolici e ortodossi. Desidero, anzitutto, ricordare la coraggiosa decisione di rimuovere la memoria degli anatemi del 1054. La dichiarazione comune di Papa Paolo VI e del Patriarca Atenagora, scritta nello spirito di un amore riscoperto, fu letta solennemente in una cerimonia tenutasi simultaneamente nella Basilica di san Pietro a Roma e in questa Cattedrale Patriarcale. Il Tomos del Patriarca era basato sulla professione di fede Giovannea: “Ho Theós agapé estín” (1 Gv 4,9), Deus caritas est! Con perfetta sintonia, Papa Paolo VI scelse di cominciare la propria Lettera con l’esortazione paolina: “Ambulate in dilectione” (Ef 5,2), “Camminate nella carità”. È su questo fondamento di reciproco amore che nuove relazioni fra le Chiese di Roma e Costantinopoli si sono sviluppate.
Segni di questo amore sono stati evidenti in numerose dichiarazioni di impegno condiviso e di molti gesti colmi di significato. Sia Paolo VI sia Giovanni Paolo II sono stati ricevuti con calore quali visitatori in questa chiesa di san Giorgio e si sono rispettivamente associati ai Patriarchi Atenagora I e Demetrio I nel rafforzare la spinta verso la reciproca comprensione e la ricerca della piena unità. Siano onorati e benedetti i loro nomi!
Mi rallegro, inoltre, di essere in questa terra così strettamente collegata con la fede cristiana, dove molte Chiese fiorirono nei tempi antichi. Penso alle esortazioni di san Pietro alle primitive comunità cristiane “nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia ” (1 Pt 1, 1), e la ricca messe di martiri, di teologi, di pastori, di monaci, e di santi uomini e donne che queste Chiese hanno generato attraverso i secoli.
Allo stesso modo ricordo gli insigni santi e pastori che hanno vigilato sulla Sede di Costantinopoli, fra i quali san Gregorio di Nazianzo e san Giovanni Crisostomo, che anche l’Occidente venera come Dottori della Chiesa. Le loro reliquie riposano nella Basilica di san Pietro in Vaticano, e parte di esse furono donate a Vostra Santità quale segno di comunione dal defunto Papa Giovanni Paolo II, affinché fossero venerate in questa Cattedrale. In verità, essi sono degni intercessori per noi davanti al Signore.
In questa parte del mondo orientale si sono tenuti i sette Concili Ecumenici che Ortodossi e Cattolici riconoscono come autorevoli per la fede e la disciplina della Chiesa. Essi costituiscono permanenti pietre miliari e guide lungo il cammino verso la piena unità.
Concludo esprimendo ancora una volta la mia gioia di essere fra di voi. Che questo incontro rafforzi il nostro mutuo affetto e rinnovi il nostro comune impegno a perseverare nell’itinerario che porta alla riconciliazione e alla pace delle Chiese.
Alle 9.30 di giovedì 30 novembre, memoria liturgica dell’Apostolo Andrea, santo Patrono della Chiesa di Costantinopoli, dopo la celebrazione della Santa Messa in privato nella Cappella della Rappresentanza Pontificia di Istanbul, Benedetto XVI si è recato nella Chiesa Patriarcale di S. Giorgio al Fanar dove, accolto dal Patriarca Ecumenico, ha assistito alla Divina Liturgia. Al termine della Divina Liturgia bizantina, dopo il discorso del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, il Papa ha pronunciato in inglese il discorso che riportiamo di seguito.
Questa Divina Liturgia celebrata nella festa di sant’Andrea Apostolo, santo Patrono della Chiesa di Costantinopoli, ci porta indietro alla Chiesa primitiva, all’epoca degli Apostoli. I Vangeli di Marco e di Matteo riferiscono su come Gesù chiamò i due fratelli, Simone, a cui Gesù attribuì il nome di Cefa o Pietro, e Andrea: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19; Mc 1,17). Il quarto Vangelo, inoltre, presenta Andrea come il primo chiamato, “ho protoklitos“, come egli è conosciuto nella tradizione bizantina. È Andrea che porta da Gesù il proprio fratello Simone (cfr Gv 1, 40 ss).
Oggi, in questa Chiesa Patriarcale di san Giorgio, siamo in grado di sperimentare ancora una volta la comunione e la chiamata dei due fratelli, Simon Pietro e Andrea, nell’incontro fra il Successore di Pietro e il suo Fratello nel ministero episcopale, il capo di questa Chiesa, fondata secondo la tradizione dall’apostolo Andrea. Il nostro incontro fraterno sottolinea la relazione speciale che unisce le Chiese di Roma e di Costantinopoli quali Chiese Sorelle.
Con gioia cordiale ringraziamo Dio perché dà nuova vitalità alla relazione sviluppatasi sin dal memorabile incontro a Gerusalemme, nel dicembre del 1964, fra i nostri predecessori, il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora. Il loro scambio di lettere, pubblicato nel volume intitolato Tomos Agapis, testimonia la profondità dei legami che crebbero fra di loro, legami che si rispecchiano nella relazione fra le Chiese Sorelle di Roma e di Costantinopoli.
Il 7 dicembre del 1965, alla vigila della sessione finale del Concilio Vaticano II, i nostri venerati predecessori intrapresero un passo nuovo ed unico e indimenticabile rispettivamente nella Chiesa Patriarcale di san Giorgio e nella Basilica di san Pietro in Vaticano: essi rimossero dalla memoria della Chiesa le tragiche scomuniche del 1054. In tal modo essi confermarono un cambiamento decisivo nei nostri rapporti. Da allora, molti altri passi importanti sono stati intrapresi lungo il cammino del reciproco riavvicinamento. Ricordo in particolare la visita del mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, a Costantinopoli nel 1979 e le visite a Roma del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I.
In quello stesso spirito, la mia presenza qui oggi è destinata a rinnovare il comune impegno per proseguire sulla strada verso il ristabilimento con la grazia di Dio della piena comunione fra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli. Posso assicurarvi che la Chiesa Cattolica è pronta a fare tutto il possibile per superare gli ostacoli e per ricercare, insieme con i nostri fratelli e sorelle ortodossi, mezzi sempre più efficaci di collaborazione pastorale a tale scopo.
I due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, erano dei pescatori che Gesù chiamò a diventare pescatori di uomini. Il Signore Risorto, prima della sua Ascensione, li inviò insieme agli altri Apostoli con la missione di fare discepole tutte le nazioni, battezzandole e proclamando i suoi insegnamenti (cfr Mt 28,19 ss; Lc 24,47; At 1,8).
Questo incarico lasciatoci dai santi fratelli Pietro e Paolo è lungi dall’essere compiuto. Al contrario, oggi esso è ancora più urgente e necessario. Esso infatti riguarda non soltanto le culture toccate marginalmente dal messaggio del Vangelo, ma anche le culture europee da lunga data profondamente radicate nella tradizione cristiana. Il processo di secolarizzazione ha indebolita la tenuta di quella tradizione; essa anzi è posta in questione e persino rigettata. Di fronte a questa realtà, siamo chiamati, insieme con tutte le altre comunità cristiane, a rinnovare la consapevolezza dell’Europa circa le proprie radici, tradizioni e valori cristiani, ridando loro nuova vitalità.
I nostri sforzi per edificare legami più stretti fra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse sono parte di questo compito missionario. Le divisioni esistenti fra i cristiani sono uno scandalo per il mondo ed un ostacolo per la proclamazione del Vangelo. Alla vigilia della propria passione e morte, il Signore, attorniato dai discepoli, pregò con fervore che essi fossero uno, così che il mondo possa credere (cfr Gv 17,21). È solo attraverso la comunione fraterna tra i cristiani e attraverso il reciproco amore che il messaggio dell’amore di Dio per ogni uomo e donna diverrà credibile. Chiunque getti uno sguardo realistico al mondo cristiano oggi scoprirà l’urgenza di tale testimonianza.
Simon Pietro e Andrea furono chiamati insieme a diventare pescatori di uomini. Ma lo stesso impegno prese forme differenti per ciascuno dei due fratelli. Simone, nonostante la sua personale fragilità, fu chiamato “Pietro”, la “roccia” sulla quale sarebbe stata edificata la Chiesa; a lui in maniera particolare furono affidate le chiavi del Regno dei Cieli (cfr Mt 16,18). Il suo itinerario lo avrebbe condotto da Gerusalemme ad Antiochia, e da Antiochia a Roma, così che in quella città egli potesse esercitare una responsabilità universale. Il tema del servizio universale di Pietro e dei suoi Successori ha sfortunatamente dato origine alle nostre differenze di opinione, che speriamo di superare, grazie anche al dialogo teologico, ripreso di recente.
Il mio venerato predecessore, il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, parlò della misericordia che caratterizza il servizio all’unità di Pietro, una misericordia che Pietro stesso sperimentò per primo (Enciclica Ut unum sint, 91). Su questa base il Papa Giovanni Paolo fece l’invito ad entrare in dialogo fraterno, con lo scopo di identificare vie nelle quali il ministero petrino potrebbe essere oggi esercitato, pur rispettandone la natura e l’essenza, così da “realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (ibid., 95). È mio desiderio oggi richiamare e rinnovare tale invito.
Andrea, il fratello di Simon Pietro, ricevette un altro incarico dal Signore, un incarico che il suo stesso nome suggeriva. Essendo in grado di parlare greco, divenne insieme a Filippo l’Apostolo dell’incontro con i Greci venuti da Gesù (cfr Gv 12,20 ss). La tradizione ci racconta che fu missionario non soltanto nell’Asia Minore e nei territori a sud del Mar Nero, cioè in questa stessa regione, ma anche in Grecia, dove patì il martirio.
Pertanto, l’apostolo Andrea rappresenta l’incontro fra la cristianità primitiva e la cultura greca. Questo incontro, particolarmente nell’Asia Minore, divenne possibile grazie specialmente ai grandi Padri della Cappadocia, che arricchirono la liturgia, la teologia e la spiritualità sia delle Chiese Orientali sia di quelle Occidentali. Il messaggio cristiano, come il chicco di grano (cfr Gv 12,24), è caduto su questa terra e ha portato molto frutto. Dobbiamo essere profondamente grati per l’eredità che è derivata dal fruttuoso incontro fra il messaggio cristiano e la cultura ellenica. Ciò ha avuto un impatto duraturo sulle Chiese dell’Oriente e dell’Occidente. I Padri Greci ci hanno lasciato un prezioso tesoro dal quale la Chiesa continua ad attingere ricchezze antiche e nuove (cfr Mt 13,52).
La lezione del chicco di grano che muore per portare frutto ha pure un riscontro nella vita di sant’Andrea. La tradizione ci racconta che egli seguì il destino del suo Signore e Maestro, finendo i propri giorni a Patrasso, in Grecia. Come Pietro, egli subì il martirio su una croce, quella diagonale che veneriamo oggi come la croce di sant’Andrea. Dal suo esempio apprendiamo che il cammino di ogni singolo cristiano, come quello della Chiesa tutta intera, porta a vita nuova, alla vita eterna, attraverso l’imitazione di Cristo e l’esperienza della croce.
Nel corso della storia, entrambe le Chiese di Roma e di Costantinopoli hanno spesso sperimentato la lezione del chicco di grano. Insieme noi veneriamo molti dei medesimi martiri il cui sangue, secondo le celebri parole di Tertulliano, è divenuto seme di nuovi cristiani (Apologeticum 50,13). Con loro, condividiamo la stessa speranza che obbliga la Chiesa a proseguire “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (Lumen gentiumDe Civitate Dei, XVIII, 51,2). Per parte sua, anche il secolo appena trascorso ha visto coraggiosi testimoni della fede, sia in Oriente sia in Occidente. Anche oggi vi sono molti di tali testimoni in diverse parti del mondo. Li ricordiamo nella nostra preghiera e, in ogni modo possibile, offriamo loro il nostro sostegno, mentre chiediamo con insistenza a tutti i leader del mondo di rispettare la libertà religiosa come diritto umano fondamentale.
La Divina Liturgia alla quale abbiamo partecipato è stata celebrata secondo il rito di san Giovanni Crisostomo. La croce e la risurrezione di Gesù Cristo sono state rese misticamente presenti. Per noi cristiani questo è sorgente e segno di una speranza costantemente rinnovata. Troviamo tale speranza magnificamente espressa nell’antico testo conosciuto come Passione di sant’Andrea: “Ti saluto, o Croce, consacrata dal Corpo di Cristo e adorna delle sue membra come di pietre preziose… Che i fedeli conoscano la tua gioia, e i doni che in te sono conservati…”.
Questa fede nella morte redentrice di Gesù sulla croce e questa speranza che Cristo risorto offre all’intera famiglia umana, sono da noi tutti condivise, Ortodossi e Cattolici. Che la nostra preghiera ed attività quotidiane siano ispirate dal fervente desiderio non soltanto di essere presenti alla Divina Liturgia, ma di essere in grado di celebrarla insieme, per prendere parte all’unica mensa del Signore, condividendo il medesimo pane e lo stesso calice. Che il nostro incontro odierno serva come spinta e gioiosa anticipazione del dono della piena comunione. E che lo Spirito di Dio ci accompagni nel nostro cammino!
Conclusa la visita alla Moschea Blu, il Papa si è reca alla Cattedrale Armena Apostolica di Istanbul, dedicata alla Santa Madre di Dio, dove è accolto da Sua Beatitudine il Patriarca Mesrob II Mutafyan.
Nel corso della Celebrazione della Parola, dopo il discorso del Patriarca Armeno Apostolico, il Santo Padre Benedetto XVI pronuncia il saluto che riportiamo di seguito:
Carissimo Fratello in Cristo,
sono lieto di avere questa opportunità di incontrare Vostra Beatitudine in questo stesso luogo dove il Patriarca Kalustian ha accolto i miei predecessori Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II. Con grande affetto saluto l’intera comunità armena apostolica a cui Ella presiede come pastore e padre spirituale. Estendo il mio saluto fraterno anche a Sua Santità Karekin II, Catholicos della Santa Etchmiadzin, e alla gerarchia della Chiesa Armena Apostolica. Rendo grazie a Dio per la fede e la testimonianza cristiana del popolo armeno, trasmesse da una generazione all’altra, spesso in circostanze davvero tragiche come quelle sperimentate durante il secolo passato.
Il nostro incontro è ben più che un semplice gesto di cortesia ecumenica e di amicizia. È un segno della nostra speranza condivisa nelle promesse di Dio e del nostro desiderio di vedere adempiuta la preghiera che Gesù elevò per i suoi discepoli alla vigilia della sua passione e morte: “Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Gesù diede la propria vita sulla croce per radunare nell’unità i figli di Dio dispersi, per abbattere i muri di divisione. Mediante il sacramento del Battesimo, siamo stati incorporati nel Corpo di Cristo, la Chiesa. Le tragiche divisioni che, lungo il tempo, sono sorte fra i seguaci di Cristo contraddicono apertamente alla volontà del Signore, sono di scandalo al mondo e danneggiano la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura (cfr Unitatis redintegratio, 1). Proprio mediante la testimonianza della propria fede e del proprio amore, i cristiani sono chiamati ad offrire un segno raggiante di speranza e di consolazione a questo mondo, così segnato da conflitti e da tensioni. Dobbiamo perciò continuare a fare tutto il possibile per curare le ferite della separazione ed affrettare l’opera di ricostruzione dell’unità dei cristiani. Faccio voti affinché siamo guidati, in questo compito urgente, dalla luce e dalla forza dello Spirito Santo.
A tale proposito, posso solo elevare un sentito grazie al Signore per la sempre più profonda relazione fraterna sviluppatasi fra la Chiesa Apostolica Armena e la Chiesa Cattolica. Nel XIII secolo Nerses di Lambron, uno dei grandi Dottori della Chiesa Armena, scrisse le seguenti parole di incoraggiamento: “Ora, poiché tutti abbiamo bisogno della pace con Dio, facciamo sì che l’armonia tra fratelli ne sia il fondamento. Abbiamo pregato Dio per la pace e continuiamo a farlo. Ecco, egli la sta offrendo a noi come un dono: accogliamolo! Abbiamo chiesto al Signore di rendere salda la sua santa Chiesa, ed egli ha positivamente ascoltato la nostra invocazione. Saliamo, dunque la montagna della fede del Vangelo” (Il primato della carità, Ed. Qiqajon, p. 81). Queste parole di Nerses non hanno perduto niente del loro potere. Continuiamo a pregare insieme per l’unità di tutti i cristiani, così che, ricevendo tale dono dall’alto con cuori disponibili, noi possiamo essere testimoni sempre più convincenti della verità del Vangelo e migliori servitori della missione della Chiesa.
Venerdì 1° dicembre 2006, alle 8.30, Benedetto XVI ha raggiunto la Cattedrale dello Spirito Santo di Istanbul. Accolto al Suo arrivo dagli Ordinari Cattolici di Turchia, il Papa ha benetto – nel cortile antistante la chiesa – una statua del Beato Giovanni XXIII, opera dello scultore Carlo Balljana, che verrà poi collocata nella locale chiesa di Sant’Antonio. Alle ore 9 ha presieduto nella Cattedrale la celebrazione della Santa Messa in rito latino, alla quale hanno preso parte anche rappresentanze delle comunità cattoliche di Turchia appartenenti ai diversi riti orientali. Erano presenti il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, e il Patriarca armeno, Mesrob II, e diversi rappresentanti delle altre comunità ecclesiali e delle altre religioni. Nel corso della Celebrazione Eucaristica, introdotta dal saluto del Vicario Apostolico Latino di Istanbul, mons. Louis Pelâtre, dopo la proclamazione del Vangelo il Santo Padre ha pronunciato in francese l’omelia che riportiamo di seguito nella traduzione italiana:
Cari Fratelli e Sorelle,
al termine del mio viaggio pastorale in Turchia, sono lieto di incontrare la comunità cattolica di Istanbul e di celebrare con essa l’Eucaristia per rendere grazie al Signore di tutti i suoi doni. Desidero salutare anzitutto il Patriarca di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, come anche il Patriarca armeno, Sua Beatitudine Mesrob II, Fratelli venerati, che hanno voluto unirsi a noi per questa celebrazione. Esprimo loro la mia profonda gratitudine per questo gesto fraterno che onora tutta la comunità cattolica.
Cari Fratelli e Figli della Chiesa cattolica, Vescovi, presbiteri e diaconi, religiosi, religiose e laici, appartenenti alle differenti comunità della città e ai diversi riti della Chiesa, vi saluto tutti con gioia, ridicendo per voi le parole di san Paolo ai Galati: “Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!” (Ga 1, 3). Desidero ringraziare le Autorità civili qui presenti per la loro cortese accoglienza, in particolare tutti coloro che hanno permesso che questo viaggio potesse realizzarsi. Saluto infine i rappresentanti delle altre comunità ecclesiali e delle altre religioni che hanno voluto essere presenti fra noi. Come non pensare ai diversi eventi che hanno forgiato proprio qui la nostra storia comune? Al tempo stesso sento il dovere di ricordare in modo speciale i tanti testimoni del Vangelo di Cristo che ci spronano a lavorare insieme per l’unità di tutti i suoi discepoli, nella verità e nella carità!
In questa cattedrale dello Spirito Santo, desidero rendere grazie a Dio per tutto ciò che egli ha compiuto nella storia degli uomini e invocare su tutti i doni dello Spirito di santità. Come ci ha ricordato ora san Paolo, lo Spirito è la sorgente permanente della nostra fede e della nostra unità. Egli suscita in noi la vera conoscenza di Gesù e pone sulle nostre labbra le parole della fede affinché noi possiamo riconoscere il Signore. Gesù l’aveva già detto a Pietro dopo la Confessione della fede di Cesarea: “Beato te, Simone figlio di Giona: perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16, 17). Si, siamo beati quando lo Spirito Santo ci apre alla gioia di credere e quando ci fa entrare nella grande famiglia dei cristiani, la sua Chiesa, così molteplice nella varietà dei doni, delle funzioni e delle attività, e nello stesso tempo già una, “poiché è sempre lo stesso Dio che agisce in tutti”. San Paolo aggiunge: “Ciascuno riceve il dono di manifestare lo Spirito in vista del bene di tutti”. Manifestare lo Spirito, vivere secondo lo Spirito, non significa vivere soltanto per sé, ma vuol dire imparare a conformarsi costantemente allo stesso Cristo Gesù, divenendo alla sua sequela servitore dei propri fratelli. Ecco un insegnamento molto concreto per ciascuno di noi, Vescovi, chiamati dal Signore a condurre il suo popolo facendoci servitori sulle sue orme; questo vale anche per tutti i ministri del Signore come anche per tutti i fedeli: ricevendo il sacramento del Battesimo, siamo stati tutti immersi nella morte e resurrezione del Signore, “siamo stati dissetati dall’unico Spirito”, e la vita di Cristo è diventata la nostra affinché viviamo come lui, affinché amiamo i nostri fratelli come lui ci ha amati (cfr Gv 13, 34).
Ventisette anni fa, in questa stessa cattedrale, il mio predecessore il Servo di Dio Giovanni Paolo II auspicava che l’alba del nuovo millennio potesse “sorgere su una Chiesa che ha ritrovato la sua piena unità, per meglio testimoniare, in mezzo alle esacerbate tensioni del mondo, il trascendente amore di Dio, manifestato nel Figlio Gesù Cristo” (Omelia nella cattedrale di Istanbul, n. 5). Questo auspicio non si è ancora realizzato, ma il desiderio del Papa è sempre lo stesso e ci spinge, noi tutti discepoli di Cristo che avanziamo con le nostre lentezze e le nostre povertà sul cammino che conduce all’unità, ad agire incessantemente “in vista del bene di tutti”, ponendo la prospettiva ecumenica al primo posto delle nostre preoccupazioni ecclesiali. Vivremo allora realmente secondo lo Spirito di Gesù, al servizio del bene di tutti.
Riuniti questa mattina in questa casa di preghiera consacrata al Signore, come non evocare l’altra bella immagine che adopera san Paolo per parlare della Chiesa, quella della costruzione le cui pietre sono tutte unite, strette le une alle altre per formare un solo edificio, e la cui pietra angolare, sulla quale tutto poggia, è Cristo? E’ lui la sorgente della nuova vita che ci è donata dal Padre, nello Spirito Santo. Il Vangelo di san Giovanni l’ha appena proclamato: “Fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Quest’acqua zampillante, questa acqua viva che Gesù ha promesso alla Samaritana, i profeti Zaccaria ed Ezechiele la vedevano sorgere dal lato del tempio, per rigenerare le acque del Mar morto: immagine meravigliosa della promessa di vita che Dio ha sempre fatto al suo popolo e che Gesù è venuto a compiere. In un mondo dove gli uomini hanno tanta difficoltà a dividere tra loro i beni della terra e dove ci si inizia a preoccupare giustamente per la scarsità dell’acqua, questo bene così prezioso per la vita del corpo, la Chiesa si scopre ricca di un bene ancora più grande. Corpo del Cristo essa ha ricevuto il compito di annunciare il suo Vangelo fino ai confini della terra (cfr Mt 28, 19), vale a dire di trasmettere agli uomini e alle donne di questo tempo una buona novella che non solo illumina ma cambia la loro vita, fino a passare e vincere la morte stessa. Questa Buona Novella non è soltanto una Parola, ma è una Persona, Cristo stesso, risorto, vivo! Con la grazia dei Sacramenti, l’acqua che è scaturita dal suo costato aperto sulla croce è diventata una fonte che zampilla, “fiumi d’acqua viva”, un dono che nessuno può arrestare e che ridona vita. Come i cristiani potrebbero trattenere soltanto per loro ciò che hanno ricevuto? Come potrebbero confiscare questo tesoro e nascondere questa fonte? La missione della Chiesa non consiste nel difendere poteri, né ottenere ricchezze; la sua missione è di donare Cristo, di partecipare la Vita di Cristo, il bene più prezioso dell’uomo che Dio stesso ci dà nel suo Figlio.
Fratelli e Sorelle, le vostre comunità conoscono l’umile cammino di accompagnamento di ogni giorno con quelli che non condividono la nostra fede ma che dichiarano “di avere la fede di Abramo e che adorano con noi il Dio uno e misericordioso” (Lumen gentium, n. 16). Sapete bene che la Chiesa non vuole imporre nulla a nessuno, e che chiede semplicemente di poter vivere liberamente per rivelare Colui che essa non può nascondere, Cristo Gesù che ci ha amati fino alla fine sulla Croce e che ci ha dato il suo Spirito, presenza viva di Dio in mezzo a noi e nel più profondo di noi stessi. Siate sempre aperti allo Spirito di Cristo e, pertanto, siate attenti a quelli che hanno sete di giustizia, di pace, di dignità, di considerazione per essi stessi e per i loro fratelli. Vivete tra voi secondo la parola del Signore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35). Fratelli e Sorelle, affidiamo in questo momento il nostro desiderio di servire il Signore alla Vergine Maria, Madre di Dio e Serva del Signore. Ella ha pregato nel cenacolo insieme con la comunità primitiva, in attesa della Pentecoste. Insieme con lei preghiamo ora Cristo Signore: Invia il tuo Spirito Santo, Signore, su tutta la Chiesa; che egli abiti ciascuno dei suoi membri e che faccia di loro messaggeri del tuo Vangelo! Amen.
Dichiarazione congiunta firmata da Benedetto XVI e Bartolomeo I