Livorno

Vincenzo Savio nei ricordi di Ablondi

di Nicola SangiacomoMonsignor Ablondi non si tira indietro dinanzi alla proposta di offrirmi un ricordo della storia del rapporto personale avuto con monsignor Savio. Lo fa con grande sforzo, ma nella piena convinzione che quanto dice può essere utile a ricostruire un pezzo importante della vita e della figura di don Vincenzo. Chi ha avuto l’occasione di seguirli nel periodo di collaborazione al servizio episcopale della Chiesa livornese, è testimone di quanto il loro rapporto fosse fraterno ed esemplare, di come le due personalità si completassero in modo straordinario ed efficace. La loro intesa, ricordo, meravigliava anche le persone che venivano in contatto con loro in ogni parte di Italia e del mondo.Un storia che oggi il vescovo Alberto ricostruisce con affetto: è composta da quattro capitoli, l’ultimo dei quali terribilmente recente.

Quando ha conosciuto monsignor Savio?

«Questa domanda non ha risposta perché l’esperienza è così varia, articolata e prolungata nel tempo che mi verrebbe da dire che lo conosco da sempre e il sempre rivela l’ampiezza della sua personalità che si sviluppa con nuovi orizzonti nelle situazioni più varie. Ho conosciuto don Vincenzo giovanissimo in una quasi crisi di vocazione salesiana, durante il periodo del diaconato e mi è sempre stato grato di non averlo strappato alla sua congregazione in un momento di debolezza, facendogli capire che quell’ipotesi di cambiamento non raggiungeva neppure il grado della tentazione ma si fermava alla dimensione modesta del “grillo” giovanile. E quale modo migliore poteva esserci per capire come s’incontra e come si soffre con i livornesi di quello scelto da don Vincenzo di frequentare chi viveva nelle baracche?»

Don Vincenzo tornò poi a Livorno da prete ma non diventò subito parroco come avevano proposto i suoi superiori salesiani?

«Quando i superiori della regione salesiana mi proposero il nome di don Vincenzo per fare il parroco, io non lo nominai subito, perché avevo una situazione delicata di preti giovani che avevano difficoltà d’inserimento pastorale e non volevo che la nomina di don Vincenzo fosse forzata dalla gerarchia salesiana, ma fosse la naturale conseguenza di un’esperienza pastorale vissuta sul posto. Lui ne rimase molto colpito; quando gli chiesi l’investitura ufficiale mi fece capire che l’ufficialità non gli interessava, quanto l’immissione da parte del Vescovo nel servizio pastorale.Fu l’unico momento che ricordo nel quale nei nostri rapporti non ci fu perfetta coincidenza. Successivamente non fui però ingeneroso nel riconoscere le sue capacità, non solo come parroco; gli dimostrai tutta la fiducia e l’ammirazione quando lo chiamai nella segreteria del Commissione sinodale e nella segreteria del Comitato per la visita del Papa».

Quali capacità di don Vincenzo la colpivano maggiormente?

«Sono molte le qualità che ho ammirato in lui: gli piaceva manifestare nella liturgia il suo gusto per l’arte e la cultura, aveva grande sensibilità sociale, rivolgeva un’attenzione particolare al mondo del giornalismo, aveva il senso del “poliziotto” (come diceva lui) quando indagava per difendere le persone più vulnerabili dai pericoli dello sfruttamento».

Nell’impegno per l’ecumenismo avete trovato un punto di forte comunanza.

«Ci trovavamo molto concordi nel difficile cammino dell’ecumenismo: ricordo un incontro con il compianto Pastore Williams nella cripta dei Salesiani non ancora restaurata, dove, per la partecipazione e l’intensità della preghiera, sembrava di vivere la cristianità delle catacombe.Uno dei ricordi più intensi a questo riguardo è quello della visita al monte Athos, dove mi rimproverava amabilmente di aver portato dei doni che erano stati ricevuti con molta solennità dai monaci che, tuttavia, non ricambiarono nella nostra accoglienza. In quell’occasione ho un ricordo intenso del tentativo d’incursione nel monastero della Dormizione, quando sperando di trovare un giaciglio qualunque, svegliammo un patriarca che cominciò a rincorrere noi malcapitati, che scendevamo scale sconosciute mentre don Vincenzo con una buona pila salvava passo e fuga.

Un Vescovo non solo per Livorno ma per il mondo.

«Le vostre strade si incontrano di nuovo quando don Vincenzo viene ordinato Vescovo a Livorno. Ebbi l’illuminazione di proporlo come mio Vescovo Ausiliare: parlandone e presentandolo nelle “alte sfere” vaticane dissi più volte: “Se sarà vescovo darà un bel contributo non solo a Livorno, ma alla missione della Chiesa nel mondo”. Oggi la sua azione pastorale, sia nel periodo livornese sia nei tre anni di guida pastorale della diocesi di Belluno – Feltre, documenta il valore di quella proposta e previsione fatta ai più alti livelli».

L’esperienza che ha avuto con don Vincenzo come Ausiliare è stata davvero esemplare.

«Sì, è stata un’esperienza più bella di quanto mi sarei immaginato quando la proposi. Un’esperienza vissuta da monsignor Savio in un compito di grande sofferenza che, probabilmente, ha avuto un peso nell’aggravamento della sua situazione patologica. Un servizio difficile che veniva superato nel pregare insieme, nel lavorare insieme, nel confrontarci quotidianamente su tutto, nel passare insieme anche sani momenti di divertimento. Don Vincenzo aveva poi una grande capacità di cogliere le correnti culturali ed artistiche e trasfigurarle in modo da stabilire tra loro una comunione di valore com’è accaduto con il Volto del Cristo del Beato Angelico oppure con le cinque Iconostasi che arrivò, dopo grandi sforzi, a far esporre contemporaneamente. Un altro esempio di straordinaria lungimiranza è stata la fondazione del CeDoMEI, di cui io ho posso aver avuto l’idea, ma lui ha saputo esplicitare e portare a realizzazione. Una realtà per la quale siamo stati grati al vescovo Diego d’averla accolta e sostenuta senza riserve, prima ancora di conoscerla a fondo. Ricordo anche il contributo che monsignor Savio ha dato per l’avvio del Progetto Strada, che non volle che rimanesse un appannaggio salesiano, ma fosse condiviso con la diocesi».

Infine l’ultimo capitolo di questa bella storia: l’ultimo incontro, pochi giorni fa.

«È stato il coronamento più bello di un rapporto inventivo e vivace che si è concluso con un quarto d’ora di lucidità, guadagnato nell’ultima difficilissima fase della malattia. È stato un discorso … “dai tetti in su” nel quale riassumevamo le vicendevoli gratitudini. Mi venne da tradurre con gergo sportivo quel momento santo della nostra vita: “Il Signore – gli dissi – con questa prova non ti fa perdere niente dei valori che avresti potuto suscitare in futuro perché, mentre a tanti di noi viene chiesto di arrancare ansimando per conquistare la vetta, a te il Signore ha chiesto di percorrere la strada direttissima verso la vetta. Prego il Signore – continuai – che ti conservi questo bell’atteggiamento di decisione e di donazione perché mi sembri un atleta motivato e concentrato che è sicuro del suo domani, in questo caso eterno. Con questo augurio di cammino verso la vetta ci siamo salutati con il saluto caro ai livornesi che, di chi è morto, dicono che “si è avviato”.Si concludeva così il quarto capitolo che io ho conosciuto della vita di don Vincenzo, dopo quello del diacono, del prete e del vescovo era quello, che potremmo definire, del “chiamato” alla vocazione universale della santità.Don Vincenzo aveva saputo abbracciare l’esperienza della sofferenza».

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