Vita Chiesa
Viaggio nella fede: i «Messaroli» e il paradosso italiano
Due volumi arrivati di recente in libreria forniscono spunti interessanti per descrivere la religiosità degli italiani e i loro rapporti con l’istituzione Chiesa cattolica. Il sociologo Franco Garelli, analizzando oltre 3 mila interviste ad un campione rappresentativo di italiani, ci descrive il «paradosso» italiano di una società sempre più secolarizzata, ma in cui la fede in Dio e anche l’adesione alla Chiesa rimangono fortemente radicate. Tonino Lasconi indaga invece sulla gran massa di «messaroli», cioè quei cristiani che seguono anche saltuariamente le liturgie, individuando qualche pista su cui parroci e comunità parrocchiali potrebbero lavorare.
«Messaroli» o impegnati? Cristiani della domenica o «militanti»? In realtà, si tratta di una falsa alternativa. O meglio: invece che creare barriere tra le modalità di appartenenza ecclesiale, sarebbe meglio partire dalla Messa domenicale come «cartina di tornasole» per una comunità cristiana «adulta, consapevole, riconoscibile». Parola di don Tonino Lasconi, parroco a Fabriano ed esperto di questioni giovanili. Lo abbiamo intervistato prendendo spunto dal suo ultimo libro, dal titolo «I messaroli, una risorsa», in libreria per i tipi di «Cittadella Editrice».
«Messaroli» e «impegnati»: qual è l’identikit di queste due categorie, e quale nuovo rapporto dovrebbe instaurarsi tra di loro?
«I praticanti sono sempre di meno, invece i messaroli coloro che frequentano la comunità solo in occasione della Messa domenicale sono in crescita, sono ormai diventati una grande massa. I messaroli in realtà sono il popolo di Dio che, pur non essendo assiduo alle attività della parrocchia, vive una fede a volte semplice, ma capace di sostenere scelte fedeli allo spirito del Vangelo nel quotidiano. È questa fetta di gente che possiamo effettivamente educare, a partire dalle sollecitazioni contenute negli Orientamenti Cei per questo decennio. Da persone che vengono a Messa con motivazioni che provengono dall’abitudine, o hanno radici antiche, possono trasformarsi in cristiani convinti. I «messaroli», dunque, sono una risorsa: educhiamo prima di tutto quelli che abbiamo a disposizione tutte le domeniche. Se vengono, vuol dire che le motivazioni ci sono, e sono abbastanza forti: se però li trattiamo con superficialità, o addirittura con sufficienza, negatività e disattenzione, il rischio è che si stanchino e se ne vadano. Per questo bisogna coscientizzarli, visto che il senso del dovere oggi non c’è più».
Il rischio più frequente è l’ abbandono della Messa domenicale: come superarlo?
«Dando motivazioni vere a chi possiede motivazioni di tipo imperfetto. C’è chi va a Messa perché si ricorda di un precetto, perché deve ricordare i defunti, perché deve farsi perdonare un peccato, perché cerca di ottenere un vantaggio personale… Una pratica non sorretta da motivazioni e portata avanti stancamente, oggi, non regge più e tende a consumarsi velocemente, quindi ad essere abbandonata. Per questo occorre far capire ai fedeli che a Messa c’è la Parola di Dio, spiegarla in modo che tocchi la vita, educare a pregare in maniera convinta, far sentire la comunione della comunità».
Si deve puntare tutto sull’omelia, per «rivitalizzare» la celebrazione eucaristica?
«Io credo che si debba riportare l’omelia a una delle parti della celebrazione, e non la più importante. Anche perché, purtroppo, per molti sacerdoti la Messa è l’occasione per fare una predica lunga, che vola sopra i problemi, con un linguaggio che la gente non percepisce più come proprio. A mio parere, più si incastra la Messa sulla predica, più il rischio è che la gente si disaffezioni e si allontani. Basti pensare al fenomeno del nomadismo domenicale, grazie al quale i fedeli vanno a cercarsi la Messa che ritengono più adatta alle proprie esigenze. Una tendenza, questa, legittima e da non liquidare semplicemente stigmatizzandola. Noi sacerdoti pensiamo ancora di poter pretendere che la gente vada a Messa: spesso ci si accanisce con quelli che non ci vanno, con il risultato che quelli che ci sono sempre si annoiano e i ‘messaroli’ si sentono messi ai margini. In questo modo, non si fa altro che scontentare tutti».
Tra i credenti, non solo quelli «della domenica», è in crisi il senso di appartenenza, il sentirsi comunità…
«Quelli che abbandonano è perché non si sentono di appartenere alla nostra comunità. Oggi, infatti, sono saltati i confini territoriali: i genitori, ad esempio, possono andare a Messa dai nonni, che accudiscono i nipoti, oppure vicino al mercato dove fanno la spesa… Non possiamo pretendere che il popolo di Dio sia stanziale: possiamo però, curando la qualità delle nostre celebrazioni, innescare un meccanismo virtuoso che fa sì che la gente si muova. Se la Messa è davvero partecipata, la gente arriva. Ci sono persone che ‘seguono’ un sacerdote che, ad esempio, si sposta di parrocchia, perché si è creato nel tempo un legame spirituale, di empatia, con lui».
Gli adolescenti sono quelli che rischiano spesso di esseri i primi ad abbandonare la Messa domenicale: come riavvicinarli?
«È un segnale tipico della loro età: se qualcosa non funziona, coi ragazzi salta subito. Posso testimoniare che lavorare solo fra i ragazzi, se non c’è una comunità che li sa interessare, dopo un po’ provoca come conseguenza il fatto che se ne vanno via. Se trovano una comunità cristiana attraente, i giovani sono i primi che rispondono alle proposte che si fanno loro. E così, magari partendo proprio da celebrazioni eucaristiche preparate accuratamente e partecipate, a poco a poco si crea comunità. Nelle nostre parrocchie ci sono già molte buone pratiche: possiamo contare su una grande fecondità di iniziative vivaci, di creatività fantasiosa, di proposte pastorali innovative. Il problema, però, è che spesso rimangono nascoste».
Le chiese si svuotano in tutta Europa», ma l’82,7% degli italiani continua a credere in Dio, contro il 53% dei francesi, il 60% dei belgi e il 63% degli spagnoli. Il 74% ammette che la religione «aiuta a trovare il senso profondo della vita» e quasi 9 italiani su dieci rifiutano l’idea che in Dio «credano soltanto le persone più ingenue e sprovvedute». Il 32,5% dichiara di pregare almeno una volta al giorno e il 26,5% di andare a Messa tutte le settimane (magari sovrastimando la propria pratica), il 42,3% una volta al mese. Un’anomalia in un’Europa sempre più secolarizzata, tanto evocare una sorta di «religione all’italiana». Quasi che «per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi dell’esistenza». Ma si tratta di un «cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto», caratterizzato da un «rapporto flessibile, selettivo, su misura con gli insegnamenti della Chiesa». È quanto emerge dalla ricerca del sociologo torinese Franco Garelli, uscita con il titolo «Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo» (Il Mulino 2011, e 17). Un’indagine affidata ad Eurisko, con interviste a 3.160 italiani tra i 16 e i 74 anni. I dati sono stati poi elaborati da un gruppo di lavoro del dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Torino.
Sorprende la «voglia di sacro», la sensazione che il «brusio degli angeli» faccia da sottofondo anche alla nostra epoca. Oltre 2/3 dichiarano «di sentire la prossimità di Dio nella loro esistenza», e il 66,8% di «aver provato la sensazione che Dio o un essere superiore vigili sulla propria vita e la protegga». Quanto alla pratica, un terzo dichiara di aver preso parte nell’ultimo anno a processioni religiose o di aver offerto messe per i defunti; il 15,6% ha effettuato pelligrinaggi; il 13,3% ha fatto un voto o una promessa. Il rito più valorizzato è il funerale religioso (70,1%), seguito dal battesimo (66,9%) e dal matrimonio in chiesa (63,1%), anche se in questo caso i favorevoli sono più di quelli che poi lo scelgono come opzione di vita. Il 17,6% fa la comunione ogni settimana, ma quasi la metà dei cattolici non si confessa neanche una volta all’anno.
In Italia, osserva Franco Garelli «la maggioranza della popolazione non soltanto continua ad indentificarsi nel cattolicesimo, ma è convinta che si possa essere cattolici anche senza condividere le indicazioni della gerarchia in vari campi, soprattutto nella morale sessuale e familiare». Della Chiesa, infatti, si apprezzano l’aspetto mistico e l’impegno caritativo, mentre si seguono selettivamente certe indicazioni, tralasciandone altre. Il 78,1% sente molto vicino a sé papa Wojtyla (ma molto meno Benedetto XVI), il 71,2% Madre Teresa, il 65,6% Padre Pio, il 52,1% la parrocchia. Ma il 73% è favorevole all’uso dei preservativi e solo il 6,6% accetta di ricorrere unicamente ai metodi naturali. A non ritenere mai lecito l’aborto, in nessun caso, è solo il 23,1%.
La ricerca conferma le profonde differenze tra le diverse Italie, con i minimi di «religiosità» al centro e nel nord-est. Anche da punto di vista sociologico, fede e pratica religiosa sono più diffusi al Sud, tra le donne e tra chi ha un livello scolare più basso. Ma il numero di atei (6,6%) e agnostici (6,2%) non aumenta da vent’anni. E quello che stupisce di più è che anche tra costoro si registrano in numero significativo risposte aperte alla trascendenza, tanto da poter affermare «che esista una singolare via italiana all’ateismo, rappresentata da una minoranza di non credenti che risultano aperti al discorso religioso».