Benedetto XVI
Viaggio in Polonia, i discorsi
Sono lieto di poter oggi essere tra voi sulla terra della Repubblica Polacca. Ho tanto desiderato questa visita nel Paese e tra la gente da cui proveniva il mio amato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Sono venuto per seguire le sue orme lungo l’itinerario della sua vita, dalla fanciullezza fino alla partenza per il memorabile conclave del 1978. Su questo cammino voglio incontrare e conoscere meglio le generazioni dei credenti che lo hanno offerto al servizio di Dio e della Chiesa, e quelle che sono nate e maturate per il Signore sotto la sua guida pastorale da sacerdote, da vescovo e da Papa. Il nostro comune cammino sarà accompagnato dal motto: “Rimanete forti nella fede”. Lo ricordo fin dall’inizio per affermare che non si tratta semplicemente di un viaggio sentimentale, pur valido anche sotto questo aspetto, ma di un itinerario di fede, iscritto nella missione affidatami dal Signore nella persona di Pietro apostolo, che fu chiamato per confermare i fratelli nella fede (cfr Lc 22, 32). Anche io voglio attingere dalla fonte abbondante della vostra fede, che scaturisce ininterrottamente da più di un millennio.
Saluto il Signor Presidente e lo ringrazio di cuore per le parole che mi ha rivolto a nome delle autorità della Repubblica e della Nazione. Saluto i Signori Cardinali, gli Arcivescovi e i Vescovi. Un saluto rivolgo anche al Signor Primo Ministro e a tutto il Governo, ai rappresentanti del Parlamento e del Senato, ai membri del Corpo Diplomatico con il Decano, il Nunzio Apostolico in Polonia. Sono lieto della presenza delle Autorità regionali con il Sindaco di Varsavia. Voglio rivolgere un saluto anche ai rappresentanti della Chiesa ortodossa, della Chiesa evangelica-asburgica e delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Lo faccio anche nei confronti della comunità ebraica e dei seguaci dell’islam. Infine saluto di cuore tutta la Chiesa in Polonia: i sacerdoti, le persone consacrate, gli alunni dei Seminari, tutti i fedeli, e soprattutto i malati, i giovani e i bambini. Vi chiedo di accompagnarmi con il pensiero e con la preghiera, affinché questo viaggio sia fruttuoso per noi tutti e ci porti all’approfondimento e al rafforzamento della nostra fede.
Ho detto che il percorso del mio cammino in questo viaggio in Polonia è segnato dalle tracce della vita e del servizio pastorale di Karol Wojtyła e dall’itinerario che ha percorso da Papa pellegrino nella propria patria. Così ho scelto di fermarmi principalmente in due città così care a Giovanni Paolo II: la capitale della Polonia, Varsavia e la sua sede arcivescovile, Cracovia. A Varsavia mi incontrerò con i sacerdoti, con le diverse Chiese e Comunità ecclesiali non cattoliche, e con le Autorità statali. Spero che questi incontri portino abbondanti frutti per la nostra comune fede in Cristo e per le realtà sociali e politiche in cui vivono gli uomini e le donne di oggi. È prevista una breve sosta a Częstochowa e un incontro con i rappresentanti dei religiosi e religiose, con i seminaristi e con i membri dei movimenti ecclesiali. Lo sguardo benevolo di Maria ci accompagnerà nella nostra comune ricerca di un legame profondo e fedele a Cristo, suo Figlio. E infine mi fermerò a Cracovia, per poter da lì recarmi a Wadowice, a Kalwaria, a Łagiewniki, alla Cattedrale di Wawel. So bene che questi sono i luoghi più amati da Giovanni Paolo II, perché legati alla sua crescita nella fede e al suo servizio pastorale. Non mancherà un incontro con i malati e i sofferenti nel luogo forse più appropriato per un appuntamento con loro il Santuario della Divina Misericordia in Łagiewniki. Non potrò neanche mancare, quando i giovani si raduneranno per la veglia di preghiera. Sarò con loro volentieri e spero di godere della loro testimonianza di fede giovane e vigorosa. La domenica ci incontreremo sul prato delle Błonia per celebrare la solenne S. Messa di ringraziamento per il pontificato del mio amato Predecessore e per la fede in cui ci ha sempre confermato con la parola e l’esempio della sua vita. E infine mi recherò ad Auschwitz. Lì spero di incontrare soprattutto i superstiti delle vittime del terrore nazista, provenienti da diverse nazioni, che hanno sofferto la tragica oppressione. Pregheremo tutti insieme affinché le piaghe del secolo scorso guariscano sotto la medicazione che il buon Dio ci indica chiamandoci al perdono reciproco, e ci offre nel mistero della sua misericordia.
Con queste parole dell’apostolo Paolo mi rivolgo a voi, cari sacerdoti, perché in esse trovo perfettamente rispecchiati i miei odierni sentimenti e pensieri, i desideri e le preghiere. Saluto in particolare il Cardinale Józef Glemp, Arcivescovo di Varsavia e Primate di Polonia, al quale porgo le mie più cordiali felicitazioni per il 50° di Ordinazione sacerdotale che ricorre proprio oggi. Sono giunto in Polonia, nella diletta Patria del mio grande Predecessore Giovanni Paolo II, per attingere come egli era solito fare da questo clima di fede in cui vivete e per “comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati”. Ho fiducia che il mio peregrinare di questi giorni “rinfrancherà la fede che abbiamo in comune, voi e io”.
Mi incontro oggi con voi nell’arcicattedrale di Varsavia, la quale con ogni pietra ricorda la storia dolorosa della vostra capitale e del vostro Paese. A quali prove siete stati esposti in tempi non tanto lontani! Ricordiamo gli eroici testimoni della fede, che offrirono la loro vita a Dio e agli uomini, santi canonizzati e anche uomini comuni, che perseverarono nella rettitudine, nell’autenticità e nella bontà, senza cedere mai alla sfiducia. In questa cattedrale ricordo particolarmente il Servo di Dio Card. Stefan Wyszyński, da voi chiamato «il Primate del Millennio», il quale, abbandonandosi a Cristo e alla sua Madre, seppe servire fedelmente la Chiesa pur in mezzo a prove dolorose e prolungate. Ricordiamo con riconoscenza e gratitudine coloro che non si sono lasciati sopraffare dalle forze delle tenebre, da loro impariamo il coraggio della coerenza e della costanza nell’adesione al Vangelo di Cristo.
Mi incontro oggi con voi, sacerdoti chiamati da Cristo a servirlo nel nuovo millennio. Siete stati scelti tra il popolo, costituiti nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Credete nella potenza del vostro sacerdozio! In virtù del sacramento avete ricevuto tutto ciò che siete. Quando voi pronunciate le parole “io” o “mio” (“Io ti assolvo Questo è il mio Corpo ”), lo fate non nel nome vostro, ma nel nome di Cristo, “in persona Christi”, che vuole servirsi delle vostre labbra e delle vostre mani, del vostro spirito di sacrificio e del vostro talento. Al momento della vostra Ordinazione, mediante il segno liturgico dell’imposizione delle mani, Cristo vi ha preso sotto la sua speciale protezione; voi siete nascosti sotto le sue mani e nel suo Cuore. Immergetevi nel suo amore, e donate a Lui il vostro amore! Quando le vostre mani sono state unte con l’olio, segno dello Spirito Santo, sono state destinate a servire al Signore come le sue mani nel mondo di oggi. Esse non possono più servire all’egoismo, ma devono trasmettere nel mondo la testimonianza del suo amore.
La grandezza del sacerdozio di Cristo può incutere timore. Si può essere tentati di esclamare con Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5, 8), perché facciamo fatica a credere che Cristo abbia chiamato proprio noi. Non avrebbe potuto scegliere qualcun altro, più capace, più santo? Ma Gesù ha fissato con amore proprio ciascuno di noi, e in questo suo sguardo dobbiamo confidare. Non lasciamoci prendere dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. Non bisogna scoraggiarsi per il fatto che la preghiera esige uno sforzo, né per l’impressione che Gesù taccia. Egli tace ma opera. Mi piace ricordare, a questo proposito, l’esperienza vissuta lo scorso anno a Colonia. Fui testimone allora di un profondo, indimenticabile silenzio di un milione di giovani, al momento dell’adorazione del Santissimo Sacramento! Quel silenzio orante ci unì, ci donò tanto sollievo. In un mondo in cui c’è tanto rumore, tanto smarrimento, c’è bisogno dell’adorazione silenziosa di Gesù nascosto nell’Ostia. Siate assidui nella preghiera di adorazione ed insegnatela ai fedeli. In essa troveranno conforto e luce soprattutto le persone provate.
Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale. A tal fine, quando un giovane sacerdote fa i suoi primi passi, occorre che possa far riferimento ad un maestro sperimentato, che lo aiuti a non smarrirsi tra le tante proposte della cultura del momento. Di fronte alle tentazioni del relativismo o del permissivismo, non è affatto necessario che il sacerdote conosca tutte le attuali, mutevoli correnti di pensiero; ciò che i fedeli si attendono da lui è che sia testimone dell’eterna sapienza, contenuta nella parola rivelata. La sollecitudine per la qualità della preghiera personale e per una buona formazione teologica porta frutti nella vita. Il vivere sotto l’influenza del totalitarismo può aver generato un’inconsapevole tendenza a nascondersi sotto una maschera esteriore, con la conseguenza del cedimento ad una qualche forma di ipocrisia. È chiaro che ciò non giova all”autenticità delle relazioni fraterne e può condurre ad un’esagerata concentrazione su se stessi. In realtà, si cresce nella maturità affettiva quando il cuore aderisce a Dio. Cristo ha bisogno di sacerdoti che siano maturi, virili, capaci di coltivare un’autentica paternità spirituale. Perché ciò accada, serve l’onestà con se stessi, l’apertura verso il direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia.
Il Papa Giovanni Paolo II in occasione del Grande Giubileo ha più volte esortato i cristiani a far penitenza delle infedeltà passate. Crediamo che la Chiesa è santa, ma in essa vi sono uomini peccatori. Bisogna respingere il desiderio di identificarsi soltanto con coloro che sono senza peccato. Come avrebbe potuto la Chiesa escludere dalle sue file i peccatori? È per la loro salvezza che Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Occorre perciò imparare a vivere con sincerità la penitenza cristiana. Praticandola, confessiamo i peccati individuali in unione con gli altri, davanti a loro e a Dio. Conviene tuttavia guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze. Occorre umile sincerità per non negare i peccati del passato, e tuttavia non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti pre-comprensioni di allora. Inoltre la confessio peccati, per usare un’espressione di sant’Agostino, deve essere sempre accompagnata dalla confessio laudis dalla confessione della lode. Chiedendo perdono del male commesso nel passato dobbiamo anche ricordare il bene compiuto con l’aiuto della grazia divina che, pur depositata in vasi di creta, ha portato frutti spesso eccellenti.
Oggi la Chiesa in Polonia si trova dinanzi ad una grande sfida pastorale: quella di prendersi cura dei fedeli che hanno lasciato il Paese. La piaga della disoccupazione costringe numerose persone a partire verso l’estero. È un fenomeno diffuso su vasta scala. Quando le famiglie vengono in tal modo divise, quando si infrangono i legami sociali, la Chiesa non può rimanere indifferente. È necessario che le persone che partono siano accompagnate da sacerdoti che, collegandosi con le Chiese locali, assumano il lavoro pastorale in mezzo agli emigrati. La Chiesa che è in Polonia ha già dato numerosi sacerdoti e religiose, che svolgono il loro servizio non soltanto in favore dei Polacchi fuori dei confini del Paese, ma anche, e a volte in condizioni difficilissime, nelle missioni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e in altre regioni. Non dimenticate, cari sacerdoti, questi missionari. Il dono di numerose vocazioni, con cui Dio ha benedetto la vostra Chiesa, deve essere accolto in prospettiva veramente cattolica. Sacerdoti polacchi, non abbiate paura di lasciare il vostro mondo sicuro e conosciuto, per servire là dove mancano i sacerdoti e dove la vostra generosità può portare un frutto copioso.
Rimanete saldi nella fede! Anche a voi affido questo motto del mio pellegrinaggio. Siate autentici nella vostra vita e nel vostro ministero. Fissando Cristo, vivete una vita modesta, solidale con i fedeli a cui siete mandati. Servite tutti; siate accessibili nelle parrocchie e nei confessionali, accompagnate i nuovi movimenti e le associazioni, sostenete le famiglie, non trascurate il legame con i giovani, ricordatevi dei poveri e degli abbandonati. Se vivrete di fede, lo Spirito Santo vi suggerirà cosa dovrete dire e come dovrete servire. Potrete sempre contare sull’aiuto di Colei che precede la Chiesa nella fede. Vi esorto ad invocarla sempre con le parole a voi ben note: “Siamo vicino a Te, Ti ricordiamo, vegliamo”.
Cari fratelli e sorelle in Cristo,
“Grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra” (Ap 1, 4-5). Con le parole del Libro dell’Apocalisse, con cui San Giovanni saluta le sette Chiese dell’Asia, voglio rivolgere il mio caloroso saluto a tutti coloro che sono qui presenti, prima di tutto ai rappresentanti delle Chiese e delle Comunità Ecclesiali associate nel Consiglio Ecumenico Polacco. Ringrazio l’Arcivescovo Jeremiasz della Chiesa Ortodossa Autocefala per il saluto e le parole di spirituale unione indirizzatemi poc’anzi. Saluto l’Arcivescovo Alfons Nossol, Presidente del Consiglio Ecumenico della Conferenza Episcopale Polacca.
Ci unisce oggi qui il desiderio di incontrarci, per rendere, nella comune preghiera, gloria e onore al nostro Signore Gesù Cristo: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati col suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1, 5-6). Siamo riconoscenti al nostro Signore, perché ci raccoglie insieme, ci concede il suo Spirito e ci permette al di là di ciò che ancora ci separa di invocare “Abbà, Padre”. Siamo convinti che è Lui stesso ad intercedere incessantemente in nostro favore, chiedendo per noi: “Siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 23). Insieme a voi ringrazio per il dono di questo incontro di comune preghiera. Vedo in esso una delle tappe per realizzare il fermo proposito che ho fatto all’inizio del mio pontificato, quello di considerare una priorità del mio ministero la restituzione della piena e visibile unità tra i cristiani. Il mio amato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, quando visitò questa chiesa della Santissima Trinità, nell’anno 1991, sottolineò: “Per quanto noi ci impegniamo per l’unità, essa rimane sempre un dono dello Spirito Santo. Saremo disponibili a ricevere questo dono nella misura in cui avremo aperto le nostre menti e i nostri cuori a lui attraverso la vita cristiana e soprattutto attraverso la preghiera”. Infatti, non sarà possibile per noi «fare» l’unità con le nostre sole forze. Come ho ricordato durante l’incontro ecumenico dello scorso anno a Colonia: “La possiamo soltanto ottenere come dono dello Spirito Santo”. È per questo che le nostre aspirazioni ecumeniche devono essere pervase dalla preghiera, dal perdono reciproco e dalla santità della vita di ognuno di noi. Esprimo il mio compiacimento per il fatto che qui, in Polonia, il Consiglio Ecumenico Polacco e la Chiesa cattolica romana intraprendono numerose iniziative in questo ambito.
“Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero” (Ap 1, 7). Le parole dell’Apocalisse ci ricordano che tutti siamo in cammino verso il definitivo incontro con Cristo, quando Egli svelerà dinanzi a noi il senso della storia umana, il cui centro è la croce del suo sacrificio salvifico. Come comunità di discepoli, siamo diretti verso quell’incontro con la speranza e la fiducia che sarà per noi il giorno della salvezza, il giorno del compimento di tutto ciò a cui aneliamo, grazie alla nostra disponibilità a lasciarci guidare dalla reciproca carità che suscita in noi il suo Spirito. Edifichiamo tale fiducia non sui meriti nostri, ma sulla preghiera nella quale Cristo svela il senso della sua venuta sulla terra e della sua morte redentrice: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17, 24). In cammino verso l’incontro con Cristo che “viene sulle nubi”, con la nostra vita annunziamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta. Sentiamo il peso della responsabilità che tutto questo comporta; il messaggio di Cristo, infatti, deve giungere ad ogni uomo sulla terra, grazie all’impegno di coloro che credono in Lui e che sono chiamati a testimoniare che Lui è veramente mandato dal Padre (cfr Gv 17, 23). Bisogna dunque che, annunziando il Vangelo, siamo mossi dall’aspirazione a coltivare relazioni reciproche di sincera carità, in modo che, alla luce di esse, tutti conoscano che il Padre ha mandato suo Figlio e ama la Chiesa e ognuno di noi, così come ha amato Lui (cfr Gv 17, 23). Compito dei discepoli di Cristo, compito di ciascuno di noi, è dunque quello di tendere ad una tale unità, così da diventare, come cristiani, segno visibile del suo messaggio salvifico, indirizzato ad ogni essere umano.
Concedetemi, di richiamarmi una volta ancora all’incontro ecumenico avvenuto in questa chiesa con la partecipazione del vostro grande Connazionale Giovanni Paolo II e al suo intervento, nel quale egli delineò nel modo seguente la visione degli sforzi miranti alla piena unità dei cristiani: “La sfida che si pone è di superare a poco a poco gli ostacoli ( ) e crescere insieme in quella unità di Cristo che è una sola, quella unità della quale dotò la Chiesa sin dall’inizio. La serietà del compito vieta ogni precipitazione o impazienza, ma il dovere di rispondere alla volontà di Cristo esige che restiamo saldi sulla via verso la pace e l’unità tra tutti i cristiani. Sappiamo bene che non siamo noi quelli che rimargineranno le ferite della divisione e che ristabiliranno l’unità; siamo semplici strumenti che Dio potrà utilizzare. L’unità tra i cristiani sarà dono di Dio, nel suo tempo di grazia. Umilmente tendiamo a quel giorno, crescendo nell’amore, nel reciproco perdono e nella reciproca fiducia”.
Da quell’incontro molto è cambiato. Dio ci ha concesso di fare molti passi verso la reciproca comprensione e l’avvicinamento. Permettetemi di richiamare alla vostra attenzione alcuni eventi ecumenici, che in quel tempo ebbero luogo nel mondo: la pubblicazione dell’enciclica Ut unum sint; le concordanze cristologiche con le Chiese precalcedoniane; la sottoscrizione ad Augsburg della “Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione”; l’incontro in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000 e la memoria ecumenica dei testimoni della fede del XX secolo; la ripresa del dialogo cattolico-ortodosso a livello mondiale, il funerale di Giovanni Paolo II con la partecipazione di quasi tutte le Chiese e Comunità ecclesiali. Sono a conoscenza del fatto che anche qui, in Polonia, questa aspirazione fraterna all’unità può vantare concreti successi. Vorrei menzionare in questo momento: la firma, nell’anno 2000, avvenuta anche in questo tempio, da parte della Chiesa cattolica romana e delle Chiese associate nel Consiglio Ecumenico Polacco, della dichiarazione del reciproco riconoscimento della validità del battesimo; l’istituzione della Commissione per il Dialogo, della Conferenza Episcopale Polacca e del Consiglio Ecumenico Polacco, alla quale appartengono i Vescovi cattolici e i Capi di altre Chiese; l’istituzione delle commissioni bilaterali per il dialogo teologico tra cattolici e ortodossi, luterani, membri della Chiesa nazionale polacca, mariaviti e avventisti; la pubblicazione della traduzione ecumenica del Nuovo Testamento e del Libro dei Salmi; l’iniziativa chiamata “Opera natalizia di aiuto ai Bambini”, nella quale collaborano le organizzazioni caritative delle Chiese: cattolica, ortodossa ed evangelica.
Notiamo molti progressi nel campo dell’ecumenismo e tuttavia attendiamo sempre ancora qualcosa di più. Concedetemi di far notare oggi due questioni, forse più dettagliatamente. La prima riguarda il servizio caritativo delle Chiese. Sono numerosi i fratelli che attendono da noi il dono dell’amore, della fiducia, della testimonianza, di un aiuto spirituale e materiale concreto. A tale problema ho fatto riferimento nella mia prima Enciclica Deus caritas est. Ho osservato in essa: “L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare, fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore” (n. 20). Non possiamo dimenticare l’ idea essenziale che fin dall’inizio costituì il fondamento molto forte dell’unità dei discepoli: “all’interno della comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa” (ibid.). Questa idea è sempre attuale, sebbene nell’arco dei secoli siano mutate le forme dell’aiuto fraterno; l’accettare le sfide caritative contemporanee dipende in grande misura dalla nostra reciproca collaborazione. Mi rallegro perché questo problema trova una vasta eco nel mondo sotto forma di numerose iniziative ecumeniche. Noto con apprezzamento che nella comunità della Chiesa cattolica e nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali si sono diffuse diverse nuove forme di attività caritative e ne sono riapparse di antiche con slancio rinnovato. Sono forme che spesso uniscono l’evangelizzazione e le opere di carità (cfr ibid., 30b). Sembra che, nonostante tutte le differenze che vanno superate nell’ambito del dialogo interconfessionale, sia legittimo attribuire l’impegno caritativo alla comunità ecumenica dei discepoli di Cristo nella ricerca di una piena unità. Tutti possiamo inserirci nella collaborazione a favore dei bisognosi, sfruttando questa rete di reciproche relazioni, frutto del dialogo tra noi e dell’azione comune. Nello spirito del comandamento evangelico dobbiamo assumere questa premurosa sollecitudine nei riguardi dei fratelli che si trovano nel bisogno, chiunque essi siano. A questo proposito nella mia Enciclica ho scritto che: “Per uno sviluppo del mondo verso il meglio, è necessaria la voce comune dei cristiani, il loro impegno «per il rispetto dei diritti e dei bisogni di tutti, specie dei poveri, degli umiliati e degli indifesi» (n. 30b). A tutti coloro che partecipano al nostro incontro auguro oggi che la pratica della caritas fraterna ci avvicini sempre più e renda più credibile la nostra testimonianza in favore di Cristo di fronte al mondo.
La seconda questione alla quale voglio far riferimento, riguarda la vita coniugale e quella familiare. Sappiamo che tra le comunità cristiane, chiamate a testimoniare l’amore, la famiglia occupa un posto particolare. Nel mondo di oggi, nel quale si stanno moltiplicando relazioni internazionali ed interculturali, sempre più spesso si decidono a fondare una famiglia giovani provenienti da diverse tradizioni, da diverse religioni, da diverse confessioni cristiane. Più volte, per i giovani stessi e per i loro cari, è una decisione difficile che comporta vari pericoli riguardanti sia la perseveranza nella fede sia la costruzione futura dell’ordine familiare, come anche la creazione di un clima di unità della famiglia e di condizioni opportune per la crescita spirituale dei figli. Tuttavia, proprio grazie alla diffusione su una più vasta scala del dialogo ecumenico, la decisione può dare origine al formarsi di un laboratorio pratico di unità. Per questo sono necessarie la vicendevole benevolenza, la comprensione e la maturità nella fede di entrambe le parti, come anche delle comunità da cui provengono. Voglio esprimere il mio apprezzamento per la Commissione Bilaterale del Consiglio per le Questioni dell’Ecumenismo della Conferenza Episcopale Polacca e del Consiglio Ecumenico Polacco che hanno avviato la elaborazione di un documento in cui viene presentata la comune dottrina cristiana sul matrimonio e sulla famiglia e vengono stabiliti principi, accettabili per tutti, per contrarre matrimoni interconfessionali, indicando un comune programma di sollecitudine pastorale per tali matrimoni. Auguro a tutti che in tale delicata questione, si accresca la reciproca fiducia tra le Chiese e la collaborazione che rispetta pienamente i diritti e la responsabilità dei coniugi per la formazione nella fede della propria famiglia e per l’educazione dei figli.
Sia lodato Gesù Cristo!
Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Signore, “insieme con voi desidero elevare un canto di gratitudine alla Provvidenza, che mi permette di stare qui oggi come pellegrino”. Con queste parole, 27 anni fa, iniziò la sua omelia a Varsavia il mio amato predecessore Giovanni Paolo II. Le faccio mie e ringrazio il Signore che mi ha concesso di poter giungere oggi in questa storica Piazza. Qui, alla vigilia della Pentecoste, Giovanni Paolo II pronunciò le significative parole della preghiera: “Discenda il tuo Spirito, e rinnovi la faccia della terra”. Ed aggiunse: “Di questa terra!”. In questo stesso luogo fu congedato con solenne cerimonia funebre il grande Primate della Polonia Cardinale Stefano Wyszyński, di cui in questi giorni ricordiamo il 25mo anniversario della morte.
Dio unì queste due persone non solo mediante la stessa fede, speranza e amore, ma anche mediante le stesse vicende umane, che hanno collegato l’una e l’altra così fortemente alla storia di questo popolo e della Chiesa che vive in esso. All’inizio del pontificato Giovanni Paolo II scrisse al Cardinale Wyszyński: “Sulla Sede di Pietro non ci sarebbe questo Papa polacco, che oggi pieno di timore di Dio, ma anche di fiducia, inizia il nuovo pontificato, se non ci fosse stata la Tua fede, che non si è piegata davanti alla prigione e alla sofferenza, la Tua eroica speranza, il Tuo fidarti fino in fondo della Madre della Chiesa; se non ci fosse stata Jasna Góra e tutto questo periodo di storia della Chiesa nella nostra Patria, legato al Tuo servizio di Vescovo e di Primate” (Lettera di Giovanni Paolo II ai Polacchi, 23 ottobre 1978). Come non ringraziare oggi Dio per quanto si è realizzato nella vostra Patria e nel mondo intero, durante il pontificato di Giovanni Paolo II? Davanti ai nostri occhi sono avvenuti cambiamenti di interi sistemi politici, economici e sociali. La gente in diversi Paesi ha riacquistato la libertà e il senso della dignità. “Non dimentichiamo le grandi opere di Dio” (cfr Sal 78,7). Ringrazio anche voi per la vostra presenza e per la vostra preghiera. Grazie al Cardinale Primate per le parole che mi ha rivolto. Saluto tutti i Vescovi qui presenti. Sono lieto della partecipazione del Signor Presidente e delle Autorità statali e locali. Abbraccio con il cuore tutti i polacchi che vivono in patria e all’estero.
“Rimanete saldi nella fede!”. Abbiamo sentito poc’anzi le parole di Gesù: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre e Egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre lo Spirito di Verità” (Gv 14,15-17a). In queste parole Gesù rivela il profondo legame che esiste tra la fede e la professione della Verità Divina, tra la fede e la dedizione a Gesù Cristo nell’amore, tra la fede e la pratica della vita ispirata ai comandamenti. Tutte e tre le dimensioni della fede sono frutto dell’azione dello Spirito Santo. Tale azione si manifesta come forza interiore che armonizza i cuori dei discepoli col Cuore di Cristo e rende capaci di amare i fratelli come Lui li ha amati. Così la fede è un dono, ma nello stesso tempo è un compito.
“Egli vi darà un altro Consolatore lo Spirito di Verità”. La fede, come conoscenza e professione della verità su Dio e sull’uomo, “dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo”, dice san Paolo (Rm 10,17). Lungo la storia della Chiesa gli Apostoli hanno predicato la parola di Cristo preoccupandosi di consegnarla intatta ai loro successori, i quali a loro volta l’hanno trasmessa alle successive generazioni, fino ai nostri giorni. Tanti predicatori del Vangelo hanno dato la vita proprio a causa della fedeltà alla verità della parola di Cristo. E così, dalla premura per la verità è nata la Tradizione della Chiesa. Come nei secoli passati così anche oggi ci sono persone o ambienti che, trascurando questa Tradizione di secoli, vorrebbero falsificare la parola di Cristo e togliere dal Vangelo le verità, secondo loro, troppo scomode per l’uomo moderno. Si cerca di creare l’impressione che tutto sia relativo: anche le verità della fede dipenderebbero dalla situazione storica e dalla valutazione umana. Però la Chiesa non può far tacere lo Spirito di Verità. I successori degli Apostoli, insieme con il Papa, sono responsabili per la verità del Vangelo, ed anche tutti i cristiani sono chiamati a condividere questa responsabilità accettandone le indicazioni autorevoli. Ogni cristiano è tenuto a confrontare continuamente le proprie convinzioni con i dettami del Vangelo e della Tradizione della Chiesa nell’impegno di rimanere fedele alla parola di Cristo, anche quando essa è esigente e umanamente difficile da comprendere. Non dobbiamo cadere nella tentazione del relativismo o dell’interpretazione soggettivistica e selettiva delle Sacre Scritture. Solo la verità integra ci può aprire all’adesione a Cristo morto e risorto per la nostra salvezza.
Cristo dice infatti: “Se mi amate…”. La fede non significa soltanto accettare un certo numero di verità astratte circa i misteri di Dio, dell’uomo, della vita e della morte, delle realtà future. La fede consiste in un intimo rapporto con Cristo, un rapporto basato sull’amore di Colui che ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 11), fino all’offerta totale di se stesso. “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8). Quale altra risposta possiamo dare ad un amore così grande, se non quella di un cuore aperto e pronto ad amare? Ma che vuol dire amare Cristo? Vuol dire fidarsi di Lui anche nell’ora della prova, seguirLo fedelmente anche sulla Via Crucis, nella speranza che presto verrà il mattino della risurrezione. Affidandoci a Cristo non perdiamo niente, ma acquistiamo tutto. Nelle sue mani la nostra vita acquista il suo vero senso. L’amore per Cristo si esprime nella volontà di sintonizzare la propria vita con i pensieri e i sentimenti del suo Cuore. Questo si realizza mediante l’unione interiore basata sulla grazia dei Sacramenti, rafforzata con la continua preghiera, la lode, il ringraziamento e la penitenza. Non può mancare un attento ascolto delle ispirazioni che Egli suscita mediante la sua Parola, le persone che incontriamo, le situazioni di vita quotidiana. AmarLo significa restare in dialogo con Lui, per conoscere la sua volontà e realizzarla prontamente.
Ma vivere la propria fede come rapporto d’amore con Cristo significa anche essere pronti a rinunciare a tutto ciò che costituisce la negazione del suo amore. Ecco perché Gesù ha detto agli Apostoli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”. Ma quali sono i comandamenti di Cristo? Quando il Signore Gesù insegnava alle folle, non mancò di confermare la legge che il Creatore aveva iscritto nel cuore dell’uomo ed aveva poi formulato sulle tavole del Decalogo. “Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto si sia compiuto” (Mt 5,17-18). Gesù però ci ha mostrato con una nuova chiarezza il centro unificante delle leggi divine rivelate sul Sinai, cioè l’amore di Dio e del prossimo: “Amare [Dio] con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stessi vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12,33). Anzi, Gesù nella sua vita e nel suo mistero pasquale ha portato a compimento tutta la legge. Unendosi con noi mediante il dono dello Spirito Santo, porta con noi e in noi il “giogo” della legge, che così diventa un “carico leggero” (Mt 11,30). In questo spirito Gesù formulò il suo elenco degli atteggiamenti interiori di coloro che cercano di vivere profondamente la fede: Beati i poveri in spirito, quelli che piangono, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia (cfr Mt 5,3-12)
“La fede, infatti, è un contatto col mistero di Dio” (Redemptoris Mater, 17), perché credere “vuol dire «abbandonarsi» alla verità stessa della parola del Dio vivo, sapendo e riconoscendo umilmente «quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie»” (Redemptoris Mater, 14). La fede è il dono, datoci nel battesimo, che ci rende possibile l’incontro con Dio. Dio si nasconde nel mistero: pretendere di comprenderLo significherebbe volerlo circoscrivere nei nostri concetti e nel nostro sapere e così irrimediabilmente perderlo. Mediante la fede, invece, possiamo aprirci un varco attraverso i concetti, perfino quelli teologici, e possiamo “toccare” il Dio vivente. E Dio, una volta toccato, ci trasmette immediatamente la sua forza. Quando ci abbandoniamo al Dio vivente, quando nell’umiltà della mente ricorriamo a Lui, ci pervade interiormente quasi un torrente nascosto di vita divina. Quanto è importante per noi credere nella potenza della fede, nella sua capacità di stabilire un legame diretto con il Dio vivente! Noi dobbiamo curare con impegno lo sviluppo della nostra fede, affinché essa pervada realmente tutti i nostri atteggiamenti, i pensieri, le azioni e le intenzioni. La fede ha un posto non soltanto negli stati d’animo e nelle esperienze religiose, ma prima di tutto nel pensiero e nell’azione, nel lavoro quotidiano, nella lotta contro se stessi, nella vita comunitaria e nell’apostolato, poiché essa fa sì che la nostra vita sia pervasa dalla potenza di Dio stesso. La fede può sempre riportarci a Dio, anche quando il nostro peccato ci fa del male.
Nel Cenacolo gli Apostoli non sapevano che cosa li attendeva. Intimoriti, erano preoccupati per il proprio futuro. Continuavano ancora a sperimentare lo stupore provocato dalla morte e risurrezione di Gesù ed erano angosciati per essere restati soli dopo la sua ascensione al cielo. Maria, “colei che aveva creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (cfr Lc 1,45), assidua insieme agli Apostoli nella preghiera, insegnava la perseveranza nella fede. Con tutto il suo atteggiamento li convinceva che lo Spirito Santo, nella sua sapienza, ben conosceva il cammino su cui li stava conducendo, che si poteva quindi porre la propria fiducia in Dio, donando senza riserve a Lui se stessi, i propri talenti, i propri limiti e il proprio futuro.
Molti di voi qui presenti hanno riconosciuto questa segreta chiamata dello Spirito Santo ed hanno risposto con tutto lo slancio del cuore. L’amore per Gesù, “riversato nei vostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che vi è stato dato” (cfr Rm 5,5), vi ha indicato la via della vita consacrata. Non siete stati voi a cercarla. E’ stato Gesù a chiamarvi, invitandovi ad una unione più profonda con Lui. Nel sacramento del santo Battesimo avete rinunciato a Satana e alle sue opere ed avete ricevuto le grazie necessarie per la vita cristiana e per la santità. Da quel momento è sbocciata in voi la grazia della fede, che vi ha permesso di unirvi con Dio. Al momento della professione religiosa o della promessa, la fede vi ha condotti verso un’adesione totale al mistero del Cuore di Gesù, del quale avete scoperto i tesori. Avete allora rinunciato a cose buone, a disporre liberamente della vostra vita, a formarvi una famiglia, ad accumulare dei beni, per poter essere liberi di donarvi senza riserve a Cristo e al suo Regno. Ricordate il vostro entusiasmo quando avete intrapreso il pellegrinaggio della vita consacrata, fidando sull’aiuto della grazia? Procurate di non smarrire lo slancio originario, e lasciate che Maria vi conduca verso un’adesione sempre più piena! Cari religiosi, care religiose, care persone consacrate! Qualunque sia la missione affidatavi, qualunque servizio claustrale o apostolico stiate compiendo, conservate nel cuore il primato della vostra vita consacrata. Sia essa a ravvivare la vostra fede. La vita consacrata vissuta nella fede, unisce strettamente a Dio, desta i carismi e conferisce una straordinaria fecondità al vostro servizio.
Carissimi candidati al sacerdozio! Quale aiuto può venire anche a voi dalla riflessione sul modo in cui Maria imparava da Gesù! Sin dal suo primo “fiat“, attraverso i lunghi, ordinari anni della vita nascosta, mentre educava Gesù, oppure quando a Cana di Galilea sollecitava il primo segno o quando, infine, sul calvario accanto alla croce fissava Gesù, Lo “imparava” momento per momento. Prima nella fede e poi nel proprio seno, aveva accolto il Corpo di Gesù e lo aveva dato alla luce. Giorno dopo giorno, lo aveva adorato estasiata, Lo aveva servito con amore responsabile, aveva cantato nel cuore il Magnificat. Nel vostro cammino e nel vostro futuro ministero sacerdotale fatevi guidare da Maria ad “imparare” Gesù! FissateLo, lasciate che sia Lui a formarvi, per essere in grado un domani, nel vostro ministero, di far vedere Lui a quanti vi avvicineranno. Quando prenderete nelle vostre mani il Corpo eucaristico di Gesù, per cibare di Lui il Popolo di Dio, e quando assumerete la responsabilità per quella parte del Corpo Mistico che vi verrà affidata, ricordate l’atteggiamento di stupore e di adorazione che caratterizzò la fede di Maria. Come Lei nel suo responsabile, materno amore verso Gesù, conservò l’amore verginale colmo di stupore, così anche voi, inginocchiandovi liturgicamente al momento della consacrazione, conservate nel vostro animo la capacità di stupirvi e di adorare. Sappiate riconoscere nel Popolo di Dio affidatovi i segni della presenza di Cristo. Siate attenti e sensibili ai segni di santità che Dio vi farà vedere tra i fedeli. Non temete per i doveri e le incognite del futuro! Non temete che vi manchino le parole o che vi imbattiate nel rifiuto! Il mondo e la Chiesa hanno bisogno di sacerdoti, di santi sacerdoti.
Cari rappresentanti dei nuovi Movimenti nella Chiesa. La vitalità delle vostre comunità è un segno della presenza attiva dello Spirito Santo! E’ dalla fede della Chiesa e dalla ricchezza dei frutti dello Spirito Santo che è nata la vostra missione. Il mio augurio è che possiate essere sempre più numerosi, per servire la causa del Regno di Dio nel mondo di oggi. Credete nella grazia di Dio che vi accompagna e portatela nei vivi tessuti della Chiesa e in modo particolare là dove non può giungere il sacerdote, il religioso o la religiosa. I Movimenti a cui appartenete sono molteplici. Vi nutrite di dottrina proveniente da diverse scuole di spiritualità, riconosciute dalla Chiesa.
Approfittate della sapienza dei santi, ricorrete all’eredità che hanno lasciata. Formate le vostre menti e i vostri cuori sulle opere dei grandi maestri e dei testimoni della fede, memori che le scuole di spiritualità non devono essere un tesoro chiuso nei conventi o nelle biblioteche. La sapienza evangelica, letta nelle opere dei grandi santi e verificata nella propria vita, va portata in modo maturo, non infantile e non aggressivo, nel mondo della cultura e del lavoro, nel mondo dei media e della politica, nel mondo della vita familiare e di quella sociale. La verifica dell’autenticità della vostra fede e della vostra missione, che non attira l’attenzione su di sé, ma realmente porta intorno a sé la fede e l’amore, sarà il confronto con la fede di Maria. Specchiatevi nel suo cuore. Rimanete alla sua scuola!
So che il due di ogni mese, all’ora della morte del mio amato Predecessore, vi raccogliete qui per commemorarlo e pregare per la sua elevazione agli onori degli altari. Questa preghiera sostenga coloro che si occupano della causa, e arricchisca i vostri cuori di ogni grazia. Durante l’ultimo viaggio in Polonia, Giovanni Paolo II vi ha detto a proposito del tempo che passa: “Non possiamo rimediare. C’è un rimedio soltanto. È il Signore Gesù. «Io sono la risurrezione e la vita», vuol dire malgrado la vecchiaia, malgrado la morte la giovinezza è in Dio. Ve lo auguro. A tutta la gioventù di Cracovia, della Polonia e del mondo” (17.08.2002). Questa era la sua fede, la sua ferma convinzione, la sua testimonianza. E oggi malgrado la morte, egli giovane in Dio è tra noi. Ci invita a rinvigorire la grazia della fede, a rinnovarci nello Spirito e “rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 24).
Giovanni Paolo II, tornando a quegli inizi, si riferiva spesso ad un segno: quello del fonte battesimale, che egli circondava di particolare venerazione nella chiesa di Wadowice. Nel 1979, durante il suo primo pellegrinaggio in Polonia confessò: “A questo fonte battesimale, il 20 giugno 1920 mi fu concessa la grazia di divenire figlio di Dio, e di ricevere la fede nel mio Redentore e fui accolto nella comunità della sua Chiesa. Questo fonte battesimale l’ho già baciato una volta, solennemente, nell’anno del Millennio del Battesimo della Polonia, quando ero arcivescovo di Cracovia. In seguito lo feci un’altra volta ( ) nel cinquantesimo del mio battesimo, quando ero cardinale, e oggi ho baciato questo fonte battesimale per la terza volta, giungendo da Roma come successore di San Pietro” (Wadowice, 7 giugno 1979). Sembra che in queste parole di Giovanni Paolo II sia racchiusa la chiave per comprendere la coerenza della sua fede, il radicalismo della sua vita cristiana e il desiderio della santità che egli manifestò continuamente. C’è qui la profonda consapevolezza della divina grazia, del gratuito amore di Dio per l’uomo, che mediante il lavacro con l’acqua e l’effusione dello Spirito Santo introduce il catecumeno nella moltitudine dei suoi figli redenti dal Sangue di Cristo. Ma c’è anche la consapevolezza che il battesimo che giustifica è anche una chiamata ad aver cura della giustizia scaturita dalla fede. Il programma più comune di una vita autenticamente cristiana si riassume nella fedeltà alle promesse del santo Battesimo. La parola d’ordine del presente pellegrinaggio: “Rimanete saldi nella fede”, trova qui la sua concreta dimensione che si potrebbe esprimere con l’esortazione: “Rimanete saldi nell’osservanza delle promesse battesimali”. Testimone di una tale fedeltà che in questo luogo parla in modo tutto speciale – è il Servo di Dio Giovanni Paolo II.
Il mio grande Predecessore indicava la Basilica di Wadowice e la parrocchia nativa come un luogo di particolare importanza per lo sviluppo della sua vita spirituale e della vocazione sacerdotale che stava rivelandosi in lui. Una volta disse: “In questo tempio mi accostai alla prima confessione e alla S. Comunione. Qui fui chierichetto. Qui resi grazie a Dio per il dono del sacerdozio e già come vescovo di Cracovia qui vissi il mio giubileo del 25° di sacerdozio. Quanto bene, quante grazie ricevetti in questo tempio e in questa comunità parrocchiale, lo sa soltanto Colui che è Datore di ogni grazia. A Lui, Dio uno e trino, rendo oggi gloria sulla soglia di questa chiesa” (Wadowice, 16 giugno 1999). Il tempio è segno della comunione dei credenti uniti dalla presenza di Dio che dimora in mezzo a loro. Questa comunità è la Chiesa amata da Giovanni Paolo II. Il suo amore per la Chiesa nacque nella parrocchia di Wadowice. In essa egli vide l’ambiente della vita sacramentale, dell’evangelizzazione e della formazione ad una fede matura. Per questo, come sacerdote, come Vescovo e come Papa circondava di così grande premura le comunità parrocchiali. Nello spirito della stessa sollecitudine, durante la visita ad limina Apostolorum, ho chiesto ai Vescovi polacchi di fare il possibile affinché la parrocchia polacca sia realmente una “comunità ecclesiale” e una “famiglia della Chiesa”.
Per terminare, lasciatemi ricordare ancora una caratteristica della fede e della spiritualità di Giovanni Paolo II, unita a questo luogo. Lui stesso ricordò più volte il profondo attaccamento degli abitanti di Wadowice all’effigie locale della Madonna del Perpetuo Soccorso e l’usanza della preghiera quotidiana dinanzi ad essa degli studenti del ginnasio di allora. Questo ricordo ci permette di arrivare alle sorgenti della convinzione che nutriva Giovanni Paolo II la convinzione circa l’eccezionale posto occupato da Maria nella storia della salvezza e in quella della Chiesa. Da essa scaturiva anche la convinzione circa il posto eccezionale che la Madre di Dio aveva nella sua vita, una convinzione che si esprimeva nel “Totus tuus” colmo di dedizione. Sino agli ultimi istanti del suo pellegrinaggio terreno egli rimase fedele a questo affidamento.
Nello spirito di questa devozione, dinanzi a questa Effigie voglio rendere grazie a Dio per il pontificato di Giovanni Paolo II e come lui chiedere alla Madonna di prendersi cura della Chiesa della quale dalla volontà di Dio mi viene affidata la guida. Domando anche a voi, cari fratelli e sorelle, di accompagnarmi con la stessa preghiera con cui circondavate il vostro grande Connazionale. Benedico di cuore voi tutti qui presenti e tutti coloro che giungono a Wadowice per attingere alle sorgenti dello spirito di fede di Giovanni Paolo II.
Vorrei dire che anch’io, come il caro Cardinale Stanislao, spero che la Provvidenza conceda presto la Beatificazione e la Canonizzazione del nostro amato Papa Giovanni Paolo II.
In questa circostanza stiamo davanti a due misteri: il mistero della sofferenza umana e il mistero della Divina Misericordia. Ad un primo sguardo questi due misteri sembrano contrapporsi. Ma quando cerchiamo di approfondirli alla luce della fede, vediamo che essi si pongono in reciproca armonia. Ciò grazie al mistero della croce di Cristo. Come ha detto qui Giovanni Paolo II, “la croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo… La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo'” (17.08.2002).
Voi, cari malati, segnati dalla sofferenza del corpo o dell’animo, siete i più uniti alla croce di Cristo, ma nello stesso tempo i più eloquenti testimoni della misericordia di Dio. Per vostro tramite e mediante la vostra sofferenza Egli si china sull’umanità con amore. Siete voi che, dicendo nel silenzio del cuore: “Gesù, in te confido”, ci insegnate che non c’è una fede più profonda, una speranza più viva e un amore più ardente della fede, della speranza e dell’amore di chi nello sconforto si mette nelle mani sicure di Dio. E le mani di coloro che vi aiutano nel nome della misericordia siano un prolungamento di queste grandi mani di Dio.
Amici miei, una domanda si impone: “Come costruire questa casa?”. E’ una domanda che sicuramente si è già affacciata molte volte al vostro cuore e che ancora tante volte ritornerà. E’ una domanda che è doveroso porre a se stessi non una volta soltanto. Ogni giorno deve stare davanti agli occhi del cuore: come costruire quella casa chiamata vita? Gesù, le cui parole abbiamo ascoltato nella redazione dell’evangelista Matteo, ci esorta a costruire sulla roccia. Soltanto così infatti la casa non crollerà. Ma che cosa vuol dire costruire la casa sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire prima di tutto: costruire su Cristo e con Cristo. Gesù dice: “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7,24). Non si tratta qui di parole vuote dette da una persona qualsiasi, ma delle parole di Gesù. Non si tratta di ascoltare una persona qualunque, ma di ascoltare Gesù. Non si tratta di compiere una cosa qualsiasi, ma di compiere le parole di Gesù.
Costruire su Cristo e con Cristo significa costruire su un fondamento che si chiama amore crocifisso. Vuol dire costruire con Qualcuno che, conoscendoci meglio di noi stessi, ci dice: “Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo” (Is 43, 4). Vuol dire costruire con Qualcuno che è sempre fedele, anche se noi manchiamo di fedeltà, perché egli non può rinnegare se stesso (cfr 2 Tm 2,13). Vuol dire costruire con Qualcuno che si china costantemente sul cuore ferito dell’uomo e dice: “Non ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (cfr Gv 8, 11). Vuol dire costruire con Qualcuno, che dall’alto della croce stende le sue braccia, per ripetere per tutta l’eternità: “Io dò la mia vita per te, uomo, perché ti amo”. Costruire su Cristo vuol dire infine fondare sulla sua volontà tutti i propri desideri, le attese, i sogni, le ambizioni e tutti i propri progetti. Significa dire a se stessi, alla propria famiglia, ai propri amici e al mondo intero e soprattutto a Cristo: “Signore, nella vita non voglio fare nulla contro di Te, perché Tu sai che cosa è il meglio per me. Solo Tu hai parole di vita eterna” (cfr Gv 6,68). Amici miei, non abbiate paura di puntare su Cristo! Abbiate nostalgia di Cristo, come fondamento della vita! Accendete in voi il desiderio di costruire la vostra vita con Lui e per Lui! Perché non può perdere colui che punta tutto sull’amore crocifisso del Verbo incarnato.
Costruire sulla roccia significa costruire su Cristo e con Cristo, che è la roccia. Nella Prima Lettera ai Corinzi san Paolo, parlando del cammino del popolo eletto attraverso il deserto, spiega che tutti “bevvero da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10,4). I padri del popolo eletto certamente non sapevano che quella roccia era Cristo. Non erano consapevoli di essere accompagnati da Colui il quale, quando sarebbe venuta la pienezza dei tempi, si sarebbe incarnato, assumendo un corpo umano. Non avevano bisogno di comprendere che la loro sete sarebbe stata soddisfatta dalla Sorgente stessa della vita, capace di offrire l’acqua viva per dissetare ogni cuore. Bevvero tuttavia a questa roccia spirituale che è Cristo, perché avevano nostalgia dell’acqua della vita, ne avevano bisogno. In cammino sulle strade della vita, forse a volte non siamo consapevoli della presenza di Gesù. Ma proprio questa presenza, viva e fedele, la presenza nell’opera della creazione, la presenza nella Parola di Dio e nell’Eucaristia, nella comunità dei credenti e in ogni uomo redento dal prezioso Sangue di Cristo, questa presenza è la fonte inesauribile della forza umana. Gesù di Nazaret, Dio che si è fatto Uomo, sta accanto a noi nella buona e nella cattiva sorte e ha sete di questo legame, che è in realtà il fondamento dell’autentica umanità. Leggiamo nell’Apocalisse queste significative parole: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
Amici miei, che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia significa anche costruire su Qualcuno che è stato rifiutato. San Pietro parla ai suoi fedeli di Cristo come di una “pietra viva rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pt 2,4). Il fatto innegabile dell’elezione di Gesù da parte di Dio non nasconde il mistero del male, a causa del quale l’uomo è capace di rigettare Colui che lo ha amato sino alla fine. Questo rifiuto di Gesù da parte degli uomini, menzionato da san Pietro, si protrae nella storia dell’umanità e giunge anche ai nostri tempi. Non occorre una grande acutezza di mente per scorgere le molteplici manifestazioni del rigetto di Gesù, anche lì dove Dio ci ha concesso di crescere. Più volte Gesù è ignorato, è deriso, è proclamato re del passato, ma non dell’oggi e tanto meno del domani, viene accantonato nel ripostiglio di questioni e di persone di cui non si dovrebbe parlare ad alta voce e in pubblico. Se nella costruzione della casa della vostra vita incontrate coloro che disprezzano il fondamento su cui voi state costruendo, non vi scoraggiate! Una fede forte deve attraversare delle prove. Una fede viva deve sempre crescere. La nostra fede in Gesù Cristo, per rimanere tale, deve spesso confrontarsi con la mancanza di fede degli altri.
Cari amici, che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire essere consapevoli che si avranno delle contrarietà. Cristo dice: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono sulla casa…” (Mt 7,25). Questi fenomeni naturali non sono soltanto l’immagine delle molteplici contrarietà della sorte umana, ma ne indicano anche la normale prevedibilità. Cristo non promette che su una casa in costruzione non cadrà mai un acquazzone, non promette che un’onda rovinosa non travolgerà ciò che per noi è più caro, non promette che venti impetuosi non porteranno via ciò che abbiamo costruito a volte a prezzo di enormi sacrifici. Cristo comprende non solo l’aspirazione dell’uomo ad una casa duratura, ma è pienamente consapevole anche di tutto ciò che può ridurre in rovina la felicità dell’uomo. Non vi meravigliate dunque delle contrarietà, qualunque esse siano! Non vi scoraggiate a motivo di esse! Un edificio costruito sulla roccia non equivale ad una costruzione sottratta al gioco delle forze naturali, iscritte nel mistero dell’uomo. Aver costruito sulla roccia significa poter contare sulla consapevolezza che nei momenti difficili c’è una forza sicura su cui fare affidamento.
Amici miei, consentitemi di insistere: che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Vuol dire costruire con saggezza. Non senza un motivo Gesù paragona coloro che ascoltano le sue parole e le mettono in pratica a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. E’ stoltezza, infatti, costruire sulla sabbia, quando si può farlo sulla roccia, avendo così una casa in grado di resistere ad ogni bufera. E’ stoltezza costruire la casa su un terreno che non offre le garanzie di reggere nei momenti più difficili. Chissà, forse è anche più facile fondare la propria vita sulle sabbie mobili della propria visione del mondo, costruire il proprio futuro lontano dalla parola di Gesù, e a volte perfino contro di essa. Resta tuttavia che chi costruisce in questo modo non è prudente, perché vuol persuadere se stesso e gli altri che nella sua vita non si scatenerà alcuna tempesta, che nessuna onda colpirà la sua casa. Essere saggio significa sapere che la solidità della casa dipende dalla scelta del fondamento. Non abbiate paura di essere saggi, cioè non abbiate paura di costruire sulla roccia!
Amici miei, ancora una volta: che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire anche costruire su Pietro e con Pietro. A lui infatti il Signore disse: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,16). Se Cristo, la Roccia, la pietra viva e preziosa, chiama il suo Apostolo pietra, significa che egli vuole che Pietro, e insieme a lui la Chiesa intera, siano segno visibile dell’unico Salvatore e Signore. Qui, a Cracovia, la città prediletta del mio Predecessore Giovanni Paolo II, le parole sul costruire con Pietro e su Pietro non stupiscono certo nessuno. Perciò vi dico: non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell’amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C’è un’unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa.
Questa roccia è Cristo. C’è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell’aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: “Perché state?” Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra, perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr Gn 1, 26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo però che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso ad un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, ed anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?
In questo contesto, occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: “Perché state a guardare il cielo?” Leggiamo che quando gli Apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, Egli “fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”. Ed essi “stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava” (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi ad essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, ad orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.
Cari fratelli e sorelle, con profonda commozione celebro oggi l’Eucaristia sulla spianata di Błonie di Cracovia, luogo in cui più volte celebrò il Santo Padre Giovanni Paolo II durante i suoi indimenticabili viaggi apostolici nel Paese natale. Durante la liturgia si incontrava con il popolo di Dio quasi in ogni angolo del mondo, ma non vi sono dubbi, che ogni volta la celebrazione della Santa Messa sulla spianata di Błonie a Cracovia, era per lui un evento eccezionale. Qui tornava con il pensiero e con il cuore alle radici, alle fonti della sua fede e del suo servizio nella Chiesa. Da qui vedeva Cracovia e tutta la Polonia. Durante il primo pellegrinaggio in Polonia, il 10 giugno del 1979, terminando la sua omelia su questa spianata, disse con nostalgia: “Permettete che, prima di lasciarvi, rivolga ancora uno sguardo su Cracovia, questa Cracovia della quale ogni pietra e ogni mattone mi sono cari. E che guardi ancora da qui la Polonia ”. Durante l’ultima Santa Messa celebrata in questo luogo il 18 agosto 2002, nell’omelia disse: “Sono riconoscente per l’invito a visitare la mia Cracovia e per l’ospitalità offertami” (n. 2). Voglio accogliere queste parole, farle mie e ripeterle oggi: vi ringrazio di tutto cuore “per l’invito a visitare la mia Cracovia e per l’ospitalità offertami”. Cracovia, la città di Karol Wojtyła e di Giovanni Paolo II, è anche la mia Cracovia! E’ anche una Cracovia cara al cuore di innumerevoli moltitudini di cristiani in tutto il mondo, i quali sanno che Giovanni Paolo II giunse sul colle Vaticano da questa città, dal colle di Wawel, “da un paese lontano”, il quale, grazie a questo avvenimento, divenne un paese caro a tutti.
All’inizio del secondo anno del mio pontificato sono venuto in Polonia e a Cracovia per un bisogno del cuore, come pellegrino sulle orme del mio Predecessore. Volevo respirare l’aria della sua Patria. Volevo guardare la terra nella quale nacque e dove crebbe per assumere l’instancabile servizio a Cristo e alla Chiesa universale. Desideravo prima di tutto incontrare gli uomini vivi, i suoi connazionali, sperimentare la vostra fede dalla quale egli trasse la linfa vitale, ed assicurarmi che siete saldi in essa. Qui voglio anche pregare Dio di conservare in voi il retaggio della fede, della speranza e della carità lasciato al mondo, e in modo particolare a voi, da Giovanni Paolo II.
Saluto cordialmente tutte le persone radunate sulla spianata di Błonie di Cracovia fin dove arriva il mio sguardo e ancora oltre. A ciascuno di voi vorrei stringere la mano, guardandolo negli occhi. Abbraccio col cuore tutti coloro che partecipano alla nostra Eucaristia per mezzo della radio e della televisione. Saluto tutta la Polonia! Saluto i bambini e la gioventù, le famiglie e le persone sole, gli ammalati e coloro che soffrono nello spirito e nel corpo, che sono privi della gioia di vivere. Saluto tutti coloro che con il loro lavoro di ogni giorno moltiplicano il bene di questo Paese. Saluto i Polacchi che vivono fuori dei confini della Patria, nel mondo intero. Ringrazio il Cardinale Stanislao Dziwisz, Arcivescovo Metropolita di Cracovia, per le cordiali parole di benvenuto. Saluto il Signor Cardinale Francesco Macharski e tutti i Signori Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate e i nostri comuni ospiti da numerosi Paesi, specialmente da quelli confinanti. Saluto il Signor Presidente della Repubblica, il Signor Primo Ministro, i rappresentanti delle Autorità dello Stato, di quelle territoriali e locali.
Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: “Rimanete saldi nella fede!”. L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità ciò che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata, allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente. Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi ad una persona non ad una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.
San Paolo ci parla di questo nel passo della Lettera agli Efesini che è stato letto oggi. Dio ci ha dato uno spirito di sapienza e “gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e quale è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo” (cfr Ef 1,17-20). Credere vuol dire abbandonarsi a Dio, affidare la nostra sorte a Lui.
Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: “Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).
Anch’io, Benedetto XVI, Successore di Papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo di fissare Colui che da duemila anni è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in Lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.
Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.
Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora: “Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro dello sterminio e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa”. Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: “Sono sei milioni di Polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”, ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell’uomo e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole [ ] il figlio della nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati ”.
Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come Arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest’ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell’odio e sotto la violenza fomentata dall’odio.
Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente: “ Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27). Questo grido d’angoscia che l’Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d’aiuto di tutti coloro che nel corso della storia ieri, oggi e domani soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.
Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l’abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall’altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell’universo, ma che è una cosa sola con l’amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell’amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell’irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio.
Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco, tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese, norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeo-ispanico, inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l’immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una commemorazione particolare. C’è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello” si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte. C’è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l’élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di schiavi. Un’altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l’utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato come lebensunwertes Leben una vita indegna di essere vissuta. Poi c’è la lapide in russo che evoca l’immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: liberando i popoli da una dittatura, dovevano servire anche a sottomettere gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell’ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell’Europa ci parlano della sofferenza di uomini dell’intero continente; toccherebbero profondamente il nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore. Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell’orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: “Solo il nostro Dio può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” (cfr Dan 3,17s.).
Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l’odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l’opera dell’odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: “Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare”.
Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane, che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell’inferno della sofferenza e soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro Internazionale di Formazione su Auschwitz e l’Olocausto. C’è poi la Casa Internazionale per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il Centro Ebraico. Infine si sta costituendo l’Accademia per i Diritti dell’Uomo. Così possiamo sperare che dal luogo dell’orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore.
diletti fratelli e sorelle!
È giunto il tempo di congedarmi dalla Polonia. Per quattro giorni ho percorso come pellegrino la vostra terra, visitando luoghi particolarmente importanti per la vostra identità storica e spirituale. Varsavia, Jasna Góra, Cracovia, Wadowice, Kalwaria Zebrzydowska, Łagiewniki, Oświęcim quanti ricordi evocano questi nomi! Quale ricchezza di significato essi hanno per i Polacchi!
Quando quattro anni fa, congedandosi dalla sua Patria per l’ultima volta, il mio amato Predecessore Giovanni Paolo II esortò la Nazione polacca a lasciarsi sempre guidare da sentimenti di misericordia, di fraterna solidarietà, di dedizione al bene comune, espresse la ferma fiducia che in tal modo essa non avrebbe trovato soltanto una collocazione appropriata nell’Europa Unita, ma avrebbe anche arricchito con la sua tradizione questo continente e il mondo intero. Oggi, mentre la vostra presenza nella famiglia degli Stati d’Europa va sempre più consolidandosi, desidero di tutto cuore ripetere quelle parole di speranza. Vi prego di rimanere fedeli custodi del deposito cristiano, e di trasmetterlo alle generazioni future.
Cari Polacchi! Vorrei confidarvi che questo pellegrinaggio, durante il quale ho visitato luoghi particolarmente cari al grande Giovanni Paolo II, mi ha avvicinato ancor più a voi, suoi connazionali. Vi ringrazio per la preghiera di cui mi avete circondato sin dal momento della mia elezione. Durante gli incontri con voi, nelle udienze in Vaticano, più volte ho sperimentato un legame di intensa preghiera e di spontanea simpatia. Vorrei che continuaste a ricordarmi nelle vostre preghiere, chiedendo al Signore di accrescere le mie forze nel servizio della Chiesa universale.
Ringrazio il signor Presidente della Repubblica di Polonia e l’Episcopato per l’invito. Ringrazio il Signor Primo Ministro per la fruttuosa collaborazione del Governo con i rappresentanti della Chiesa nella preparazione di questa visita. Esprimo la mia gratitudine alle autorità di ogni grado per il loro impegno, già prima dell’inizio della mia visita e durante il suo svolgimento. Ringrazio i rappresentanti dei mass media per la fatica affrontata nel trasmettere ampie informazioni su questo pellegrinaggio. Le mie espressioni di riconoscimento e di ringraziamento vanno pure ai servizi d’ordine, all’esercito, alla polizia, ai vigili di fuoco, al servizio sanitario e a tutti coloro che hanno contribuito a rendere splendido questo incontro del Papa con la Polonia e con i suoi abitanti.