Pisa

VI PORTO TUTTI NEL CUORE

di Andrea Bernardini

Nello studio personale sono rimaste la scrivania, qualche sedia e poco più. Tutto il resto – come anche gli arredi di altre stanze – è stato già caricato e portato a Roma, in un appartamento a due passi dal Pantheon, dove ad aprile andrà ad abitare con la sorella.Monsignor Alessandro Plotti sta leggendo La Repubblica e fumando il solito toscano quando ci sediamo di fronte a lui. Quella che stiamo vivendo sarà la sua ultima Settimana Santa da arcivescovo a Pisa. E l’ultima Pasqua. Liturgia pasquale della notte in Duomo,  del mattino in carcere, del giorno di nuovo in Cattedrale. La tradizione di stare con i detenuti dell’istituto penitenziale di Pisa almeno qualche ora nei giorni di Natale, di Pasqua e per la festa di San Giovanni Bosco data ormai molti anni… «Niente di notiziabile, per carità. È normale per un vescovo bazzicare le carceri della diocesi a lui affidata, almeno nei giorni di festa più significativi, dove peraltro la lontananza dalla famiglia si fa sentire ancora di più». Se lo dice lei… «Anzi esperienze di questo tipo – riprende il nostro – ci fanno maturare nell’esigenza di educare la Chiesa a farsi sempre più prossima a questi giovani, che hanno sì mancato ai loro doveri di cittadini, ma ai quali non possiamo precludere la speranza della redenzione e della salvezza».Una delle intuizioni più significative del suo episcopato è stata quella di aver voluto dare una assistenza organica, ma diremmo anche un’anima a tutti quei luoghi dove la gente vive anche solo per pochi giorni, per pochi anni o per poche ore al giorno. Pisa è stata la prima diocesi, ad esempio, a dotarsi di una cappellania ospedaliera… «È vero. Fino alla sua costituzione l’assistenza ai malati era stata garantita, per lo più, dai frati cappuccini, il cui numero, però, nel tempo, andava riducendosi. Di qui l’idea di ripensare la presenza della Chiesa nei nove ospedali della diocesi: per assistere gli ammalati, ma anche per accompagnare il personale. Funzioni che ora svolgono preti, diaconi, religiosi e decine di volontari. E il servizio è migliorato». E poi la cappellania universitaria…«Nelle grandi città esisteva da tempo. Ho voluto sollevare la chiesa di San Frediano dalla funzione di parrocchia per affidarle quella di centro di pastorale universitaria. Qui si ritrovano i giovani della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) e del Gusf (Gruppo universitari San Frediano), tutti i giorni si celebra una Messa molto frequentata, si tengono incontri sulla Sacra Scrittura. Una presenza che si affianca al servizio Cultura e università: i numeri che riusciamo a raggiungere sono sproporzionati rispetto al movimento di 50mila studenti e 3mila docenti che ruotano intorno ai nostri tre atenei. Ma rappresentano comunque il segno dell’attenzione della Chiesa locale a questa gente».Dai cittadini occasionali a quelli residenti. Sono molto più mobili di un tempo… mettendo in crisi la vecchia idea di parrocchia. Non è così?«In passato si nasceva, si viveva, si lavorava, si moriva in una ristretta porzione di territorio. Oggi non è più così. Faccio un esempio: si nasce a Pisa, si mette su famiglia e ci si trasferisce a San Giuliano Terme, si fa la spesa a Cascina, si lavora a Vicarello… e a Pisa si torna per trovare i vecchi. Questa mobilità ci impone due scelte: avvicinare la gente dove vive, opera e si riconosce protagonista della società civile; e, nel contempo, rendere più saldo il senso di appartenenza alla comunità. Non è facile, me ne rendo conto: chi vive da sempre in una porzione di territorio si identifica, in molti casi, in segni e tradizioni che non dicono niente, invece, alle nuove famiglie. Per ridisegnare la funzione di parrocchia gli uni e gli altri dovrebbero mettersi in gioco. Anche la disposizione geografica di molti campanili ha un po’ perso, nel tempo, significato. L’esempio più evidente viene dal Piano di Pisa. Le frazioni, di fatto, non esistono più, Cascina è divenuta un’area metropolitana da 50mila abitanti: i bambini sono sradicati dal territorio in cui nascono già a sei anni.In quel lembo di terra abbiamo 23 parrocchie, peraltro poco integrate tra loro, e le chiese sono quasi tutte nate sulla vecchia Tosco Romagnola, quando invece le nuove famiglie si stabiliscono dintorno alla Ferrovia o a ridosso della Fi-Pi-Li ».Parliamo dei giovani: uno dei primi documenti che ha scritto quando è arrivato a Pisa, lo ha dedicato al sacramento della cresima… proviamo a banalizzare in una battuta il contenuto di diverse pagine di riflessione: se prima della cresima saremo riusciti a favorire un vero incontro tra Dio e il ragazzo, beh, quello non sarà più il sacramento dell’allontanamento, ma il sacramento della consapevolezza. Oggi l’età della cresima è stata portata in avanti. È sufficiente?«Sulla cresima ci sono ancora due nodi da sciogliere: il suo significato e l’età in cui amministrarla. L’età: nei Paesi del nord viene amministrata a diciotto anni, ma solo due giovani su dieci chiedono di riceverla. In Italia la ricevono quasi tutti, ma in diverse diocesi la si è anticipata a prima dell’eucarestia… noi stiamo provando a farne una scelta consapevole proponendola agli adolescenti. Ma per un adolescente optare per una vita coerente con il Vangelo non è sempre facile… gli stimoli della società lo portano a scelte diverse. E, in effetti, in alcune parrocchie, ricevuta la cresima, l’esodo dalla vita comunitaria è ancora quasi totale. Qualche buon risultato è stato raggiunto, invece, nel coinvolgimento delle famiglie alla vita parrocchiale, grazie anche ai cammini paralleli per genitori e figli avviati in molte comunità quando c’è richiesta di preparazione alla Messa di prima comunione. Per la verità dovremmo coinvolgere i genitori già quando chiedono il battesimo per il loro figlio, per metterli di fronte alle loro responsabilità di primi educatori al senso religioso…».Vivere la nostra vita in risposta ad una chiamata. Negli ultimi anni il Seminario si è ripopolato, ma resta alto il gap tra preti anziani e giovani che andranno a sostituirli. Santa Teresa di Lisieux diceva «Tutto è grazia»… che il segno della Provvidenza oggi, più di ieri, passi anche attraverso un nuovo modello di Chiesa, dove non c’è più solo il pastore, ma anche laici sempre più maturi?«Forse sì. Quello che sta succedendo può essere anche letto come un incoraggiamento rivolto ai laici ad assumere sempre maggiori responsabilità nella vita della Chiesa. Ci sono compiti organizzativi, amministrativi, economici che possono essere affidati ai laici, sì da liberare tempo utile al prete per esercitare le sue prerogative: la presidenza dell’Eucarestia, la confessione e l’assoluzione dei peccati, l’ascolto, il dialogo, la formazione personale… I preti, comunque, restano una risorsa insostituibile: e nelle comunità dove non c’è più il parroco residente la vita sacramentale soffre. Per questo tutte le comunità dovrebbero creare un clima favorevole alla maturazione di nuove vocazioni alla vita presbiterale e religiosa».Lei non ha ricevuto la grazia di avere intorno a sé un grande laico come Giuseppe Toniolo. Ma è riuscito, meglio di Maffi e Toniolo che l’avevano inventate, a portare le Settimane sociali a Pisa. Forse l’evento che, insieme alla visita pastorale di Giovanni Paolo II a Pisa nel 1989, ha fatto sperimentare a chi l’ha vissuto, il senso di accoglienza della nostra diocesi. Che giudizio dà delle Settimane sociali?«È vero, abbiamo dato una bella prova di accoglienza. La preparazione e lo svolgimento della Settimana sociale toscana ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica i temi della dottrina sociale della Chiesa. Alto il livello dei relatori e delle relazioni. È mancato forse un po’ il tempo per il confronto. Senza un dibattito anche serrato tra le diverse anime del cattolicesimo, manifestazioni di questo tipo rischiano di divenire celebrazioni di cartello. Dunque una questione di metodo, più che di merito. Peraltro messa a tema del recente consiglio permanente dei vescovi italiani»    Lei parla di diverse anime: l’anima del cattolicesimo sociale, forse più disponibile al dialogo con chi ha posizioni e fa scelte diverse rispetto al magistero e chi, invece, si mostra forse più convinto nell’affermare e difendere i valori in cui crede la Chiesa, in nome della verità. In diocesi nostra si è fatto qualcosa per favorire il dialogo tra queste due «anime»?«Le diverse anime sono sempre esistite… anche quando c’era il partito unico dei cattolici. Hanno entrambe diritto di cittadinanza. Nelle associazioni il dialogo tra queste due posizioni c’è sempre stato. Tra i politici cresciuti all’ombra del campanile e impegnati in schieramenti diversi il confronto è difficile, esaspera ed allontana più che avvicinare. E trovare una linea unitaria almeno su certi valori è faticosissimo. Del resto anche la mia insistenza su certi temi – su cui mi sono esposto perché mosso dal desiderio di leggere la società con il metro del Vangelo – è stata male interpretata e letta come partigiana. E questo mi pesa come una sconfitta, perché non era nelle mie intenzioni alimentare divisioni».Il rapporto con le istituzioni, generalmente proficuo e collaborativo, ha prodotto, in questi anni, risultati concreti. Non c’è, però, il pericolo che quando comunità civile e comunità cristiana  collaborano in nome del bene comune, quest’ultima finisca quasi per omologarsi, per perdere il diritto di critica… per non saper spiegare alla gente la differenza che passa tra carità cristiana e solidarietà?«La Chiesa deve cercare sinergie con le istituzioni quando c’è da lavorare per la gente e, in particolare, per i poveri. Quando è chiamata a gestire direttamente servizi, deve farlo in modo profetico, rendendo testimonianza delle motivazioni che ispirano quelle attività. Un valore aggiunto che, in genere, anche l’ente pubblico riconosce e apprezza. Penso, ad esempio, alla Fondazione Casa Maffi: un’opera della Chiesa che promuove servizi sociali garantiti dal pubblico e che dalle istituzioni ha ricevuto riconoscimenti anche per lo stile con cui presta questi servizi. O alle case famiglia gestite dalle cooperative sociali promosse dalla Caritas o dall’Unitalsi».    Che Chiesa le aveva lasciato Benvenuto Matteucci? E che Chiesa lascia a Giovanni Paolo Benotto?«Ogni vescovo ha il suo stile e i suoi pallini. Matteucci ha gestito il periodo del post-concilio: non era facile applicarne le intuizioni, non lo si fa ancora adesso che son passati quarant’anni. Io, in linea con il Concilio, ho cercato di far maturare una Chiesa in dialogo, incarnata dentro la storia. Una Chiesa che non si arrocca su sé stessa, né giudica l’uomo, ma che si apre e raccoglie le sue istanze. Una chiesa di popolo, non gerarchizzata».Sta facendo le valigie. Perché ha deciso di non restare a Pisa?«Un atto di delicatezza verso il mio successore: se fossi rimasto tanti avrebbero continuato a far riferimento a me per mille cose ed invece ritengo giusto che Benotto abbia piena libertà di dare una sua impronta alla diocesi che è stato chiamato a governare. Pensi,   anche quando un parroco va in pensione, gli consiglio di non restare in parrocchia…» A Roma dove andrà ad abitare e cosa farà?«Andrò ad abitare in un appartamento al centro di Roma, a un passo dal Pantheon, dalle chiese di Sant’Ignazio e del Gesù. Tornerò nella Chiesa dove ho prestato servizio a lungo prima di arrivare a Pisa: come assistente della facoltà di Medicina dell’Università cattolica del Sacro Cuore, parroco di Santa Lucia e vescovo ausiliare. Non ho incarichi specifici… dovrò inventarmi il mio futuro. È un po’ il destino di tutti gli emeriti, che restano legati all’ultima Chiesa che hanno servito, ma che a 75 anni e passa finiscono come … prestatori d’opera».