Opinioni & Commenti
Vescovi lefebvriani, siamo solo all’inizio di un cammino
di Elio Bromuri
Con la revoca della scomunica ai quattro vescovi consacrati abusivamente da Lefebvre il 30 giugno 1988, Benedetto XVI ha compiuto un atto di misericordia, di perdono e di riconciliazione, per ricomporre l’unità cattolica, scissa dolorosamente proprio su quanto la Chiesa ha realizzato di più grande e importante in tutto il secolo XX, il Concilio Vaticano II. Impegnato alla ricomposizione dell’unità pan-cristiana soprattutto con la Chiesa ortodossa e le antiche Chiese orientali, non poteva dimenticare che vicino a casa, nel cuore della cattolicità, si stava perpetrando uno scisma che poteva consolidarsi e rimanere fissato per un tempo indeterminato come una piaga cronica. Sarebbe stata un’ulteriore ferita inferta al Corpo di Cristo già dolorosamente lacerato. Benedetto XVI aveva detto all’inizio del suo pontificato che considerava concluso l’ecumenismo delle parole e dei buoni sentimenti, e si sarebbe impegnato nell’ecumenismo dei fatti e gesti concreti. Questo è uno dei fatti concreti, forte e coraggioso. È pertanto una bella notizia, fonte di gioia per tutta la Chiesa, come ha affermato padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede.
È lecito però ritenere che sarebbe stata ancora, più lieta e compresa da tutti, se non fossero intervenute discutibili coincidenze che hanno offuscato la gioia e provocato qualche perplessità. La coincidenza del 50° del primo annuncio del Concilio, che i vescovi lefebvriani certamente non amano, è potuto sembrare un’ombra gettata sul Concilio stesso. Sappiamo che non è così nella mente del Pontefice, ma semmai una presa di distanza dalla mitizzazione del Concilio inteso come una discontinuità e distacco rispetto alla tradizione cattolica, come ha chiarito il Papa in un discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, discorso riportato su «L’Osservatore Romano» del 25 gennaio 2009 proprio in coincidenza con la pubblicazione del decreto di revoca. Si può dire giornalisticamente che la pagina 5 dell’«Osservatore» (25 gennaio 2009) spiega le ragioni del decreto riportato in prima, nel senso che l’interpretazione del Concilio come «riforma della Chiesa nella continuità e non come rottura e distacco dalla tradizione passata» rende possibile la compresenza e la comunione anche con chi a questo passato si sente strettamente e indissolubilmente legato fino a non comprendere le ragioni del rinnovamento conciliare.
Ma la cosa che ha suscitato maggiore scalpore è stata la dichiarazione negazionista della Shoà, fatta dal vescovo Williamson. Affermazione stolta e infondata da cui hanno preso netta distanza sia la Cei sia il Vaticano. E tuttavia, incapaci di fare sottili distinzioni, molti commentatori e giornalisti e con loro molte persone hanno messo insieme la revoca della scomunica con tale farneticante dichiarazione, come se questa fosse avallata dal Papa, per il fatto che lui l’ha perdonato. L’ha perdonato per un’altra cosa, evidentemente, ma la gente, purtroppo, seguendo le notizie dei media, è portata a facili quanto infondate deduzioni. Di troppo sono state anche dichiarazioni di rivincita pervenute in ambienti tradizionalisti delle nostre città.
Non sono da giubilo anche le condizioni previe al dialogo poste dai capi della Fraternità San Pio X, quella di ripristinare la celebrazione del rito preconciliare della Messa e la revoca delle scomuniche. Queste erano state inflitte per motivi gravissimi, quali la consacrazione abusiva e illecita da parte del vescovo Lefebvre dei 4 vescovi senza l’autorizzazione pontificia, avvenuta a seguito di un deciso e profondo dissenso su alcune impostazioni pastorali del Concilio Vaticano II riguardanti la liturgia, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, la libertà di coscienza. Posizioni conciliari approvate a grandissima maggioranza, vicina alla unanimità, dai circa duemilacinquecento padri conciliari, giunti alla votazione dopo sei anni di lavori: preparazione, riflessioni, elaborazioni, discussioni, aggiustamenti, votazioni parziali e continue, intense preghiere, sotto la guida di Giovanni XXIII, Paolo VI, e l’autorevole conferma di Giovanni Paolo primo e secondo e dello stesso papa Ratzinger. Ebbene, dopo tutto questo, si deve dire che Benedetto XVI ha avuto una grande pazienza e un gran coraggio. Da questo atto di clemenza si vede quanto gli stia a cuore l’unità della Chiesa. Ha fatto quanto spetta a lui. Ha gettato una sfida ad un gruppo di persone che hanno avuto la pretesa di dissentire clamorosamente, di ritenersi, solo loro, nella verità rispetto a tutta la comunità ecclesiale. Stando al principio paolino secondo cui «tutto concorre al bene» per coloro che fanno quello che è loro richiesto, si può pensare che anche questa vicenda servirà a far crescere la Chiesa nella consapevolezza di essere «nella mano di Dio» (Ez 37).
Siamo per ora solo all’inizio di un percorso che dovrà continuare e svilupparsi in una piena concordia dottrinale e pratica. Questa verrà a seguito di maggiori contatti, di dialoghi franchi e sinceri, di correzione fraterna e paterna e, soprattutto, per l’opera dello Spirito Santo che agisce nella Chiesa come forza di unione e di santificazione. A noi spetta di guardare con occhi nuovi e limpidi una storia di salvezza che non teme il futuro e non è schiava del passato, ma segue i ritmi e i segni dei tempi, anche di questo nostro tempo breve, che non si arresta.