Vita Chiesa
Vescovi dell’Hlc in Terra Santa. Cetoloni (Grosseto): «Dialogo unica via per arrivare alla pace»
“Promuovere il dialogo e la pace in Terra Santa”: è questo il tema dell’annuale pellegrinaggio dei vescovi del Coordinamento della Terra Santa (Hlc) che si svilupperà tra Gaza, Ramallah e Gerusalemme Est dall’11 al 16 gennaio. Hlc (Holy Land Coordination) raduna vescovi dalle Conferenze episcopali europee, del Nord America, con delegati dal Ccee e Comece, di organismi caritativi nazionali e internazionali e rappresentanti di altre denominazioni cristiane. Scopo del pellegrinaggio, che ha luogo da oltre 20 anni, è portare vicinanza e solidarietà alle comunità cristiane di Terra Santa. I vescovi, 15 quest’anno, saranno a Gaza, a Ramallah e a Gerusalemme Est. Su questo pellegrinaggio il Sir ha intervistato il delegato italiano all’Hlc 2020, mons. Rodolfo Cetoloni, vescovo di Grosseto, frate minore, che ha uno stretto legame con la Terra Santa, dove, tra l’altro, è stato ordinato sacerdote.
“Promuovere il dialogo e la pace in Terra Santa” è il tema di questo anno. Considerando ciò che sta accadendo nella regione, tra Iran, Iraq, Usa, Siria, Libano, parlare di pace e di dialogo non rischia di diventare un puro esercizio di stile?
Il pellegrinaggio di quest’anno ci spinge a guardare con attenzione a tutto ciò che sta accadendo nei Paesi vicini. Tensioni che si ripercuotono anche in Terra Santa e che ci spingono, come vescovi Hlc, a nutrire sempre più speranza anche nei piccoli gesti rivolti alle persone. Senza, tuttavia, cadere in facili illusioni. Credo che mai come ora si debba puntare sul dialogo quale unica via per arrivare alla pace, anche se i venti spingono in direzione opposta. A tale proposito vale la pena notare come il programma di quest’anno punti in modo chiaro all’incontro e con i giovani e con realtà educative e scolastiche a Gaza, a Betania, a Ramallah, a Gerusalemme. È la strada umile e forte dell’educazione che deve essere percorsa.
Perché umile?
Perché le altre strade le percorrono i potenti. Come Chiesa e come comunità cristiana non abbiamo altre strade se non quelle di educare e formare alla tolleranza e all’incontro. Lo facciamo anche attraverso la presenza e la vicinanza alle persone. Stare vicino alle persone significa anche dare segni di speranza. Aiutare i giovani a pensare diversamente rispetto a questo mondo pieno di tensioni e di aggressività è prioritario. Dobbiamo difendere le nuove generazioni da tutta questa violenza.
Ne sanno qualcosa le suore comboniane di Betania dove andrete il 14 gennaio. Il muro di separazione costruito da Israele ha di fatto diviso il loro convento dalla scuola che gestiscono costringendo i bambini a percorrere diversi km per andare a lezione. Israele ha concesso l’apertura di un cancello solo per 10 minuti al mattino e 10 al pomeriggio. Una storia che va avanti da circa 10 anni…
Quella del Muro è una realtà oramai cronicizzata. Speriamo che cada come sono caduti anche altri muri. La situazione di Betania è terribile, separare i ragazzi dalla propria scuola, il tentativo di aprire un cancello – che mostra anche una certa sensibilità da parte di Israele di venire incontro a queste situazioni umane – anche se solo per pochi minuti, mostra come certe scelte feriscono il vivere quotidiano della gente comune.
Il pellegrinaggio sarà l’occasione per riflettere sugli insediamenti israeliani che restano uno dei nodi più difficili da sciogliere nell’ambito di una auspicata ripresa negoziale…
È un altro tema caldo. Come per il Muro, anche per le colonie ci vorrebbero altre personalità e reale volontà di affrontare il problema. Diversamente ad essere abbattute saranno le speranze e le intenzioni di chi vorrebbe trovare soluzioni e strade nuove. E continuare a frustrare le speranze delle persone porta a rabbia, rancori e reazioni che non faranno altro che peggiorare la situazione.
Il programma prevede anche una tappa nella Striscia di Gaza, ferita aperta del conflitto tra israeliani e palestinesi. La visita ai cristiani locali è molto attesa…
Sarà una visita di vicinanza a questa comunità. Certamente un segno piccolo ma lo dobbiamo ai nostri fratelli che vivono nella Striscia nonostante i venti contrari che allontanano le speranze per una fine del conflitto. Saranno momenti di ascolto utili per capire come i nostri fratelli in Terra Santa vivono queste difficoltà politiche, sociali ed economiche. Solo così potremo riportare la loro testimonianza una volta rientrati a casa.
La Chiesa italiana ha sempre mostrato una grande vicinanza a quella della Terra Santa, unite da un legame molto forte. C’è un contributo particolare che la Chiesa italiana può dare in un momento di così forte tensione nell’area?
Innanzitutto coltivare questa attenzione che l’Italia ha da sempre verso la Terra Santa attraverso il Patriarcato e la Custodia e tante istituzioni religiose, educative e caritative. Poi serve dare continuità a questa attenzione e a questa presenza. Essere nell’Holy Land Coordination rafforza questo legame. Credo vada in questa direzione anche l’incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo frontiera di pace”, promosso dalla Cei per il prossimo febbraio (dal 19 al 23, ndr.) che porterà a Bari i vescovi e i patriarchi cattolici dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Siamo felici che Papa Francesco abbia confermato la sua presenza il 23 febbraio. Quello di Bari è stato pensato sin dall’inizio come un incontro di carità tra i vescovi e i patriarchi per confermarsi in una esperienza di sostegno e di ascolto reciproco delle rispettive Chiese. Ne deriva un messaggio di unità e di servizio umile ma forte in questa situazione particolarmente tesa che stiamo vivendo.