Toscana
«Venti di pace» in Caucaso
Si conclude il 1° agosto, dopo un incontro con il patriarca ortodosso Bartolomeo I, a Istanbul, il «Viaggio di amicizia» dell’associazione «Rondine Cittadella della pace» nel Caucaso del sud (Azerbaijan, Georgia, Armenia) e Turchia. La delegazione è composta da alcuni giovani dello Studentato internazionale che provengono da zone di conflitto (ceceni, ingusci, macedoni, abkazi, georgiani, libanesi, russi, israeliani), dal presidente Franco Vaccari e dallo staff. L’intento del viaggio, iniziato a Baku lo scorso 15 luglio è diffondere e consegnare il documento «14 punti per la pace nel Caucaso» elaborato da «Rondine».
Decine gli incontri realizzati sia a livello politico che istituzionale, accademico, sociale ed ecumenico. A Tbilisi Franco Vaccari, ha ricevuto la Laurea honoris causa in Risoluzione dei Conflitti dalla David Guramishvili Georgian International University. Significativo prologo al viaggio la presenza all’udienza papale del 7 luglio scorso, in piazza San Pietro, con la speciale benedizione del Pontefice per tutti i partecipanti al viaggio, per i Paesi da visitare e i particolari saluti affidati alla delegazione di «Rondine» per il patriarca Bartolomeo. Sul viaggio il reportage di una giornalista al seguito del gruppo di «Rondine». (nella foto di Silvano Monchi l’attraversamento della frontiera tra Abkhazia e Georgia)
Al campo-profughi. Il viaggio di «Rondine» è iniziato il 15 luglio in Azerbaijan, protagonista con l’Armenia, a metà degli anni Novanta, di un’altra guerra dimenticata, quella per il controllo del Nagorno Karabakh. Arrivando a Baku, la capitale situata sul Mar Caspio, una città bella e moderna con cantieri aperti ovunque, sintomo di una crescita economica costante portata dal petrolio, è difficile immaginare che nel Paese ci sono 700 mila sfollati disseminati in oltre 60 campi profughi. La delegazione di «Rondine», oltre ad aver avuto diversi incontri ufficiali, tra cui quello con il viceministro degli Esteri, Araz Azimov, che ha assicurato il suo «appoggio» all’ipotesi di far accogliere nello Studentato internazionale dell’associazione un giovane armeno e uno azero, provenienti dalla regione contesa, ha visitato anche due campi profughi. Nel primo, costituito da una serie di casermoni fatiscenti, i profughi arrivati qui dopo la guerra vivono ancora in condizioni precarie: una famiglia ha una sola stanza per sé, senza acqua e gas, con la cucina e il bagno in comune con altre famiglie; le scale sono pericolanti e i bambini giocano nel cortile polveroso, in realtà uno slargo tra un palazzo e l’altro. «Ho visto uccidere le persone davanti ai miei occhi, la mia città è stata occupata, mio fratello e tutti i miei parenti sono morti». È un racconto di dolore quello che un profugo, Fase Abbasov, ha fatto alla delegazione, seguito dalle parole rassegnate di Zaman Shukurav, che lavora al mercato del campo-profughi. «Sono qui dal 1993 e tutto ciò che avevo è andato perso. Vendo i vestiti per vivere, ma quello che guadagno non basta».
Anche i profughi, che vivono nei nuovi complessi costruiti nell’ultimo anno dal governo azero, con una stanza ogni due persone e tutti i servizi ben funzionanti, hanno un solo pensiero e una sola aspirazione, quella del ritorno. Zabrael Khaliev, dirigente di una delle nuove scuole per i figli degli sfollati, ha fatto vedere agli ospiti la foto della sua casa distrutta. «L’avevo costruito con le mie mani ha raccontato e per quanto adesso qui stiamo bene, io voglio tornare nella mia terra».
La comunità cattolica. Nei giorni in Azerbaijan, «Rondine» ha portato avanti anche dei contatti con le autorità religiose, come Salman Musayev, «braccio destro» dello sceicco Pashazadeh all’Istituto islamico del Caucaso, e ha incontrato la comunità cattolica di Baku. Padre Pietro Fidermak, viceparroco dell’Immacolata Concezione, unica chiesa cattolica della capitale, ha raccontato di «una Chiesa piccola, per dimensioni, ma vivace, con molti giovani: abbiamo circa 200 fedeli e la maggior parte sono azeri, non credenti o musulmani, e alcuni si sono battezzati». Nel Paese gli abitanti sono al 93,4% islamici: in tutto il Paese ci sono solo due parrocchie, rette da un amministratore apostolico; più consistenti numericamente i protestanti e gli ortodossi, circa 40 mila, che sono presenti con tre chiese e un vescovo. «In Azerbaijan i musulmani sono molto tolleranti con le altre religioni ha sottolineato padre Fidermak non ci sono problemi se qualcuno si converte al cristianesimo, anzi gli iraniani che diventano cattolici, e non possono rimanere nel loro Paese, vengono a vivere qui».
Salvati dal Rosario. Mons. Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso per i latini, ha raccontato che «la presenza della Chiesa cattolica in Georgia è stata salvata dal rosario». Il vescovo ha ricordato che nel periodo comunista solo questa preghiera, che era recitata in casa dalle persone più anziane, ha mantenuto viva una fede che rischiava di perdersi. Attualmente la comunità cattolica georgiana è una piccola minoranza, rappresenta poco più dell’uno per cento della popolazione del Paese, a maggioranza ortodossa, ed ha circa 50 mila fedeli di tre riti: latino, assiro-caldeo e armeno. Le comunità sono in totale 25, ci sono 20 sacerdoti, quattro seminaristi e religiosi di varie famiglie e sono in formazione anche i primi 9 diaconi sposati.
La guerra, un «grande colpo». Passaggio fondamentale della Chiesa cattolica georgiana è stato il primo Sinodo, che si è svolto nel 2006, «durante il quale, anche con fatica ha ricordato mons. Pasotto abbiamo scelto tre direzioni: il coraggio della comunione, il coraggio della formazione, il coraggio dell’attività e dell’impegno». La Chiesa cattolica, che gode di grande stima per il suo impegno caritativo, non è però ancora riconosciuta giuridicamente dallo Stato. La Caritas, nata nel 1994, si è subito occupata di organizzare mense per i poveri ed è stata molto attiva durante il conflitto del 2008 tra Russia e Georgia: è intervenuta direttamente nelle zone più difficili con attività a favore degli sfollati e ha in piedi vari progetti per il dopo-guerra, alcuni anche nella parrocchia cattolica che è in Abkhazia, zona al centro del conflitto. Mons. Pasotto ha rilevato che per i georgiani «la guerra è stata un grande colpo alle speranze e alla fiducia per il futuro, perché si sono ritrovati più impoveriti, più soli e con meno territorio sotto controllo. Si è capito che l’intervento militare non risolve mai i problemi: se non si accetta il vicino e non si cercano punti di collaborazione non si uscirà mai da questa situazione».
La Chiesa, unica via di dialogo. L’importanza del fattore religioso nella risoluzione dei conflitti è stata ricordata, nel corso dell’incontro al Patriarcato ortodosso del 21 luglio, dai vescovi Gherasme e Daniele. «In questo momento ha infatti ricordato il primo non ci sono rapporti diplomatici tra Russia e Georgia e le uniche relazioni che ancora funzionano sono quelle tra le Chiese, che garantiscono la sola via di dialogo». Dopo la guerra del 2008, che ha visto protagonisti i due Stati e la regione autoproclamatasi autonoma dell’Abkhazia, i sacerdoti e i religiosi sono dovuti scappare e «al vescovo e ai suoi preti è proibito entrare nel territorio abkhaso. E ciò, nonostante lo stesso patriarcato di Mosca abbia riconosciuto che la Chiesa ortodossa della regione fa parte della Chiesa georgiana». «Certo ha aggiunto la Chiesa da sola non riuscirà a far ritornare la pace, perché i veri passi avanti vanno fatti dai politici». Il vescovo Daniele ha poi sottolineato che «mai la Chiesa è stata cacciata dal proprio Paese» e si è dichiarato molto preoccupato per il suo popolo, al quale, senza sacerdoti né vescovo, «manca la forza spirituale».
Un territorio segnato dalla guerra. A piedi su un ponte, a passo lento, dietro un carretto malmesso guidato da un cavallo in cui erano state ammonticchiate le pesanti valigie: è in questo modo che il 22 luglio la delegazione di «Rondine» ha superato i controlli dei due check point posti sulla «red line» ed è entrata in Abkhazia, una regione che si è autoproclamata autonoma dalla Georgia. Il gruppo è poi arrivato nella serata a Sukhumi, una città di circa 50 mila abitanti che si affaccia sul Mar Nero. Si tratta di una delle zone più problematiche dell’area caucasica: da quando c’è stata la guerra tra Russia e Georgia, nel 2008, molti georgiani hanno abbandonato il territorio abcaso ed è la prima volta che un gruppo così variegato, composto prevalentemente da studenti internazionali, tra cui molti caucasici ma anche libanesi, israeliani, macedoni e russi, giunge in città passando da Zugdidi.
I giorni terribili. In Abkhazia la delegazione, partita da Tiblisi, ha attraversato un vasto territorio in cui sono evidenti i segni della guerra con la Georgia del 1992-93: il pulmino con il gruppo procede a zig zag per evitare i bovini che hanno invaso le strade totalmente dissestate e per chilometri e chilometri si vedono solo case distrutte o abbandonate, mucche e cavalli allo stato brado, e pochissimi abitanti. Nel corso della trasferta il gruppo si è anche brevemente fermato nella città natale di Stalin, Gori, in Georgia, che nel conflitto del 2008 è stata pesantemente bombardata. In questo caso gli aiuti internazionali hanno permesso una rapida ricostruzione degli edifici distrutti, anche se nel cuore della popolazione, come hanno testimoniato alcuni degli abitanti incontrati per strada, rimane la paura per quei «giorni terribili» e la preoccupazione per un nuovo precipitare della situazione.
Diritto al futuro. Nei tre giorni precedenti, la delegazione ha avuto vari incontri a Tiblisi, seconda tappa del viaggio dopo l’Azerbaijan, a livello civile, politico e religioso, e ha rinnovato il rapporto di amicizia e collaborazione con le principali università. Alla «David Guramishvili Georgian International University» il presidente di «Rondine», Franco Vaccari, ha ricevuto la laurea honoris causa in risoluzione dei conflitti. «Per la pace dei popoli non serve solo la bontà ma anche l’intelligenza», ha detto Vaccari in apertura della sua lectio magistralis. Il riconoscimento accademico arriva dopo quindici anni di lavoro con gli studenti e gli atenei georgiani e conferisce, secondo il presidente, «dignità culturale e scientifica all’impegno in azioni di pace, che dovrebbe diventare un argomento interdisciplinare con cui tutte le scienze si devono confrontare. In questo senso la nostra esperienza dello Studentato internazionale, che accoglie giovani provenienti da zone di conflitto, si propone sempre più come un laboratorio di ricerca». Vaccari ha anche chiesto che a «Rondine» venga concessa la possibilità di scegliere gli studenti nei territori che vivono conflitti, perché «una volta terminate le guerre per costruire una pace duratura servono persone che sappiano cos’è la convivenza. Nei campi profughi che abbiamo visitato ci sono bambini e giovani senza prospettive ma noi abbiamo il dovere di garantire ai giovani il diritto al futuro».
Le testimonianze
Per i ragazzi dello Studentato, che partecipano al viaggio, questa esperienza è stata una specie di «stage formativo», un confronto delle «competenze» acquisite con i luoghi del conflitto da cui alcuni di loro provengono. Come Kan Taniya, abcaso, uno degli ideatori del documento sulla pace del Caucaso. «Quando è scoppiata la guerra tra Russia e Georgia nel 2008 ricorda qui in Abkhazia ci aspettavamo di essere coinvolti dal conflitto ed eravamo preparati alla guerra. Quando sono tornato a Rondine, noi studenti abcasi, russi e georgiani abbiamo parlato tantissimo tra di noi per capire cosa era successo e perché: da lì è nata l’idea di organizzare la conferenza nel Caucaso, che poi ha portato alla redazione e approvazione, nel 2009 a La Verna, del documento dei 14 punti».
Soluzioni non facili. Anche per una delle studentesse presenti libanese che chiede l’anonimato, questo viaggio nel Caucaso è stato importante «perché, al di là dei conflitti di cui mi avevano parlato gli altri studenti, ho scoperto la ricchezza della cultura, delle tradizioni, della lingua, del cibo e dell’ospitalità della gente». «Certo aggiunge quando siamo passati in Abkhazia, non si poteva evitare di sentire la tensione della gente e ho pensato alla mia famiglia, ai miei cugini, a come hanno vissuto i momenti di conflitto nel mio Paese». Per la giovane libanese, purtroppo «le soluzioni non sono facili, né a breve termine» e «quello che posso fare intanto è spiegare alla mia famiglia e ai miei amici l’esperienza che sto vivendo e sperare che diventi, in qualche modo, contagiosa». «La cosa più importante di questo viaggio è la riflessione di un altro studente di Rondine, Magomed Parov, dell’Inguscezia è che abbiamo visto con i nostri occhi e siamo stati nei luoghi dove in effetti ci sono state guerre e profughi. Abbiamo avuto la possibilità di confrontare il documento che stiamo diffondendo con la realtà e abbiamo conosciuto tanti nostri coetanei e i loro pensieri e aspirazioni. Adesso possiamo usare questa esperienza per creare nuovi progetti di convivenza, e possiamo credere che veramente si può fare qualcosa in più per sbloccare le situazioni di conflitto».
Incontri tra volti. Sfollata due volte dall’Abkhazia, prima da piccola e poi due anni fa, è Eliko Bendeliani, studentessa di 23 anni che il gruppo di Rondine ha incontrato durante la permanenza a Tiblisi, alla «Sokhumi State University», frequentata in maggioranza da profughi provenienti dalla stessa regione. «Ai miei figli insegnerò che c’è sempre un’alternativa alla guerra e cercherò di far capire che non esistono i nemici», ha detto Bendeliani, aggiungendo che «siamo stati vittime di giochi geopolitici». Abcasi e georgiani hanno vissuto «bene e in pace, e potevamo risolvere i problemi da soli senza l’intervento di una terza forza». La speranza della studentessa è tornare a casa, «anche se non sarà oggi o domani, perché è solo questa speranza che ci fa sentire più forti». Quasi una riposta a questa riflessione è stato il proposito espresso, nel medesimo contesto, da Anna Gorokhovatskaya, studentessa russa ospite dello Studentato internazionale. «Vorrei creare un centro educativo per insegnanti e studenti del Caucaso» perché «sono convinta che la tolleranza è un valore che bisogna far crescere fin da piccoli, mentre la paura e il sospetto reciproco tra vicini nascono dall’ignoranza».
Non avevo le scarpe. Davit Chumabaridze, 27 anni, da bambino è sfollato con la sua famiglia dall’Abkhazia, una regione indipendentista della Georgia che è stata anche causa, nel 2008, della guerra tra russi e georgiani. Chumabaridze è una «Rondine d’oro», ovvero ha finito il suo percorso nello Studentato internazionale, e ha ricordato che «da piccolo non avevo cibo, né vestiti. Se pioveva non potevo andare a scuola perché non avevo le scarpe». Il giovane, che sta facendo uno stage nel ministero della reintegrazione georgiano, dopo il master conseguito in Italia, era nel nostro Paese, quando è scoppiata la guerra. Ha seguito tutta la situazione in tv, senza poter contattare la sua famiglia; la sua esperienza ha contribuito a far maturare la redazione dei «14 punti per la pace nel Caucaso». «A Rondine ha raccontato ho avuto amici abcasi e osseti e ho visto che solo il dialogo con il cosiddetto nemico ti fa capire veramente i problemi. Noi non siamo nemici, non possiamo combattere, perché la terra è nostra, la terra è di tutti».
Il progetto «Ventidipacesucaucaso» è nato idealmente nell’agosto 2008, proprio come reazione al conflitto tra Russia e Georgia. Il documento «14 punti per la pace nel Caucaso» ha come sua premessa che «la pace è un bene comune, cui aspirano tutti i popoli del Caucaso», da costruire attraverso la «cooperazione, il rispetto delle identità e l’interculturalità». Il primo dei quattordici punti indica, come mezzo per raggiungere questo scopo, la costituzione di un «tavolo permanente» tra i governi per la risoluzione dei conflitti. Altre azioni indicate sono «il diritto di ritorno» per le persone che in seguito alle guerre hanno dovuto abbandonare la propria casa, la «cooperazione tra imprese», la «comune ricerca scientifica», la promozione di progetti interculturali, il finanziamento di radio, tv, reti di comunicazione «plurilingue, pluriculturali e transfrontaliere», il sostegno a Ong basate sull’esperienza degli studenti di «Rondine» e lo «sviluppo del dialogo interreligioso».
Altro risultato concreto del viaggio è stato, per il presidente, la disponibilità dimostrata dalle autorità dell’Azerbaijan a favorire l’arrivo, a «Rondine», di un giovane azero proveniente dal Nagorno Karabakh, regione al centro di una guerra tra questo Paese e l’Armenia, che ha provocato una fuoriuscita di almeno 700 mila profughi che attualmente sono in territorio azero. «Nei campi degli sfollati che abbiamo visitato ricorda Vaccari abbiamo visto ragazzi senza futuro: bisogna fare il passo di tirarli fuori da quella situazione, ridare loro un futuro e trasformare un giovane pieno di rabbia, e potenzialmente pericoloso, in un uomo libero. Per questo li portiamo in Italia, fuori dal loro contesto, e li facciamo vivere insieme allo Studentato internazionale: il nostro obiettivo finale è che questi giovani, dopo l’esperienza italiana, tornino nei loro Paesi e s’impegnino per trovare strade concrete per far convivere i loro popoli nello stesso luogo, nelle stesse città, negli stessi quartieri e scuole».
Di questo viaggio Vaccari ha nella mente soprattutto un’immagine: «Il passaggio, a piedi, del ponte sulla red line che divide Georgia e Abkhazia. È stato un momento di tensione, in cui il paesaggio interiore si saldava con quello esteriore ma l’angoscia e la fatica di quei momenti è stata superata, all’arrivo, dall’abbraccio tra Kan, che ci aspettava, e Dato, che era con noi, l’abbraccio tra un abcaso e un georgiano che si sono conosciuti a Rondine e sono diventati amici». E la rete di rapporti, intessuta negli anni passati: in questa occasione, in cui per la prima volta partecipano così tanti studenti, ha portato alla richiesta, da parte delle autorità di entrambi i territori, di fare a Rondine, nell’autunno, un campo che accoglierà venti universitari della Georgia e venti dell’Abkhazia. Si tratterebbe della prima volta che un numero così alto di giovani provenienti dalle due aree si ritrovano insieme.