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Venti anni fa finiva l’assedio: Sarajevo torni ad essere la «Gerusalemme d’Europa»
Sono passati venti anni dalla fine dell’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996), il più lungo della storia moderna: 1.425 giorni durante i quali sulla città pioveva una media di 329 granate, per un bilancio di 11.541 civili uccisi, dei quali 1.601 bambini e decine di migliaia di feriti. Lunghi giorni senza acqua, luce e cibo. Tutto intorno la capitale bosniaca cannoni e carri armati serbi agli ordini di Radovan Karadzic e Ratko Mladic, attualmente sotto processo all’Aja per genocidio e crimini di guerra e contro l’umanità. A segnare le linee del fronte erano il fiume di Sarajevo, la Miljacka, e quel viale principale della città, Ulica Zmaja od Bosne, divenuto poi tristemente noto come Snajperska Aleja, ovvero il viale dei cecchini. Ci vollero i bombardamenti della Nato sulla Serbia per arrivare, nel novembre del 1995, alla firma dell’accordo di pace di Dayton, che congelò la guerra in Bosnia Erzegovina, sancendo di fatto la sua divisione su base etnica e religiosa, e al dispiegamento nel Paese di una Forza multinazionale a guida Nato. Finalmente il 29 febbraio del 1996 l’assedio fu spezzato: la polizia bosniaca riuscì a liberare i sobborghi della capitale, Vogosca e Rajlovac e poi anche Ilijas, circa 20 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, riaprendo le strade di collegamento con il resto della Bosnia-Erzegovina. Ma la riunificazione fu completata solo il 19 marzo, con la restituzione al governo di Sarajevo del quartiere cittadino di Grbavica.
Ricordi difficili da dimenticare ancora oggi, dopo venti anni, anche perché i segni della guerra sono ancora ben visibili sulle facciate dei palazzi crivellati di colpi e mai del tutto restaurati, nei tanti cimiteri, pieni di lapidi bianche, disseminati nella città – durante l’assedio i morti venivano sepolti dove possibile – che fondono il passato con il presente.
Tante ferite ancora aperte nel cuore di Sarajevo che sembra avere perso la sua immagine da cartolina con la sinagoga, moschea e cattedrale, tutte vicine. La guerra ha fatto saltare la convivenza secolare tra musulmani, cattolici, ortodossi ed ebrei.
Dopo venti anni, sulle rive del fiume Miljacka le divisioni sono ancora forti fra i tre popoli della Bosnia post-bellica, bosniaci musulmani, serbi ortodossi, croati cattolici. Ma qualcosa si sta muovendo. Grazie anche agli sforzi della comunità internazionale e di alcune forze politiche locali, due settimane fa la Bosnia-Erzegovina ha presentato «formale domanda di adesione alla Ue», nella speranza di intraprendere il cammino verso l’integrazione europea.
«Sarajevo è la Gerusalemme dell’Europa – ripete spesso il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Vrhbosna-Sarajevo – è una città simbolo e martire di una guerra fratricida che ha provocato la morte di oltre undicimila persone e che oggi si propone come paradigma della convivenza tra i popoli per l’Europa».
Parole che trovano eco in quelle di papa Francesco, in visita a Sarajevo, il 6 giugno dello scorso anno. In quel viaggio parlò della pace come di un «lavoro artigianale che richiede passione, tenacia e esperienza». Tuttavia non bisogna accontentarsi «di quanto finora realizzato, ma cercare di compiere passi ulteriori per rinsaldare la fiducia e creare occasioni per accrescere la mutua conoscenza e stima». La Bosnia ed Erzegovina, sono sempre parole del Papa, «è parte integrante dell’Europa; i suoi successi e i suoi drammi si inseriscono a pieno titolo nella storia dei successi e dei drammi europei, e sono nel medesimo tempo un serio monito a compiere ogni sforzo perché i processi di pace avviati diventino sempre più solidi e irreversibili».
L’Europa ha bisogno della sua «Gerusalemme».