Si può continuare a parlare di sacrificio, a proposito della morte di Cristo e quindi della Messa? Sì, a patto di vedere, in quello di Cristo, un genere nuovo di sacrificio, e di vedere in questo cambiamento di significato ‘il fatto centrale nella storia religiosa dell’umanità’. Lo ha detto oggi pomeriggio padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, nell’omelia della celebrazione della Passione del Signore, presieduta da Benedetto XVI nella basilica di san Pietro. Visto in questa luce ha proseguito padre Cantalamessa , il sacrificio di Cristo contiene un messaggio formidabile per il mondo d’oggi. Grida al mondo che la violenza è un residuo arcaico, una regressione a stadi primitivi e superati della storia umana e se si tratta di credenti un ritardo colpevole e scandaloso nella presa di coscienza del salto di qualità operato da Cristo. Non solo: Ricorda anche che la violenza è perdente. In quasi tutti i miti antichi la vittima è lo sconfitto e il carnefice il vincitore. Gesù ha cambiato segno alla vittoria. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima. Per il predicatore della Casa pontificia, il valore moderno della difesa delle vittime, dei deboli e della vita minacciata è nato sul terreno del cristianesimo, è un frutto tardivo della rivoluzione operata da Cristo.Appena si abbandona (come ha fatto Nietzsche) la visione cristiana per riportare in vita quella pagana ha osservato padre Cantalamessa , si smarrisce questa conquista e si torna ad esaltare ‘il forte, il potente, fino al suo punto più eccelso, il superuomo’, e si definisce quella cristiana ‘una morale da schiavi’, frutto del risentimento impotente dei deboli contro i forti. Purtroppo, però, ha rilevato il predicatore della Casa pontificia, la stessa cultura odierna che condanna la violenza, per altro verso, la favorisce e la esalta. Ci si straccia le vesti di fronte a certi fatti di sangue, ma non ci si accorge che si prepara ad essi il terreno con quello che si reclamizza nella pagina accanto del giornale o nel palinsesto successivo della rete televisiva. In realtà, il gusto con cui si indugia nella descrizione della violenza e la gara a chi è il primo e il più crudo nel descriverla non fanno che favorirla. Il risultato non è una catarsi del male, ma un incitamento ad esso. È inquietante che la violenza e il sangue siano diventati uno degli ingredienti di maggior richiamo nei film e nei videogiochi, che si sia attirati da essa e ci si diverta a guardarla. C’è violenza tra i giovani negli stadi e nelle piazze, c’è la violenza sui bambini e quella sulle donne.Di violenza sulle donne si parla poco, secondo p.Cantalamessa, ma è una violenza tanto più grave in quanto si svolge spesso al riparo delle mura domestiche, all’insaputa di tutti, quando addirittura essa non viene giustificata con pregiudizi pseudo-religiosi e culturali. Le vittime si ritrovano disperatamente sole e indifese. Solo oggi, grazie al sostegno e all’incoraggiamento di tante associazioni e istituzioni, alcune trovano la forza di uscire allo scoperto e denunciare i colpevoli. Per il predicatore della Casa pontificia, la violenza contro la donna non è mai così odiosa come quando si annida là dove dovrebbe regnare il reciproco rispetto e l’amore, nel rapporto tra marito e moglie. È vero che la violenza non è sempre e tutta da una parte sola, che si può essere violenti anche con la lingua e non solo con le mani, ma nessuno può negare che nella stragrande maggioranza dei casi la vittima è la donna. Giovanni Paolo II, ha ricordato p.Cantalamessa, ha inaugurato la pratica delle richieste di perdono per torti collettivi. Una di esse, tra le più giuste e necessarie, è il perdono che una metà dell’umanità deve chiedere all’altra metà, gli uomini alle donne. Essa non deve rimanere generica e astratta. Deve portare, specie chi si professa cristiano, a concreti gesti di conversione, a parole di scusa e di riconciliazione all’interno delle famiglie e della società.Per una rara coincidenza, ha rammentato padre Cantalamessa, quest’anno la nostra Pasqua cade nelle stessa settimana della Pasqua ebraica che ne è l’antenata e la matrice dentro cui si è formata. Questo ci spinge a rivolgere un pensiero ai fratelli ebrei. Essi sanno per esperienza cosa significa essere vittime della violenza collettiva e anche per questo sono pronti a riconoscerne i sintomi ricorrenti. Il predicatore ha quindi letto una parte di una lettera ricevuta da un amico ebreo, che scrive: Sto seguendo con disgusto l’attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del mondo intero. L’uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo. Desidero pertanto esprimere a lei personalmente, al Papa e a tutta la Chiesa la mia solidarietà di ebreo del dialogo e di tutti coloro che nel mondo ebraico (e sono molti) condividono questi sentimenti di fratellanza. (Sir)