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Uteri in affitto: Gammy ha strappato il velo delle ipocrisie
Partiamo dal fondo. Inteso come editoriale sul «Corriere della Sera»: la vicenda del piccolo Gammy, il bimbo commissionato e poi abbandonato perché Down, è stata possibile perché in Thailandia non c’è una legge. Sì, ma anche no, non è esattamente così. Perché, purtroppo, il problema è un po’ più a monte. Nel momento in cui viene sdoganato e accettato il concetto che è possibile pagare una donna più povera perché cresca in sé un figlio da cui poi deve strapparsi perché lo stesso può essere comprato, allora non c’è legge che tenga. Perché l’egoismo è sconfinato e ci sarà sempre un Paese più povero dove una donna non può vendere altro che la propria fertilità e dove una coppia (etero, gay, aliena) che possa pagare il prezzo è messa in condizione di dettare condizioni inumane. Sapendo perfettamente di essere la parte contrattuale forte. Sapendo perfettamente di poter dire, come una vecchia pubblicità: compro, pago, pretendo. E se i due “benestanti” (che brutta parola) australiani sono andati a cercare una madre surrogata in Thailandia è perché nel loro Paese non avrebbero mai potuto fare quello che hanno fatto, cioè rifiutare il “prodotto”. E lo sapevano benissimo, per questo sono andati a cercare altrove.
Ma mica soltanto loro. Perché l’India è divenuta fiorente mercato di uteri in affitto? Perché in Occidente le madri che portavano in grembo bimbi destinati ad altri hanno cominciato a ribellarsi, a dire che quello che si muoveva nella loro pancia era proprio il loro bambino e non avrebbero mai potuto darlo via, per nessun soldo al mondo e per nessun contratto firmato al mondo. E allora ecco entrare in campo giudici, carte, avvocati, leggi di tutela, per dire che sì c’è un contratto ma come si fa a strappare un figlio alla madre? Così via, verso territori con più poveri e meno scrupoli morali. Perché, in realtà, il vero nodo è un altro, ed è ineludibile: una volta che è passata e acquisita l’idea che si può fare, che è giusto farlo, che, soprattutto, è un diritto farlo, ebbene, non è più un problema di frontiere. I confini più importanti, quelli mentali, quelli umani, già sono stati superati.
Tra parentesi, fa anche piuttosto sorridere, se non fosse così drammatica la vicenda, il taglio con cui alcuni giornali, da sempre favorevoli a questo tipo di “opzione riproduttiva”, hanno dovuto dare la notizia, puntando sulla protesta e l’imbarazzo per il comportamento della coppia e rilanciando la gara di solidarietà per sostenere il piccolo Gammy. Come se l’unico problema fosse che il bimbo ha bisogno di cure, come se finora queste cose non fossero mai accadute e nessuna coppia avesse mai rifiutato (o fatto abortire perché non rispondente alle attese) il figlio ordinato, come se fior di reportage non avessero svelato cosa si nasconde dietro il disperato contratto con cui si compra una mamma e un bambino: due per uno, chiavi in mano.
Per una serie di circostanze Gammy è diventato famoso, è stato rimbalzato su mille profili di social network e, di lì, ai media maggiori. È diventato impossibile ignorare il “problema”. Infatti, oggi, gli ineffabili tutori e promotori delle libertà riproduttive di casa nostra tacciono, perché il caso è sgradevole, fastidioso, scomodo. Perché non si può più negare l’evidenza, cioè che l’utero in affitto non è un atto di amore e donazione da parte di donne generose per altre donne senza figli. È un intollerabile contratto firmato, senza che per una volta questa sia mera espressione letteraria, col sangue degli innocenti. In fondo, basta soltanto trovare chi lo sottoscrive e non è così difficile, né mancano i mezzani e gli speculatori che si accaniscono su un doppio dolore. Ma se c’è domanda c’è anche offerta, vale per il burro come per i cannoni ci insegnavano a Economia Politica. Gli affari sono affari. Ed è come la stampa, bellezza, una volta che le rotative sono partite, non si ferma più.