Italia
Unioni civili, da Csc-Supplemento d’anima un appello a cambiare il «Ddl Cirinnà»
«La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale, fondata sul matrimonio». Lo stabilisce, dopo un ampio dibattito in Costituente, la nostra Carta fondamentale (art. 29). Ed è a questa famiglia che, dunque, vanno riservate particolari tutele oltre a quelle già garantite a tutti i singoli cittadini con gli articoli 2 e 3.
Non si tratta di un principio che introduce benefici speciali per chi decide di condividere la propria vita per motivi affettivi, ma è il riconoscimento che la famiglia si fa carico di funzioni onerose indispensabili per lo sviluppo, non solo numerico, di tutta la collettività.
La stabilità della famiglia non è mera garanzia di mutuo sostegno fra i coniugi: è, soprattutto, elemento di sicurezza per i figli che nella famiglia vengono generati, custoditi per molti anni e preparati all’ inserimento positivo nella società attraverso l’impegno educativo dei genitori.
E’ così per la natura stessa della specie umana che, non essendo guidata da semplici istinti primordiali, necessita da sempre di un lungo periodo di assistenza genitoriale per imparare ad usare al meglio il «dono» della libertà e quindi della responsabilità personale.
Nella società moderna è inoltre indispensabile un lungo periodo di formazione e di studio che va, anche questo, non soltanto a beneficio dei singoli ma dell’intera società.
Da molti anni, tuttavia, è andato crescendo il numero di coppie di fatto che non possono – o non vogliono -contrarre matrimonio e all’interno delle quali nascono – o possono nascere – figli. Pure in aumento è il numero di coppie dello stesso sesso che decidono di convivere ma che, ovviamente, non possono generare figli. Anche queste condizioni richiedono una regolamentazione che, peraltro, non può essere identica a quella prevista dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione riferite alla famiglia naturale.
Tutto questo non può non incrociare un principio, elementare, che sta alla base di ogni norma giuridica: non si possono trattare allo stesso modo situazioni diverse.
La sostanziale ed esplicita equiparazione tra le norme in essere a favore della famiglia naturale fondata sul matrimonio e quelle previste dal DDL Cirinnà relative alle unioni civili sia etero che omosessuali – come risulta dal frequente rimando alle formule che il codice civile adopera per disciplinare l’unione fra coniugi – non è quindi accettabile. Sono situazioni palesemente diverse e diversamente devono essere trattate.
Nel DDL Cirinnà la costituzione, e la eventuale dissoluzione, delle coppie di fatto, etero o omo sessuali, sono estremamente semplificate. La stessa presa d’atto della fine del rapporto è resa immediata, salvo il caso di rinvio per un anno quando la separazione non sia consensuale.
Non è difficile prevedere che in un futuro non lontano vadano ad aumentare rapidamente le coppie che scelgono la convivenza civile al posto del matrimonio, data la parità di trattamento delle due condizioni e la maggior facilità di costituzione e dissoluzione della coppia di fatto (peraltro a costo zero), in confronto alle lungaggini e ai costi del divorzio, anche dopo le recenti norme sul «divorzio breve».
Le conseguenze sociali ed economiche della facilitata instabilità delle coppie di fatto sono immaginabili. E’ legittimo il sospetto che vi sia – non soltanto da noi – un disegno strategico per distruggere la famiglia con lo scopo, spesso per conto e sotto la guida dei cosiddetti «poteri forti», di aumentare il potere di controllo sui singoli cittadini da parte di chi governa. La preoccupazione maggiore riguarda le giovani generazioni che, venendo meno o frammentandosi l’azione educativa da parte dei genitori, potranno essere più facilmente in balìa del «pensiero unico» dominante.
Ancora diversa è l’unione civile fra persone dello stesso sesso.
Queste non hanno né possono avere per legge di natura gli oneri che derivano dalla generazione dei figli. Hanno il carico – comune anche per i coniugi e per le convivenze etero sessuali – che deriva del mutuo aiuto e dalla reciproca assistenza. Per questa importante funzione sociale può essere ragionevole un riconoscimento da parte della collettività. Ma non sembra giusto che a fronte di oneri diversi corrispondano uguali riconoscimenti.
Da questo «limite» nasce la richiesta insistente del «diritto» all’adozione, che il DDL Cirinnà prevede, almeno sotto la forma di «stepchild adoption» (in buon italiano – al quale dovrebbero attenersi anche tutti i nostri organi di informazione – adozione di un figlio naturale di uno/a dei componenti la coppia) o di «affido rafforzato» come da recenti proposte di emendamento.
A sostegno di questa possibilità si adduce l’ipotesi (peraltro scientificamente non provata) che, per la loro equilibrata crescita affettiva ed emozionale, i figli non hanno bisogno delle due figure – maschile e femminile – come è in natura.
Anche in questo caso si tratta di scelte «adultocentriche», così definite dal segretario CEI Mons. Galantino in una recente intervista, che non tengono conto dei diritti dell’infanzia i quali, come affermato nei solenni documenti di valore «universale» sottoscritti anche dall’Italia, devono prevalere su ogni altro diritto.
Per quest’ultimo motivo, e per gli altri sopra tratteggiati, il DDL Cirinnà, così come formulato, non si può condividere. Per tale disegno di legge, come per altre leggi italiane che toccano valori di fondo radicati nella nostra cultura, mi pare fuorviante sostenere che occorre adeguarsi alle richieste della Commissione Europea o affermare ripetutamente (come viene fatto anche attraverso i mezzi di comunicazione), che «siamo indietro» rispetto ad altri Paesi di Europa. E’ infatti vero che ci viene richiesta una normativa per le unioni civili, comprese quelle omosessuali, ma non vengono certo imposti i contenuti.
Ci sia dunque una legge, ma non si faccia un «guazzabuglio giuridico» che finisce per distruggere il concetto stesso di famiglia.
Non basta mostrare i muscoli alla Commissione europea quando si tratta di questioni economiche o finanziarie. Rivendichiamo con fermezza la nostra identità culturale senza farci influenzare o subire presunte «imposizioni» da chi si ispira a ideologie fondate su falsi concetti di libertà e alimentate da interessi commerciali o da egoismi personali più che su criteri di solidarietà e di rispetto soprattutto verso i più fragili. Con orgoglio e fermezza non facciamoci dettare strade che, alla lunga, potrebbero diventare assai pericolose per tutta la nostra comunità, non solo nazionale, ma anche per quella europea, che sta diventando sempre meno «faro di civiltà» per il mondo intero.
Rivolgiamo dunque alle forze parlamentari un concreto – e decisamente laico – appello in favore di una impostazione realistica: specie su temi così delicati e controversi, sarebbe saggio mettere da parte le forzature divisive e cercare equilibri su ciò che certo unisce.
In questa direzione gli sforzi potrebbero concentrarsi sulla necessità di una riformulazione giuridicamente più coerente degli articoli 2, 3 e 4 sanando contraddizioni e ambiguità ora presenti; sulla necessità di rendere più esplicito, in premessa, il riferimento all’art. 2 della Costituzione; sullo stralcio dell’articolo 5, quello che introduce la cosiddetta «stepchild adoption», con il rinvio a una riforma più organica degli istituti para genitoriali oppure con la ricerca di soluzioni che, nel garantire piena tutela ai diritti dei minori, evitino di legittimare o incentivare comportamenti gravemente antigiuridici.