Cultura & Società

Ungheria, cinquant’anni dopo

di Romanello CantiniPer aver vissuto da adulti i fatti del 1956 bisogna avere 70 anni. I meno vecchi hanno il diritto di ignorarli oppure li hanno scoperti nelle fredde pagine di un libro senza quel grumo massiccio di emozioni forti e ravvicinate che allora coinvolse più o meno tutti fra chi vinse seppure con rimorso e chi diventò entusiasta di una sconfitta. Negli anni che seguirono, i «fatti di Ungheria» furono il ritornello della propaganda anticomunista e il tarlo della solidarietà internazionale verso l’Unione Sovietica. Ancora oggi rimane un mito che si tenta di imitare in modo un po’ donchisciottesco nella protesta contro un governo di Budapest la cui popolarità sta crollando. In quello che già allora fu chiamato «l’indimenticabile 1956» si concentrano molti fatti, troppo grossi per stare dentro un anno solo.

Nell’arco di una settimana, fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, si ebbero i segni della fine di due grandi imperi anche se uno stava nel passato e l’altro si credeva il futuro. Da un lato ci fu la fine dell’imperialismo franco-britannico con il fallimento della spedizione punitiva di Londra, Parigi e Tel Aviv contro l’Egitto e dall’altro apparve il presagio dell’inizio della fine del regime comunista nell’Europa dell’Est con la rivolta ungherese che seguiva a quella polacca. Il crollo del primo doveva seguire in pochi anni. Quello del secondo doveva aspettare decenni, ma oggi sappiamo che le rivolte del 1956 non erano un raffreddore del comunismo, ma la malattia mortale di cui sarebbe morto seppure in tarda età.

Tutto era cominciato quel 24 febbraio quando Krusciov al XX congresso del partito comunista russo aveva descritto Stalin come un delinquente paranoico che aveva mandato a morte o al gulag centinaia di migliaia di comunisti. Dopo la denuncia cominciò ovunque la liturgia della riabilitazione delle vittime di Stalin.

In Polonia alla fine di giugno la rivolta dei 15000 operai della fabbrica di vagoni di Poznam, estesasi ben presto a tutto il paese, era riuscita a strappare da una prigionia di 5 anni l’ex segretario del partito Wladislaw Gomulka e a farne il nuovo capo del governo. Alla fine si era giunti ad un compromesso con il ritorno in libertà del cardinale Wyszynski, con una certa liberalizzazione dell’agricoltura e con maggiori diritti di espressione e di movimento.

In Ungheria la più illustre vittima dello stalinismo era stato il ministro degli esteri Laszlo Raik impiccato nel 1949 dopo che il suo amico Janos Kadan, l’aveva persuaso a confessare con la promessa di salvargli la vita. In nome di Raik gli antistalinisti cominciarono a riunirsi a Budapest al famoso circolo Petofi. In quella sede la vedova di Raik chiedeva che il 19 giugno venisse allontanato dal potere il primo ministro Matyas Rakosi, l’organizzatore del processo contro suo marito. Col passare dei giorni la richiesta prende piede e il 27 giugno sono ormai migliaia le persone che al circolo Petofi chiedono le dimissioni di Rakosi e il ritorno al potere di Imre Nagy, un comunista che ha fama di essere liberale e che è stato allontanato dal potere un anno prima. Il 6 ottobre per cercare di calmare le acque il regime è costretto a celebrare i funerali che Raik non ha mai avuto. La cerimonia intorno ad uno scheletro diventa manifestazione di massa.

Il 23 ottobre gli studenti organizzano una manifestazione di solidarietà per i rivoltosi polacchi e per chiedere il ritiro delle truppe sovietiche. I pochi all’inizio presenti in piazza diventano 50 mila. Davanti al parlamento cantano l’inno nazionale, la Marsigliese, l’Internazionale. Si invoca a gran voce il ritorno di Nagy che alla fine appare da un balcone del palazzo. Inizia a parlare: «Compagni!». Dalla piazza gli si risponde: «Noi non siamo compagni!». Le bandiere dei manifesti hanno un buco nel mezzo dove c’era la falce e il martello. La grande stella rossa che sormonta l’edificio neogotico del Parlamento è stata spenta. Ormai la protesta non è più dei «comunisti revisionisti». È di fatto passata in mano agli anticomunisti. I manifestanti danno l’assalto all’edificio della radio per trasmettere i loro proclami. Si sentono spari da più parti. Un camion trascina la statua di Stalin sul selciato della piazza. In una situazione ormai senza controllo Nagy è nominato presidente del consiglio mentre Kadar diventa segretario del partito. Tutto il paese è in sciopero generale spontaneo. I consigli improvvisati prendono il potere in quasi tutte le città. A Budapest soldati sovietici presi dal panico sparano sulla folla. Il cardinale Mindszenty primate di Ungheria, condannato all’ergastolo sette anni prima, è liberato.

Il 30 ottobre gli insorti assaltano la sede della federazione comunista di Budapest e ne uccidono il segretario e altri membri del partito. Nagy non è più capace di dominare gli eventi e si lascia trascinare dall’estremismo senza calcolare le conseguenze. Dichiara che in Ungheria è ricostituito il multipartitismo e soprattutto che l’Ungheria esce dal Patto di Varsavia.

Anche Janos Kadar è stato una vittima dello stalinismo. È stato in carcere per tre anni. Gli sono state strappate le unghie e gli è stato orinato in faccia. Eppure il vecchio militante ora sente il richiamo della foresta e passa dalla parte dei russi. Si rifugia in territorio russo e chiede l’intervento del patto di Varsavia per riportare l’ordine.

Nello stesso momento c’è chi pensa ad interventi militari dentro un altro fuso orario. Lo stesso 30 ottobre truppe israeliane marciano verso il canale di Suez e il giorno dopo l’aviazione inglese e francese bombarda gli aeroporti egiziani per punire Nasser che ha nazionalizzato la compagnia di Suez. Due ingiustizie non fanno una giustizia ma tappano la bocca a chi voglia protestare da una parte e dall’altra.

Il 3 novembre Paul Maleter, ministro della difesa del nuovo governo ungherese e il suo capo di stato maggiore generale Kovacs sono convocati dai russi in Polonia col pretesto di discutere il ritiro delle truppe sovietiche. Appena giunti all’appuntamento sono arrestati dai servizi di sicurezza sovietici.

Il 4 novembre all’alba i carri armati sovietici invadono l’Ungheria e in poche ore occupano i principali edifici pubblici. A migliaia i rivoltosi affrontano i carri inutilmente con i mitra e le bottiglie Molotov. Più di 10 mila saranno le vittime della repressione mentre 200 mila ungheresi prendono la via dell’esilio. Due anni dopo si saprà che Nagy è stato impiccato insieme a Maleter. Kadar lo farà seppellire a testa in giù in una tomba senza nome.

Nel fuoco delle polemiche in Italia Togliatti dirà che «una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta». Secondo la testimonianza di Pietro Ingrao il giorno dell’invasione russa Togliatti stappò una bottiglia per festeggiare. Il vertice comunista segue «il Migliore». Longo dice che si è riportato l’ordine. Terracini giustifica con il bisogno di porre fine ai massacri. Pajetta aggiunge che non si può approvare quello che piace a Mindzenty. Giorgio Amendola urla «traditori» ai dissenzienti. Solo Di Vittorio si distacca con la sua Cgil che «deplora che sia stato richiesto e verificato in Ungheria l’intervento delle truppe straniere». E contro l’intervento in Ungheria si schierano un centinaio di intellettuali che firmano un manifesto di protesta. Un altro gruppo di intellettuali abbandona il partito. La conseguenza più rilevante dei fatti di Ungheria a fini interni è l’accelerazione di Pietro Nenni in direzione dell’automonia dal Pci. Al congresso di Venezia che segue quegli avvenimenti drammatici il leader socialista dice che «con la libertà tutto, anche il socialismo si conquista, senza la libertà tutto, anche il socialismo, si corrompe. Oggi solo l’anziano Cossutta continua a sostenere che a suo tempo il Pci fece bene ad applaudire all’intervento russo.

Al momento dei fatti Massimo d’Alema era in seconda elementare a Roma. Secondo la sua biografia autorizzata alla maestra che gli parlava dell’Ungheria domandò perché non parlava dell’Egitto. Oggi il nostro ministro degli esteri va a Budapest a commemorare i fatti del 1956 dalla parte di coloro che allora apparvero come i «controrivoluzionari». Ma anche Napolitano, che nel 1956 fra i giovani comunisti si adeguò al resto del partito, ora ammette le colpe delle persone che «allora rimasero sorde a quella battaglia» e va a Budapest a chinarsi sulla tomba di Nagy, su quella famosa «Parcella 301» che nascondeva non solo il corpo ma anche il nome dello sfortunato protagonista della rivolta di cinquanta anni fa.