Vita Chiesa

Una spinta alla pace: «Qui c’è posto per tutti»

dall’inviato Riccardo Bigi

«In Terra Santa c’è posto per tutti!» È quasi un grido, quello del Papa davanti ai cattolici venuti da tutta la Terra Santa per la Messa nella valle di Josafat, di fronte al Giardino del Getsemani, a Gerusalemme. Sono cinquemila, sarebbero potuti essere di più se non avessero avuto forti problemi a raggiungere il luogo della celebrazione.

Il Papa parla delle «difficoltà, la frustrazione, la pena e la sofferenza che tanti tra voi hanno subito in conseguenza dei conflitti che hanno afflitto queste terre ed anche le amare esperienze dello spostamento che molte delle vostre famiglie hanno conosciuto e – Dio non lo permetta – posso ancora conoscere». Parla dell’emigrazione, che sta provocando una forte diminuzione della presenza cristiana in queste terre, e che porta «un grande impoverimento culturale e spirituale della città». Prima di lui, nel dare il benvenuto al Papa, il Patriarca di Gerusalemme Foud Twal ha speso parole ancora più dure: abbiamo di fronte, dice, «l’agonia del popolo palestinese, che sogna di vivere in uno Stato palestinese libero e indipendente, ma non ci arriva; e assistiamo dall’altra parte all’agonia di un popolo israeliano, che sogna una vita normale nella pace e nella sicurezza ma, nonostante la sua potenza mediatica e militare, non ci arriva». Twal denuncia anche «l’indifferenza» della comunità internazionale. Accanto a noi Eli annuisce: «Sono parole forti ma vere, ed era giusto dirle». Eli è il ragazzo che poco più tardi porterà al Papa le ostie, all’offertorio, con la kefia palestinese al collo. Farlo non è stato facile, ci rivela: ha dovuto far entrare la kefia di nascosto. «La sicurezza israeliana le ha sequestrate tutte. Io ci tenevo a presentarmi al Papa con un segno della mia tradizione, quindi una ragazza che era con me l’ha nascosta sotto i vestiti». Eli ha 21 anni, abita nella città vecchia, a pochi metri dal Santo Sepolcro: «Essere cristiani qui non è facile – racconta – siamo presi in giro e fermati continuamente per i controlli. Io studio all’università di Betlemme, e ogni giorno non so se riuscirò ad andare alle lezioni».

Eppure, i cartelli che accolgono i visitatori dicono: «Sei a Gerusalemme. Benvenuto a casa tua». Tutti siamo nati qui, ci dice il Salmo 87. E in effetti, camminando per le strade della città vecchia ti sembra, anche se non ci sei mai stato, di conoscere da sempre questi posti. Tutto il mondo guarda a questa città, la «santa». «Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano ricordandoci quello che esse hanno in comune» ha sottolineato Benedetto XVI, nella sua visita alla spianata delle Moschee. «Non ci sarà pace nel mondo – ci dice padre Ibrahim Faltas, il parroco della comunità cattolica latina – finché non ci sarà pace a Gerusalemme: lo ha detto il vostro sindaco Giorgio La Pira, lo ha detto Giovanni Paolo II quando è venuto qui nel 2001. E l’attenzione del mondo, in questi giorni, per la visita di Benedetto XVI ne è una conferma. Purtroppo, la strada per raggiungerla è difficile e piena di ostacoli». In tutti i suoi discorsi di questi giorni il Papa ha sempre affidato ai cristiani che vivono in Terra Santa il compito di contribuire a superare i conflitti. «Siamo consapevoli di questa responsabilità – afferma padre Ibrahim – e a nostra volta chiediamo ai cattolici di tutto il mondo di sostenerci e aiutarci».

Una strada piena di ostacoli, dicevamo. Proprio come questo pellegrinaggio di Benedetto XVI: si sapeva fin dall’inizio che non sarebbe stato un viaggio facile. Il Papa ha detto, fin dal suo arrivo in Israele, le parole che doveva. Ha condannato in maniera dura l’antisemitismo, ha espresso visitando il memoriale dello Yad Vashem il suo dolore per le vittime della Shoah. Ha indicato chiaramente qual è secondo la Santa Sede la via per trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese esprimendo il desiderio «che ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti». Dopo la sua preghiera al muro del pianto ha auspicato una «durevole riconciliazione» fra cristiani ed ebrei.

Eppure, in questi giorni non sono mancate difficoltà. La diffidenza si respira tra la gente, che appare a volte incuriosita, a volte infastidita. Non sono mancate, poi, le voci polemiche. Il presidente dello Yad Vashem, il rabbino Yisrael Meir Lau, ha dichiarato al Jerusalem Post di non essere rimasto «del tutto soddisfatto» dalle parole del Papa, e in sala stampa i giornalisti israeliani chiedono perché il Papa, da ex soldato tedesco, non ha chiesto scusa per la Shoah: al portavoce della Santa Sede, padre Raffaele Lombardi, tocca il compito di spiegare che lui non è mai stato, come qui molti dicono, nella Hitlerjugend. L’incontro dei leader impegnati nel dialogo interreligioso poi è stato turbato da un intervento fuori programma di un capo musulmano, lo sceicco Taisir Tamini, che ha detto parole molto dure contro Israele. Piccole scaramucce che danno il segno di quanto ancora sia in salita la strada verso quell’«unità della famiglia umana» che il Papa tante volte ha evocato in questi giorni nei suoi discorsi e che passa, per forza, di qui. Perché a Gerusalemme tutti siamo nati.