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Una pioggia di referendum: tanto rumore per nulla?
Il referendum non solo è stato, nel nostro Paese, l’unico strumento di partecipazione diretta del corpo elettorale che abbia veramente funzionato, ma anzi si è rivelato essenziale per risolvere alcune crisi politiche (si pensi alla consultazione sulla legge sul divorzio), per prendere decisioni su temi fortemente sentiti dai cittadini (lo stesso divorzio, l’aborto, l’ergastolo, il consumo di «droghe leggere»), o finanche per segnare la «svolta» verso una nuova stagione politico-istituzionale, la c.d. «Seconda Repubblica» (si pensi ai quesiti del 1993, ed in particolare a quelli sulla legge elettorale). Da alcuni anni, però, si assiste ad una crisi del referendum: le «tornate» del 1997, del 1999, del 2000 e del 2003, infatti, hanno fatto registrare la partecipazione al voto di meno della metà degli aventi diritto e quindi non hanno prodotto alcun esito (stante la previsione dell’art. 75, comma 4, Cost., in base al quale, «la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressa»).
In sede di votazione dello statuto, quindi, si potrebbe procedere almeno ad alcuni «aggiustamenti». Quanto ai diversi tipi di referendum, in primo luogo, sarebbe probabilmente da rivedere quello deliberativo, introdotto per il caso di mancata votazione da parte del Consiglio regionale di una proposta di legge presentata da cinquemila (se non addirittura da tremila) elettori. Una siffatta ipotesi, infatti, era già contenuta nella proposta di revisione della seconda parte della Costituzione presentata, nella scorsa legislatura, dalla «Commissione bicamerale D’Alema», ma, in quel caso, la proposta d’iniziativa popolare doveva essere sottoscritta non già, come normalmente previsto, da cinquantamila elettori, bensì da ottocentomila: lo stesso numero necessario per richiedere il referendum abrogativo. Forse anche in sede di elaborazione dello statuto sarebbe opportuno, per non lasciare il referendum in mano a tremila elettori, prevedere che la proposta di legge venga sottoposta a deliberazione popolare solo se sottoscritta da trentamila elettori (lo stesso numero che può chiedere il referendum abrogativo).
Le perplessità maggiori, però, sembrerebbero suscitate dal referendum approvativo, che prevederebbe la sottoposizione a votazione popolare di una legge regionale, quando lo richiedano i due terzi del Consiglio. Al di là dell’ipotesi in cui tale strumento potrebbe servire per risolvere una situazione di contrasto interna alla stessa maggioranza, rimettendo la parola al popolo (un po’ come a livello nazionale avvenne per la legge sul divorzio, a dimostrazione, quindi, del fatto che la stessa funzione può essere svolta anche dal referendum abrogativo), risulta piuttosto evidente come tale referendum si potrebbe facilmente prestare anche ad un uso «plebiscitario», per ammantare di consenso popolare una decisione già presa dagli organi rappresentativi (magari alla ricerca di un confortante applauso!).
Infine, rimane la questione del quorum di validità, che, per evitare lo svolgimento di tutta una serie di consultazioni a vuoto (magari, come una volta si è verificato in ambito nazionale, anche per pochi decimi di punto), potrebbe essere fissato, anziché nella maggioranza degli elettori, nella maggioranza dei votanti alle ultime elezioni del Consiglio regionale, cioè di coloro che si possono presumere effettivamente interessati alla vita pubblica regionale. Senza quest’ultimo aggiustamento tutta la complessa e articolata costruzione del referendum regionale rischierebbe di ricordare una famosa commedia di Shakespeare, «Tanto rumore per nulla».