Opinioni & Commenti
Una lettera per uscire dalle strettoie del rapporto tra credenti e non
L’enciclica parla alle menti, la lettera mostra che cosa accade se la fede è assunta in prima persona come motivazione di fondo del proprio agire. L’enciclica, soprattutto, argomenta le buone ragioni del credere, la lettera testimonia anche una scelta di vita. Entrambe sono rivolte a tutti: credenti e non credenti. Entrambe manifestano aspetti profondamente radicati nella tradizione cristiana. Non è un caso, dunque, che Papa Francesco inizi la sua lettera a Scalfari richiamando la Lumen fidei.
Ma il Papa conosce bene i vantaggi e i pericoli insiti nel parlare della fede solo mediante asserzioni. I vantaggi sono che, in tal modo, ci si può rivolgere davvero a tutti, visto che in questo argomentare si chiama in causa la ragione e la ragione è ciò che è condiviso da ciascun essere umano. Il pericolo sta nel dover ricondurre l’esperienza di fede a una serie di affermazioni: che, come tali, possono suscitare in altri l’intenzione di produrre affermazioni contrarie. Papa Francesco ne è consapevole. Infatti, come dice nella sua lettera a «Repubblica», bisogna finalmente «uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta», come quella che si è verificata tra cristianesimo e mondo moderno. Se si vuole evitare il muro contro muro, che in un mondo secolarizzato rischia fra l’altro di mettere all’angolo chi professa la propria fede, è necessario seguire altre strade. Che sono, peraltro, strade ben note alla tradizione cristiana. Si tratta di manifestare che cosa la fede è attraverso i modi in cui la fede si esprime. Si tratta cioè d’intendere e di praticare la fede attraverso quelle relazioni che solo la fede rende possibile. Si tratta di farlo, anzitutto, attraverso l’esperienza del dialogo, e di un dialogo condotto in prima persona: un dialogo che è insieme testimonianza ed esposizione di sé.
Il termine «dialogo» ricorre più e più volte, insistentemente, nella lettera di Papa Francesco. È un dialogo vero, fondato sul rispetto, nel quale non si ritiene che l’interlocutore, comunque, finirà per darmi ragione. È soprattutto un dialogo che, proprio nel momento in cui se ne parla, viene messo concretamente in opera: ben sapendo, come il Papa afferma esplicitamente, che la condizione del suo attuarsi è un costante, umile esercizio di apertura alle ragioni dell’altro.
Insomma: la fede spinge al dialogo, il dialogo mette in opera le relazioni che la fede sperimenta, nelle relazioni mi scopro parte, non tutto. Ecco perché, come dice Papa Francesco, l’umiltà risulta una caratteristica fondamentale del credente. Ma questo non significa affatto rinunciare a ciò che si è, a ciò che si crede. La prospettiva umana, inevitabilmente relativa alla storia, alla cultura, alla situazione in cui ciascuno vive, non dev’essere confusa con un relativismo che tutto omologa e tutto mette sullo stesso piano. Il Papa va alla radice del concetto stesso di verità: di quella verità che ogni credente assume come propria, appunto in quanto crede. Solo che, per il cristiano, questa verità è una relazione. È qualcosa che «si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita». Di ciò è testimonianza la fede: dell’impegno a seguire questo cammino e a «fare», in esso, la verità.
In questi giorni molte sono state le reazioni, più o meno a tono, alla lettera di Papa Francesco. Una cosa è comunque chiara: che non basta continuare a parlar di queste cose; che non sono sufficienti i discorsi, e neppure la teoria. C’è invece la necessità, proprio per dialogare con credenti e non credenti, di mostrare nei fatti, da cristiani, che la verità è relazione, che è «in definitiva tutt’uno con l’amore». Come appunto con i suoi gesti, quotidianamente, mostra Papa Francesco.