Opinioni & Commenti
Una «guerra asimmetrica» che va capita prima di combatterla
Primo: l’IS – prendendo come buona la sua rivendicazione di responsabilità – non è un vero stato riconosciuto come tale a livello internazionale, per quanto si stia dotando di molti strumenti istituzionali che vorrebbero abilitarlo a comportarsi come tale: è un’organizzazione criminale che sta comportandosi in modo terroristico all’interno di due stati internazionalmente riconosciuti e legittimi, la Siria e l’Iraq, per quanto le loro istituzioni siano a loro volta compromesse e il loro funzionamento problematico. Se la Francia o l’Unione Europea, ritenendosi attaccate direttamente e in modo così brutale, volessero reagire, non potrebbero certo dichiarargli guerra; né attaccare militarmente territori che appartengono a due stati diversi, salvo compiere prima tutta una serie di atti politici e diplomatici. In territorio irakeno agisce una coalizione militare che contrasta – poco e male – l’IS con il consenso del governo di Baghdad. In Siria, l’intervento militare russo si è svolto – con efficacia – su richiesta del governo di Damasco. I propositi belluini manifestati adesso da vari politici («andar lì e attaccare», o baggianate del genere) sono fuori della realtà.
Secondo: all’IS non si può attribuire a tutt’oggi (qualunque siano l’entità e la frequenza delle sue minacce e delle sue vanterie) il controllo e la gestione di alcuna rete terroristica. Ammesso che nel mondo occidentale vi siano cellule terroristiche ad esso affiliate, nulla sappiamo sulla qualità e sulle modalità dei loro rapporti di dipendenza con la supposta centrale. Per quanto a tutt’oggi ne sappiamo, per i territori che esso non controlla direttamente, l’IS agisce «in franchising»: vi sono gruppi che adottano la sua sigla e la sua bandiera, insomma il suo trade mark, ma agiscono dove si trovano in piena autonomia. Quelle eventuali reti terroristiche e i loro fiancheggiatori, sostenitori e complici vanno individuati e contrastati in loco: con adeguate operazioni d’intelligence e d’infiltrazione. Chi parla di «colpire le centrali del terrorismo» non sa quello che dice. Contro questo tipo di nemico, in questa «guerra asimmetrica», non servono né divisioni corazzate, né missili, né aerei, né droni.
Terzo: criminalizzare con un’indiscriminata ostilità e con un’ingiustificata presunzione di complicità associazioni o centri di cultura musulmani è illegittimo sul piano civico e giuridico, insensato su quello tattico-strategico. Le stragi parigine non sono un episodio di alcuna «guerra di religione», di alcuno «scontro di civiltà»: sono il risultato delle mosse di un’organizzazione criminale che sta facendo proselitismo sulla base di una tesi ideologica, quella che tratta l’Islam non come una fede religiosa bensì come un’ideologia e postula arbitrariamente la necessità che tutti i musulmani sunniti del mondo (un miliardo e mezzo circa) si riuniscano in una sola umma («matria», comunità) per combattere sia gli «atei», gli «idolatri», i «crociati» (cioè i vari non-musulmani del pianeta), sia gli sciiti (perché la fitna, la guerra civile antisciita, fa parte del programma del califfo esattamente come di quelli arabo-saudita e qatariota). La stragrande maggioranza dei musulmani di tutto il mondo è del tutto estranea a questa follìa: ne è anzi concettualmente parlando, la prima vittima, in quanto le azioni criminali dell’IS si riflettono in termini di sospetto e di ostilità da parte dei non-musulmani proprio su di loro.
Quarto: i migranti non c’entrano. Tutti i «servizi» d’intelligence del mondo concordano sul fatto che non esiste alcun legame sistematico e strutturale fra il movimento di migrazione, nelle sue varie e diverse componenti, e le centrali terroristiche. Casi isolati d’infiltrazione o d’indottrinamento sono sempre possibili, così come sappiamo bene che non esiste alcuna città, alcuna installazione che non sia in linea teorica «a rischio». È una delle leggi di base delle «guerre asimmetriche». Ma il reclutamento di simpatizzanti o di aspiranti terroristi non avviene nei centri di raccolta o di smistamento dei profughi: vi sono luoghi specifici, come le prigioni oppure certe aree urbane o suburbane (le banlieues parigine, ad esempio), dove gli agenti provocatori e i «predicatori» dell’IS raccolgono possibili adepti. Prendersela con i migranti serve solo, semmai, a facilitare il sorgere in alcuni di loro di simpatie filoterroristiche «di reazione». I veri complici dell’IS non sono i «buonisti», bensì quelli che se la prendono senza criterio alcuno con chiunque appaia loro un possibile fiancheggiatore dei terroristi e quelli che contribuiscono a spargere timori e ostilità infondate. Né serve «chiudere le frontiere», a meno che non si voglia impedire l’espatrio clandestino di qualche sospetto.
Quinto: cerchiamo di capire le ragioni che possono aver indotto gli organizzatori degli attentati parigini a un tanto grave crimine. Non certo «punire la Francia»: il governo francese ha sostenuto i guerriglieri jihadisti sia in Libia contro Gheddafi sia in Siria contro Assad e non ha mai fatto nulla di concreto contro l’IS (a differenza della Russia, sulla quale dopo i raids di qualche giorno fa si è puntualmente abbattuta la vendetta terroristica con l’attentato all’aereo partito da Sharm al-Sheykh). L’azione terroristica cruenta e spettacolare serve, nelle intenzioni del califfo (se è davvero lui il diretto mandante) per concentrare contro di lui l’azione dei «crociati» occidentali: in tal modo egli potrà presentarsi nei confronti dei tanti musulmani disorientati e incerti, che sono la potenziale area d’espansione dei suoi fedeli e/o simpatizzanti, come il vero paladino del puro islam, l’autentico martire designato contro cui si sia abbattuta la rabbia degli infedeli. È un vantaggio mediatico e propagandistico ch’egli cerca: seminare paura e provocare reazioni inconsulte che si abbattano su innocenti e indirizzino su di lui le simpatie di questi ultimi. Non dobbiamo fare il suo gioco. Le armi delle quali disponiamo sono le seguenti: intelligence, infiltrazione, informazione corretta, massima collaborazione tra musulmani e non musulmani contro il comune avversario terrorista, mantenimento della calma e svolgimento di una normale, serena vita civile nelle nostre città.
Sesto: un po’ di equità non guasterebbe. All’attentato contro l’aereo russo in Occidente si è reagito con noncuranza, in qualche caso quasi con soddisfazione. Eppure la Russia aveva dimostrato da poco di prendere la minaccia dell’IS molto più sul serio della maggior parte dei paesi occidentali. Inoltre, non troppo tempo fa c’è stato un grave attentato terroristico all’aeroporto di Beirut: e della stessa presumibile matrice di quelli di Parigi del 13 scorso; ma da noi non ne ha parlato quasi nessuno. Infine – e ciò sia detto con forza – gli occidentali blaterano sempre sul fatto che «la comunità musulmana moderata» non condanna i terroristi. Contro l’attentato di Parigi si sono espressi con la massima durezza, tra l’altro, l’Associazione mondiale delle Comunità musulmane, l’università di al-Azhar, il dottor Izzeddin presidente dell’Unione delle Comunità islamiche d’Italia (Ucoii) e anche Hamas ed Hezbollah. I nostri media non hanno accordato alcuna attenzione a quelle voci. Andiamo avanti così, continuiamo a farci del male…
Settimo: questa tragedia ci ha ricordato una volta di più che per essere dei militanti dell’IS non c’è bisogno di essere arabi, né di venire da chissaddove. Bisogna abituarci all’idea che i terroristi li abbiamo fra noi, che possono essere dei ragazzi nati anche a Liverpool, a Bordeaux, oppure – perché no? – a Pontassieve. Non facciamo la politica dello struzzo, non nascondiamoci dietro la virtù pelosa della nostra cattiva coscienza (noi pacifici, noi razionali, noi democratici…), piantiamola di buttar sempre la colpa tutta addosso agli altri. Perché l’altroieri i ragazzi di vent’anni partivano volontari in camicia nera, perché ieri altri ragazzi di vent’anni sognavano il «Che» e la guerriglia, perché oggi altri ragazzi ancora – allevati in famiglie nelle quali sono magari stati riempiti di computers, di telefonini, di capi firmati e altre belle cose ancora – scelgono la Bella Morte nel nome di Allah? Ci ha mai sfiorato il dubbio che la società dei consumi e dei profitti possa apparire a qualcuno vuota e inutile e viziosa, che qualcuno dei nostri ragazzi voglia guardare oltre, anche a prezzo della vita propria e altrui? Sbaglieranno, certo, questi «fanatici»: ma quali sono stati i disvalori che noi abbiamo offerto loro, e che tali li hanno fatti divenire?