Vita Chiesa

Una diocesi in missione nello stile dell’ascolto

di Andrea BeniniDomenica scorsa, in una solenne celebrazione eucaristica, il vescovo di Massa Marittima e Piombino Giovanni Santucci ha concluso le Missioni diocesane «dal Popolo al Popolo». Di fronte a tante persone, provenienti da ogni parte della nostra diocesi, Santucci ha parlato dell’esperienza della Missione come una straordinaria occasione, una sfida che è stata colta dalle parrocchie, dalla gente e che dovrà continuare a camminare, con lo stesso entusiasmo e con la stessa semplicità con cui si è iniziata. «Abbiamo sperimentato la gioia dell’accoglienza e della condivisione» ha detto il Vescovo nella sua omelia. «Il nostro Maestro non ha aspettato che si muovessero gli altri, si è mosso lui per primo – ha continuato Mons. Santucci – si è messo in ascolto dei dubbi di Nicodemo, ha accompagnato lo sconforto dei discepoli sulla strada di Emmaus». La chiesa è missionaria, oppure non è chiesa. La Missione è la dimensione fondante nella Chiesa. «E tutti siamo coinvolti nella missione, i preti e le suore, ma anche i laici. Non solo come destinatari, ma come collaboratori e protagonisti» ha affermato il Vescovo. «Le nostre chiese devono essere case e palestre di comunione. Comunione da testimoniare nella realtà di tutti i giorni, nella nostra vita con le persone che ci stanno accanto».

Al termine della Messa, dopo aver consegnato ad ogni parrocchia una custodia per il lezionario festivo in ricordo della Missione ed aver ringraziato colui che l’ha condotta a livello organizzativo in questi mesi, don Gianfranco Cirilli, il Vescovo ha impartito la benedizione papale con l’indulgenza plenaria.

Certo, l’esperienza della Missione, come ha più volte sottolineato il Vescovo, dovrà proseguire. Un’esperienza straordinariamente ricca prima di tutto per i missionari, come una grande palestra di «ascolto».

Molte volte profluvi di parole intorbidano quella comprensione che il tacere promuoverebbe, forse. Maree di suoni, rumori, chiacchiere ci sommergono nel sobrio feudo della nostra coscienza nel quale molte voci ci parlerebbero sommessamente. Troppo spesso, invece, è assalito dalle fragorose truppe della stupidità. Proprio là dove potrebbe accadere di udire il gemito della nostra intimità il cui suono abbiamo dimenticato, insieme alla voce di coloro che chiedono aiuto, e che non udiamo più, assordati dal nostro egocentrismo e dalla impellente necessità di «dire la nostra». Non aver nulla da dire (tacere, ascoltare, mormorare «non saprei», «devo pensarci meglio») costituisce spesso un vero e proprio scandalo. Come la nudità francescana, il silenzio e l’ascolto, sarebbero i soli mezzi per spogliarci degli inutili drappeggi di chiacchiere che formano il nostro precario «status», il nostro ruolo sempre così insicuro. Ma quando si è nudi si prova vergogna. Così continuiamo ad alimentare il chiasso alienante che ci circonda. E dall’inquinamento dei cervelli ci si difende male. Non vi è ecologia alcuna. Ma se tacere e ascoltare pare difficile, «parlare» forse lo è ancora di più. Il perenne rumore della stupidità disarticola il discorso, lo rende superfluo. Le parole che significano non sono più.

I gruppi del Vangelo hanno allenato, prima di tutto, all’ascolto. Ascolto della Parola di Dio, che nelle preoccupazioni di molti cristiani, in una scala d’importanza, occupa tra il trentasettesimo e il trentottesimo posto subito dopo la paura degli albanesi e degli scippi, la rottura del telecomando e la rigatura dell’auto. Rimettere al centro la Parola di Dio, significa ascoltare gli uomini che ci parlano e che ci chiedono aiuto. Significa dare spazio nella nostra vita al Vangelo, che è parola di vita, di saggezza, di misericordia. Allora anche il nostro parlare, forgiato nel silenzio e nell’ascolto, sarà un po’ meno superfluo.