Opinioni & Commenti
Una Chiesa chiamata a riscoprire la dimensione di umanità
Per un curioso paradosso, è stato il Pontefice che più ha insistito, in questi ultimi anni, sulla continuità della tradizione, a compiere un atto di discontinuità così forte da assomigliare a una vera e propria «rivoluzione», almeno per quanto riguarda l’immagine del Capo della Chiesa. Gli avevano cucito addosso – proprio per quel continuo richiamo alla continuità – il cliché del conservatore, ed ecco che adesso, di fatto, sarà ricordato come il Papa che, nella storia, ha più contribuito, col suo gesto, al rinnovamento del vertice della Curia romana.
Perché non c’è dubbio che le dimissioni di Benedetto XVI non hanno nulla a che vedere con situazioni contingenti, come quelle dei suoi rarissimi predecessori che le avevano date in passato. In tutti quei casi, esse erano state legate a circostanze particolari, che le avevano rese necessarie o almeno opportune. Non implicavano in alcun modo, dunque, un nuovo modo di vedere la figura del Papa. Quelle di Benedetto, invece, sono state frutto di una scelta assolutamente libera, lucidamente compiuta e motivata con ragioni che sono potenzialmente destinate a valere anche per altri Pontefici dopo di lui. Costituiscono un precedente.
E su questa linea di onesto riconoscimento della propria umana fragilità si è mosso Benedetto XVI, ancora prima delle sue dimissioni, quando, per esempio, nel 2009, scrisse una lettera a tutti i vescovi del mondo per scusarsi della gaffe commessa, rimettendo la scomunica a un vescovo lefevriano negazionista dell’Olocausto e promettendo che da quel momento in poi in Vaticano si sarebbero informati meglio su Internet. Al di là del gesto formale, la «rivoluzione» di Ratzinger è in questo aver portato tutta la sua vulnerabilità e le sue incertezze di uomo nel cuore dell’istituzione ecclesiastica. Questo è profondamente cristiano, perché è profondamente umano. E il Dio dei cristiani è, per sempre, anche un uomo, il cui segno di riconoscimento, dopo la resurrezione, fu di mostrare ai discepoli le ferite ancor aperte della sua passione.
Dopo il pontificato di Benedetto XVI, non è solo il papato, è tutta la Chiesa che è chiamata a riscoprire fino in fondo questa sua dimensione di umanità. Oggi coloro che la rifiutano spesso non lo fanno perché essa è poco divina, ma perché è poco umana. E dove latita questa seconda caratteristica, diventa irriconoscibile anche la prima.
In questo si inserisce il tema della debolezza. Nella cultura post-moderna, a differenza che in quella moderna dei secoli scorsi, non è la forza ma la fragilità a caratterizzare l’autentica umanità. Diceva qualcuno che la nostra vulnerabilità è la finestra aperta sul mondo. La Chiesa a volte non è amata perché è troppo potente. Perciò non stupisce che, in questi giorni, un Papa che ha avuto il coraggio di dire: «Scusatemi, non ce la faccio più», abbia riacceso l’interesse e la simpatia della gente, credente e non credente, più che se avesse esibito ancora una volta tutto il fasto e il prestigio dell’istituzione ecclesiastica. Ai loro occhi è tornato ad essere uomo come gli altri e, proprio per questo, a rivelare meglio il mistero di Cristo uomo-Dio. Si collega a ciò il riconoscimento, implicito nel gesto di Benedetto XVI, che il Papa è, come tutti i seguaci di Gesù, solo un «servo inutile».
Benedetto ha saputo farsi da parte, senza alcuna pressione, anzi sorprendendo tutti, «per il bene della Chiesa». Così fa un umile servitore, quando si accorge che altri potranno operare meglio di lui. E noi gli siamo grati della sua umile onestà intellettuale, non solo perché lo ha avvicinato a noi, ma perché, con la sua testimonianza, ha avvicinato tutti noi alla Chiesa del Vangelo.