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Un voto amministrativo con indicazioni che vanno oltre
Del resto in passato voti amministrativi hanno avuto una non piccola rilevanza per il quadro politico nazionale: le regionali del 16 aprile 2000 (e la concomitante vittoria del centrodestra alle comunali di Bologna) precedettero ad esempio di soli nove giorni le dimissioni del governo D’Alema. Fu anche l’inizio di una crisi politica del centrosinistra che sfociò nella vittoria elettorale di Berlusconi alle politiche dell’anno successivo. Quindi è rischioso sia caricarle di attese sproporzionate, sia pretendere di derubricarle a semplice fatto di cronaca locale. È un principio che vale anche per le europee: consultazione legata a temi sanamente transnazionali, ma di solito chi le vince (Berlusconi nel 1994, Renzi nel 2014) difficilmente non conclude che ne è uscito rafforzato il governo italiano. Il quadro di questa tornata è particolarmente complesso, e non solo perché da parte dell’esecutivo si tende a sostenere che l’appuntamento vero sarà quello di ottobre, con il referendum costituzionale. Il fatto stesso che si voti in una serie di complesse aree metropolitane rende articolata ogni possibile analisi.
Roma è il caso, paradossalmente, più chiaro, se non altro perché le cronache di Mafia Capitale hanno dato modo di approfondire i mali della città. Mali che non son nati ieri, ma spesso purtroppo sembrano radicati e consustanziali alla stessa classe dirigente cittadina. Non a caso l’attuale crisi è stata scatenata da un fenomeno corruttivo trasversale ai partiti ed inevitabilmente ha avuto uno sbocco nelle dimissioni da sindaco di Ignazio Marino. Notare bene: chirurgo di fama internazionale prestato alla politica da un Pd che da anni appare alla affannata ricerca di un «papa straniero» cui affidare le sorti di una compagine paralizzata dalle divisioni interne. Come facevano i comuni toscani del Medioevo che si rifugiavano troppo spesso nelle mani di un podestà convocato da fuori, salvo accorgersi che dalla padella si cadeva nella brace. Se non sono i politici stessi ad essere all’altezza della situazione, non si può pretendere sia possibile trovare una soluzione al di fuori della politica. Il Pd ora si affida a Roberto Giachetti, ex radicale approdato alla Margherita ai tempi di Francesco Rutelli, ed ora vicepresidente della Camera. Riassume in sé, oltre a una certa dose di qualità politiche personali, anche le evidenti contraddizioni di un partito in cui tutte le vacche sono grigie. La sua è una missione quasi impossibile, i sondaggi lo danno in forse anche per il ballottaggio.
Se Giachetti passa a Roma si troverà davanti la candidata del M5S, Virginia Raggi, ed allora il centrodestra (come già accaduto nella Parma di Pizzarotti un paio di anni fa) andrà a votare per lei, pur di non far vincere lui. Che poi la Raggi sia pronta per amministrare Roma, questa è un’altra faccenda. I grillini hanno dato prova, anche in questi giorni, di avere scarse capacità di mediazione ed elaborazione politica. Si spera compiano presto un salto di qualità senza il quale non potranno proporsi come autentica classi dirigente per il Paese. Il centrodestra, nella Capitale, ha compiuto l’errore strategico di dividersi: assommati, i consensi di Meloni e Marchini danno circa il quaranta per cento. Un candidato unico avrebbe avuto ottime chance di vittoria (Marchini, e non Meloni, in caso di ballottaggio potrebbe ancora vincere).
La lezione che non ha voluto imparare a Roma, il centrodestra l’ha applicata a Milano, grazie anche al fatto che il candidato individuato subito da Berlusconi, vale a dire Parisi, ha saputo farsi accettare dalla Lega. Parisi non è di Milano, ma di Roma, notano gli scontenti. Ciò detto, ha sempre saputo mettersi in sintonia con la città dove opera da anni. Ha iniziato in svantaggio, ora è in piena rimonta su un candidato del centrosinistra, Sala, che doveva essere nelle intenzioni di Renzi l’epitome della Milano da bere le la Milano del fare. Ha condotto in porto l’Expo, ma in politica il successo del passato non è garanzia del successo del futuro. In campagna elettorale, poi, non è sembrato particolarmente attrezzato, e ora il risultato è in bilico. Un successo del centrodestra sarebbe il peggiore dei segnali per il Pd, anche a livello nazionale.
Torino è storia a parte: Fassino, uomo della vecchia guardia Pd e tra i primi ad appoggiare Renzi, deve fronteggiare la sfida della grillina Appendino. Il principale rischio per lui è Airaudo, candidato di Sinistra Italiana. Il tentativo di questi è di impedire al sindaco uscente di essere eletto al primo turno, perché al ballottaggio le chance di Appendino crescerebbero considerevolmente. Si dirà: la solita storia della sinistra che odia se stessa, come dimostra anche la candidatura di Fassina a Roma. In realtà c’è qualcosa di più profondo: il renzismo ha scombinato equilibri ed appartenenze, logico allora che il riassestamento sia caratterizzato da scosse telluriche. In fondo tutti sanno che, se Renzi dovesse perdere in tre di queste quattro città, la sua leadership sarebbe politicamente indebolita, e si potrebbero riaprire i giochi all’interno del partito di cui è segretario.
Tre città su quattro sarebbe in effetti una debacle. Una, Napoli, è persa praticamente in partenza: Pd diviso (Bassolino escluso dalle primarie con una norma ad personam), una candidata, Valente, debole, un sindaco uscente come De Magistris forte e popolare quanto poco soddisfacente. A poco servirebbe, a questo punto, la scontata vittoria a Bologna, anch’essa chiamata alle urne. Due anni fa le regionali in Emilia Romagna videro sì la riconferma del centrosinistra, ma con un crollo dell’affluenza alle urne. Grazie alla disaffezione talvolta si vince, ma alla fine di disaffezione si può anche morire.
Così nelle grandi città