Cultura & Società

Un Natale a misura… di Gesù Bambino

di Carlo LapucciComunemente l’immagine di Cristo è quella che si riferisce alla sua maturità, se non alla appena passata giovinezza: l’uomo nel pieno delle sue forze, che predica, digiuna, prega, opera miracoli, vive nella realtà quotidiana. Il dialogo mentale fa sì che raramente si pensi a Cristo come essere divino che ha toccato l’umano nella fragile dimensione di un neonato, di un lattante, di un bambino. Ce lo viene a ricordare il Natale ogni anno riproponendo il Dio Infante, ma evidentemente l’immagine è talmente densa di forza e così violenta, che si è imparato a involgerla nelle bende della devozione più che della meditazione e della contemplazione. L’attenzione che si dedica al Presepio scivola facilmente dalla figura infantile sorridente nella mangiatoia per passare alle immagini vicine: la Madonna, Giuseppe, gli Angeli, i pastori, il bue e l’asinello, con tutto il popolo di pastori e contadini che vaga sul muschio sotto le stelle di cartone. L’immagine del Bambino Gesù viene scoperta nella notte santa, restando benedicente e radiosa sull’altare fino all’Epifania. Un tempo alla fine dei vespri di questa festa veniva fatto baciare e si riponeva fino al nuovo Natale.A partire dai Vangeli Apocrifi si comincia ad addolcire la figura di Dio Infante con l’amabile e il grazioso, ai danni della sua maestà e della profondità del mistero che rappresenta. Oggi si ricorda più spesso come la figura che porta i doni del Natale, insieme all’albero, al ceppo, a Babbo Natale, a Santa Claus. Anche l’arte tende a seguire i Vangeli dell’infanzia ponendo accanto alla figura di Redentore uccellini, fiori, animali, una sfera, un libro, frutta. Tuttavia alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Atanasio e San Girolamo, contemplarono Gesù sotto forma di bambino. San Bernardo da Chiaravalle fu tra i promotori di una teologia dell’Incarnazione e dell’Infanzia, con San Francesco e Sant’Antonio da Padova, che, nella tradizionale iconografia, ne tiene l’immagine tra le braccia.

Santa Teresa d’Avila portava sempre in ogni monastero che fondava, una statua del Bambino Gesù e furono proprio le sue carmelitane scalze e i carmelitani a diffondere nella Spagna il culto del Bambinello, che passerà gli oceani fino al Nuovo Mondo. Altri santi sono legati a questa devozione come San Cristoforo che attraversa il fiume in piena con Bimbo sulle spalle e Santa Teresa dal Bambino Gesù.

Per un popolo che, avendo una sia pur remota provenienza pagana, cerca costantemente immagini di mediazione tra l’uomo e Dio e ha costituito un immenso stuolo di Santi, ai quali si rivolge costantemente piuttosto che a Cristo, il Bambino Gesù dovrebbe dovuto rappresentare una forma di collegamento di maggiore importanza nella religiosità: il Dio Bambino invece riceve un culto strettamente connesso al Natale, alla Circoncisione, all’Epifania e poi, quasi ovunque scompare e raramente ha un suo culto, come trascurato è il Cristo più grande della conversazione con i dottori della legge. Anche l’arte figurativa ritrae quasi sempre il Bambino sulle ginocchia della Madonna (icona universale che ha inglobato quella della figura singola) o nel Presepio.

Il fatto che l’occhio dei fedeli sorvoli sulla vita di Cristo per fermarsi sulla figura adulta rivela che la risalita verso l’infanzia presenta qualche difficoltà: arretrando negli anni di Cristo ci si avvicina al primo Mistero, a quello che è non solo incomprensibile, ma anche insostenibile dalla mente. È l’entrata di Dio come uomo nel mondo che distrugge tutte le impalcature mentali con cui l’uomo cerca di costruirsi un baluardo di difesa dall’inesprimibile e dall’assurdo, e la figura del Dio Bambino, se contemplata nella sua vasta dimensione, fuori dai panni, dalle pecorine, dagli angiolini, la ricorda più che ogni altra immagine. Quelle forme tenere e delicate, tremanti nelle spine della vita umana, destinate ad essere straziate sulla croce, sono effettivamente immagini d’oscurità talmente inesprimibile e bruciante da cui l’uomo non può che distogliere lo sguardo.

Bambino tenerissimo, ma che nasconde una volontà impenetrabile, volto che sorride, ma sorride come Cristo non ha mai fatto nella sua dimensione di uomo adulto, sorride di fronte agl’immensi guai e dolori del mondo, perché come l’infanzia ci guarda, egli ci vede da una dimensione talmente lontana che per noi è atroce perfino immaginare: là, in quella fornace d’amore, tutto si compone e si sana, tutto trova senso e consolazione, tutto si comprende: la tenerezza del bambino e la corona di spine, lo sguardo amoroso della Madonna e la spada che le dovrà trapassare il cuore.

Questo punto oscuro e accecante è appunto l’Incarnazione e il rivestirsi di Cristo della forma dell’uomo. Qualcosa di simile cercò di concretizzare il Bernini nell’Altare dell’Incarnazione che costituisce in San Pietro il centro ideale della cristianità: la forma quaternaria del mondo riceve i vortici del divino che scende figuratamente nelle quattro colonne a spirale di bronzo che si avvitano nel cielo e nella terra a saldare per sempre l’umanità redenta con Dio.

Credo che la figura del Bambinello ci ricordi, meglio di ogni altra che Dio è incomprensibile, laddove noi immaginiamo possibilità di patteggiamenti, di sconti, di equilibrismi mentali, per aggiustare le nostre faccende pratiche a qualcosa che ci trascende e ci travolge.

La vicenda vissuta da Alessandro Manzoni può chiarire bene i termini del problema. Quando, dopo la perdita della moglie Enrichetta Blondel, morta proprio il 25 dicembre del 1833, rimase folgorato dal dolore e forse meditò anche il suicidio, come dice qualche biografo, prese a scrive quello che si chiama Il Natale del ’33, una composizione rimasta in frammenti, ma che ha forse i più bei versi che abbia scritto questo autore. Contemplando l’immagine del Bambino invece di ottenere consolazione e pace, invece d’approdare alla rassegnazione e alla comprensione, ecco che si rivelò più dura l’incomprensione e l’atrocità del mistero, urtando in una volontà inflessibile. La tenerezza di quel Bambino è terribile, la sua volontà va oltre il sangue del Golgota e della Passione, oltre lo strazio di sua madre e il destino di tutti gli uomini perché tutto trascende.

Sì che Tu sei terribile!Sì che in quei lini ascoso,in braccio a quella Vergine,sovra quel sen pietoso,come da sopra i turbiniregni, o Fanciul severo!È fato il tuo pensiero,è legge il tuo vagir. Vedi le nostre lacrime,intendi i nostri gridi;il voler nostro interroghi,e a tuo voler decidi.Mentre a stornar la folgore trepido il prego ascende,sorda la folgor scendedove Tu vuoi ferir. Ma pur tu nasci a piangere,ma da quel cor feritosorgerà pure un gemito,un prego inesaudito:e quella tua fra gli uominiunicamente amata…

Onnipotente…

cecidere manus.

Caddero le mani, scrive il Manzoni, citando Virgilio, in fondo a questi magnifici versi, che sono un vero inno sacro che, dato il tema, non poteva avere altra forma se non quella di frammento, né altra conclusione se non quella del silenzio e della remissione a Dio.

Manzoni aveva toccato il momento in cui più difficile è accettare il volere di Dio e iniziò questo dialogo fondamentale col Divino, quello di Giobbe, al quale tutti gli uomini si ritrovano, poiché è l’universale esperienza della vita.

Un’altra figura ci viene incontro in questa meditazione ed è quella di San Francesco quando, la notte di Natale del 1223 a Greccio, volle rappresentare un vero e proprio Mistero della Natività con la partecipazione di tutta la popolazione del luogo.

Difficile è comprendere lo spirito che animò il Poverello d’Assisi in quella notte, anche perché non fu quello di una qualunque celebrazione del presepio. Collegata strettamente alla Messa, celebrata fuori del luogo sacro su una mangiatoia, l’azione drammatica, che rimane come il prototipo della nostra usanza del presepio, è un momento forte della spiritualità francescana, né fu cosa casuale. Francesco non era soddisfatto delle sacre rappresentazioni dette Officium pastorum, che si facevano con spirito teatrale, badando più all’aspetto storico e profano che al rinnovamento di un’esperienza spirituale. Neppure lo convinceva il cerimoniale ufficiale con cui si celebrava il mistero liturgico, che coinvolgeva solo il clero celebrante e lasciava la gente distaccata e poco partecipe.

Sapeva di fare qualcosa che non era una pura rievocazione del mistero, ma una riappropriazione diretta, un’immersione in questo, un rivivere l’evento della Salvezza. Per questo sapeva che poteva essere anche interpretato come una liturgia eterodossa e ne chiese espressa approvazione al papa Onorio III, che la concesse il 29 novembre dello stesso anno 1223.

Fu una notte di altissima tensione spirituale e per quanto riguarda Francesco può dirsi anche mistica, data quella idea di fratellanza cosmica che dalle sue parole percepirono i presenti e a stento narrarono gli storici, nel riscatto universale portato da Cristo Bambino al mondo intero, salvezza che coinvolgeva in modo mirabile gli uomini, gli animali, che volle intorno alla greppia in carne ed ossa, e tutte le cose di Dio. Gli storici come Tommaso da Celano ci hanno lasciato un ricordo indimenticabile di Francesco in quella notte veramente santa. Fu però come toccare la folgore, meditare là dove si perde la mente: il Presepe di Greccio non venne mai replicato dallo stesso Francesco, segno di un’esperienza spirituale unica, che non si presta alla ripetizione e alla formalizzazione. Pure questa avvenne e ancora avviene, non più in quella misura, ma nella devozione di cui sono capaci gli uomini, per i quali Cristo apparve al mondo nella notte della Natività.

Il Bambino dell’Ara Coeli a Roma La statua in legno scolpita dal frateGrande devozione ha riscosso nei secoli anche l’immagine del Bambino dell’Ara Coeli a Roma. La chiesa sorge, come vuole la leggenda, sul colle dove l’Imperatore Augusto, consultando la Sibilla, ebbe l’oracolo che un grande re sarebbe apparso nel mondo: Cristo. Dallo stesso Augusto venne fatto edificare in suo onore un grande altare e da qui il nome di Ara Coeli, che forse deriva più probabilmente dall’antico nome del luogo Auguraculum.

Là sorse, si vuole inizialmente per opera di Sant’Elena, madre di Costantino, luogo sacro cristiano, poi una chiesa romanica nel XII secolo, quindi nel 1250 vi si insediarono i Benedettini. Nel 1348 vi fu aggiunta per contributo popolare la celebre monumentale scala esterna. Nel 1880 l’intero complesso conventuale fu raso al suolo per far posto al Vittoriano, il monumento a Vittorio Emanuele, opera del Sacconi, che gli conferì la grazia e l’eleganza di colui che vi è celebrato.

Vi si fa un celebre presepio e vi è conservata la Madonna dell’Aracoeli, un’icona bizantina dell’XI secolo, e nella Cappella del Bambino era conservata prima del furto sacrilego del 1994, la statua del Santo Bambino dell’Aracoeli.

L’immagine miracolosa era veneratissima a Roma e altrove nei secoli passati. Era considerata patrona dei moribondi, nella case dei quali veniva portata, restandovi per un giorno. È ricchissima per lasciti ed ex voto. L’immagine è in legno d’olivo del Monte Oliveto in Palestina, come vuole la leggenda.

La leggendaSi racconta che il Santo Bambino dell’Aracoeli sia stato scolpito da un frate che risiedeva in Palestina, nel convento francescano di Sion. Questi, devoto del Bambinello, scolpì una statua in legno d’olivo preso da una pianta del Monte degli Olivi, dove Cristo pregava. Lavorò con grande cura, però, mancandogli i colori per dipingere la piccola statua, andò una sera a letto afflitto, pregando il Signore che lo aiutasse. All’alba, quando si alzò, trovò la statua perfettamente colorata, talmente bella che tutti l’ammirarono con devoto stupore.

Quando il fraticello dovette tornare in Italia volle portarsi dietro questa immagine: la chiuse con cura in una cassetta e s’imbarcò. A metà del viaggio si scatenò una furiosa tempesta, per cui, dovendosi alleggerire la nave, tutti dovettero gettare i loro bagagli. Anche la cassetta fu strappata dalle mani del fraticello dai marinai e gettata nelle onde.

Scampata al pericolo la nave giunse al porto di Livorno e, quando i viaggiatori furono scesi a terra, ecco che sulle onde tranquille si avvicinò al molo la cassetta del Bambinello, che il frate raccolse portandola prima al convento francescano di Livorno e poi da lì al santuario dell’Aracoeli.

Il Santo Bambino di Praga«Fa le grazie a chi lo paga»Il culto riservato esclusivamente al Santo Bambino, fuori delle immagini legate alla Madre e al presepio, non è frequente, ma ha almeno due luoghi in cui ha lunga tradizione e grande risonanza: Praga e l’Ara Coeli a Roma. Il Santo Bambino di Praga è un’immagine miracolosa, celeberrima e venerata in gran parte dell’Europa cattolica. Si ritiene che provenga da un convento spagnolo tra Cordoba e Siviglia, nel quale ne è venerata una copia. Maria Manrique de Lara y Mendoza, nel XVI secolo, avendo sposato un nobile ceko la portò in Boemia e la donò alla figlia Polyssena sposata Lobkowicz, e quindi, non avendo la proprietaria figli, fu donata al priore dei Carmelitani scalzi presso il convento di Santa Maria della Vittoria a Praga, nel quartiere di Mala Strana, dove è ancora veneratissima. Il Bambino è gratiosus, miracoloso, ed ha un ricchissimo corredo di antichi abiti preziosi, oltre cento, che gli vengono via via cambiati. Uno di questi fu fatto dall’Imperatrice Anna Maria Teresa. Anche in Italia è diffusissima questa devozione. Per la ricchezza degli ex voto nacque tra l’irriverente popolo italiano il detto: Come il bambino di Praga: fa le grazie a chi lo paga. La rima è una grande tentazione. In Italia ad Arenzano (Genova) vi è un santuario eretto nel 1904, centro d’irradiazione di questa devozione. Anche a S. Maria del Carmelo ad Acireale (Catania) viene onorata con processione l’effigie del Bambino di Praga.

Era uso un tempo, ed è rimasto fino ai nostri giorni, fare dono di una statuetta di cera del Bambin Gesù alle spose, in occasione delle nozze, soprattutto da parte di conventi di suore. Il Bambino veniva conservato in casa, sotto una campana di vetro, nella sala o nella cappella gentilizia.

La leggendaSi narra che durante le guerre che insanguinarono la Spagna, combattute tra Mori e Cristiani, in un convento carmelitano del Sud devastato dai musulmani, rimasero vivi solo quattro frati, dei quali uno aveva nome Giuseppe. Devoto del Santo Bambino, mentre lavorava cercando di procurarsi qualcosa per sopravvivere, vide davanti a sé un bambino che lo invitò a pregare. Il frate recitò l’Angelus e, alle parole «benedetto è il frutto del tuo seno Gesù» il bimbo gli disse: – Sono io quello! E scomparve.Il frate sentì un grande desiderio di rivedere quel bimbo, ma non lo gli apparve più. Allora cominciò a modellare una statuetta che gli potesse ricordare le sue fattezze, ma per anni non riuscì a fare qualcosa che gli somigliasse. Quando fu molto vecchio, sempre desideroso di ritrovare quel volto, ecco che un giorno il bambino gli apparve nuovamente, dicendogli: – Sono venuto perché tu possa terminare la mia immagine.Fra’ Giuseppe riperse l’opera e in poco tempo portò a compimento il lavoro, terminato il quale il bimbo scomparve. Giuseppe si sentiva molto stanco e s’addormentò. Non si ridestò più su questa terra, ma riaprì gli occhi in Paradiso e i confratelli trovarono il suo corpo accanto alla statua.