Vescovi Toscani
Un decalogo contro la pena di morte (21-11-2000)
Il giorno 30 novembre ricorre l’anniversario dell’abolizione della pena di morte in Toscana, prima abolizione della pena di morte in Toscana, prima abolizione della pena di morte in Europa e nel mondo.
Noi vescovi della Toscana riteniamo importante ricordare e celebrare tale momento, significativo di una profonda svolta nella storia della legislazione penale, momento che onora la nostra Toscana. Per questo accogliamo l’invito del Presidente del Consiglio regionale di far suonare le campane della Regione alle ore 17,00 del giorno 30 novembre e ne diamo mandato a tutti i parroci e rettori delle nostre Chiese. Intendiamo motivare questa nostra scelta con la seguente dichiarazione
1. Per il cristiano ogni vita umana è un progetto di Dio che crea e che salva, un progetto che dal suo accendersi nel seno materno al suo temine naturale mai è dato all’uomo di interrompere.
Riteniamo pertanto che la pena di morte sia moralmente inaccettabile in qualunque caso e in qualunque situazione e ci sentiamo così uniti a tutti coloro che in ogni parte del mondo si dichiarano sinceramente difensori dei diritti dell’uomo come sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (1948) e riconoscono nella tutela della vita il primo e supremo diritto di ogni essere umano.
2. Sappiamo bene che nei secoli scorsi la Chiesa si è spesso trovata a esercitare un potere temporale, lasciandosi anche coinvolgere in una logica sociale e giuridica talvolta contrastante con la lettera e con lo spirito del Vangelo: di questo il santo Padre ha solennemente chiesto perdono nel corso dell’attuale Giubileo e noi vescovi della Toscana vogliamo associarci a questa richiesta di perdono, nella speranza che il prossimo millennio possa vedere nuovi traguardi per una sempre più autentica convivenza umana.
4. La pena di morte non è di per sé una pena: è pena invece il periodo angoscioso in cui il presunto reo attende l’esecuzione e spesso anche la macabra sceneggiatura che lo caratterizza; poche altre realtà sono altrettanto disumane e disumanizzanti per chi le subisce come per chi vi assiste.
5. La pena di morte non può essere assimilata alla legittima difesa della società. In tutta la tradizione etica di ispirazione o di radice cristiana si può parlare di uccisione per legittima difesa, del singolo o della comunità, solo quando vi sia un’aggressione in atto e non solo in progetto. Lo Stato può uccidere un reo solo dopo averlo catturato, e quindi nel momento in cui egli non è più in grado di aggredire.
6. La pena di morte non può essere considerata una difesa della società da potenziali delinquenti, non è un deterrente: non esiste alcuna indicazione statistica che colleghi la pena di morte con una diminuzione di reati gravi, mentre esistono evidenze statistiche che indicano l’irrilevanza della pena di morte sul numero dei reati gravi: alcuni studi comparativi poi rilevano che tale pena sembra costituire un incitamento all’omicidio, in quanto lo Stato omicida può costituire una giustificazione psicologica dell’omicidio privato.
7. La pena giudiziale ha sempre avuto nella tradizione etico-giuridica occidentale, sia civile che canonica, una primaria finalità medicinale: si è sempre considerato, insomma, che una società si difende proprio nella misura in cui è capace mediante una pena, di restituire il reo a quell’ordine giuridico e morale che egli ha violato. Il sistema penale attuale ovunque nel mondo ha ben poco di medicinale, ma la pena di morte ne esclude ogni possibilità.
8. La pena di morte ha dunque solamente un carattere vendicativo, in contrasto però con la grande tradizione giuridica che attribuisce alla «vindicatio» una rilevante funzione sociale, quella cioè del ripristino nella sensibilità collettiva di un ordine giuridico-morale violato; tale funzione viene però completamente negata dalla pena di morte.
9. La pena di morte è l’unica pena irreversibile e non appare in nessun modo giustificabile: la giustizia umana infatti, anche nei sistemi giuridici più avanzati, presenta sempre un margine di incertezza, o circa la responsabilità del condannato o sulle condizioni oggettive e soggettive in cui il reo ha agito. Solo Dio conosce il cuore dell’uomo, e può esserne il giudice ultimo e infallibile.
10. Il cristiano, per quanto offeso possa sentirsi, non potrà mai invocare l’uccisione per chi ha ucciso e, ricordando che il Signore ha duramente rifiutato la legge del taglione, dovrà sempre perdonare sinceramente. Potrà desiderare e anche chiedere alla pubblica autorità una giusta pena per chi si rende colpevole di un reato, ma tale pena, proprio per essere giusta, non dovrà mai violare i diritti essenziali del reo, il quale resta comunque una persona umana che in ogni caso ha diritto alla sopravvivenza, magari nella speranza di un futuro umanamente accettabile, forse anche in grado di risarcire almeno in parte il male compiuto.
Firenze 21 novembre 2000