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Un Centro sportivo per i ragazzi di Baghdad
L’inaugurazione del progetto realizzato grazie alla Fondazione Giovanni Paolo II a Baghdad: a pianterreno c’è un campo di calcetto separato con una rete dal bar e da alcuni locali attrezzati con biliardo e tavoli da tennis. Al piano superiore due belle palestre.
C’è il sole sopra le nuvole che coprono l’Iraq. Il mio vicino di posto è un giovane di Baghdad che studia in Ucraina, torna a casa per una breve vacanza. Gentilissimo, ha voglia di parlare in uno strano miscuglio di russo e inglese del quale ride lui per primo. Mi chiede in quale albergo ho prenotato.
– «La Petite Maison», dico distratto. – Sorry? Non è possibile, era un buon albergo prima della guerra ma ora è nella zona rossa, gli stranieri non ci possono andare. Chiedo se c’è qualche legge che lo vieta. Mi guarda divertito. Non c’è una legge, lo dice il buonsenso. Il vero credente si affida nelle mani di Allah ma prima guarda almeno se sono tese.
L’aereo scende e si prepara per l’atterraggio. Il sole comincia piano piano a impallidire, poi scompare del tutto in una coltre che da grigia diventa sempre più nera.
L’idea di un albergo nella zona rossa è dell’Arcivescovo latino di Baghdad. Mons. Sleiman. Dice che è più sicuro, si da meno nell’occhio. Il centro culturale e sportivo che siamo venuti a inaugurare è nella Zona Rossa, avere un albergo nella Zona Verde, quella superblindata, vorrebbe dire entrare e uscire due volte al giorno scortati dalla Polizia a sirene spiegate. Troppo chiasso; profilo basso, farsi vedere il meno possibile.
Mi era sembrata una buona idea ma ora che le luci della pista scorrono veloci nella foschia non lo so più.
Fuori dall’aeroporto ci aspettano Mons. Sleiman e il Nunzio Apostolico, Mons. Giorgio Lingua. Saluti, strette di mano, poi via in auto, anzi nel convoglio di auto.
Apre la fila una camionetta della Polizia irachena con una mitragliatrice sul cassone e due uomini armati. Dietro c’è l’auto blindata del Nunzio, poi un pulmino e infine a chiudere la fila un’altra camionetta della Polizia con l’immancabile mitragliatrice.
Siamo arrivati in sei dall’Italia: mons. Rodolfo Cetoloni, vescovo di Grosseto, Angiolo Rossi, direttore della Fondazione Giovanni Paolo II, Paolo Ricci e Alessandro Bartolini, sempre della Fondazione, Fulvio Scaglione, vice direttore di Famiglia Cristiana. In un gruppo c’è sempre qualcuno che non fa niente, questa volta è toccato a me.
Le auto si dirigono verso il centro a tutta velocità, senza rispettare i semafori per non offrire un bersaglio fermo. La città è praticamente deserta per il venerdì islamico e i rari passanti non ci degnano di uno sguardo, ormai abituati all’arroganza rumorosa dei convogli armati.
Mons. Cetoloni di tanto in tanto deve alzare la voce per coprire quella delle sirene. Racconta di quando è arrivato qui nel 2009. Allora la situazione a Baghdad era addirittura peggiore di quella di oggi. Di fronte alla Cattedrale di St. Joseph c’era un campo. L’arcivescovo Sleiman voleva costruirci un centro per i giovani, non solo cristiani della città, un centro sportivo ma anche culturale, dove incontrarsi, discutere o semplicemente passare qualche ora di svago per dimenticare l’oppressione della guerra.
Quando torniamo nella hall, l’auto blindata e la scorta se ne sono andate. Ci stringiamo nel pulmino e via verso la Cattedrale. Il tragitto non è lungo, solo pochi minuti nelle strade deserte. La strada dove sorge la chiesa di St. Joseph è sbarrata alle due estremità da blocchi di cemento, una precauzione contro le auto bomba mentre alcune guardie armate sorvegliano la zona 24 ore su 24.
Una spinta deve averla data Mons. Cetoloni, appassionato di calcio e in gioventù assiduo frequentatore di campi sportivi.
Il giorno dopo, accompagnati dal Nunzio Apostolico con la sua scorta, andiamo all’ambasciata d’Italia, nella Zona Verde di Baghdad, una parte del centro della città difesa come un fortino assediato. Da una parte è delimitata dalle acque del fiume Tigri mentre dall’altra è completamente circondata da un muro di cemento armato alto quattro metri, con nidi di mitragliatrici ovunque.
All’ingresso della Zona Verde il primo controllo dei documenti. Superato quello si accede a un viale lungo il quale ogni poche centinaia di metri c’è un posto di blocco e di controllo. Fra uno sbarramento e l’altro una vera mostra di quanto offre oggi il mercato delle armi: autoblindo, carrarmati, mitragliatrici, cannoni.
Arriviamo finalmente all’ambasciata italiana dove ci accoglie l’ambasciatore Massimo Marotti. Ci dice che gli italiani non sono molti in Iraq. La maggior parte è nel nord del Paese, controllato dai Curdi e relativamente più sicuro, pochissimi a Baghdad. Sempre gentilissimo, si informa di come ci muoveremo nei giorni successivi. Non è difficile capire che quando ripartiremo per l’Italia tirerà un sospiro di sollievo: Baghdad non è posto per turisti e se ci succedesse qualcosa toccherebbe a lui tirarci fuori dai guai.
Dopo l’ambasciata italiana andiamo in quella Statunitense per una funzione religiosa. L’ambasciata non è un edificio ma una città nella città con 8.000 dipendenti. Subito accanto al posto di blocco per il controllo documenti una fila di barelle da pronto soccorso, tanto per averle a portata di mano perché potrebbero servire in qualsiasi momento: nonostante tutte le precauzioni la possibilità di un attentato non è affatto remota.
All’interno della zona riservata all’ambasciata c’è anche un aeroporto perché quello di Baghdad è considerato troppo pericoloso per gli Americani. Non riesco neanche a immaginare quanto possa essere costato, e continui a costare, tutto questo apparato di sicurezza, quanti ospedali, scuole, fabbriche si potevano costruire con quei soldi.
Il giorno dopo c’è il tempo per una breve visita alla città. Una città in stato di guerra. Posti di blocco quasi a ogni incrocio, uomini armati ovunque. Niente riprese o fotografie, non uscire dal pulmino. Nabeel Afram Naisan il direttore della Caritas di Baghdad che ci fa da guida ce lo ripete in continuazione. C’é il rischio di essere fermati e di passare qualche ora, se va bene, in una caserma della polizia. Arriviamo fino in piazza Firdaus, quella dove fu abbattuta la statua di Saddam Hussein e che fece il giro del mondo sugli schermi televisivi il 9 aprile 2003. Riusciamo a strappare a Nabeel il permesso di fare qualche passo in una delle strade vicine. Il pulmino si è fermato proprio davanti a una tenda con il pavimento coperto di tappeti e grandi ritratti appesi alle pareti. Gli uomini che sono nel riparo ci invitano a entrare. Ci spiegano che quello è un punto di ristoro per pellegrini sciiti diretti a Kerbala e che i ritratti sono quelli dei primi 12 imam. Quando spieghiamo chi siamo e perché siamo a Baghdad ci offrono da bere, impossibile rifiutare senza offendere. Saluti, strette di mano. Intanto sulla strada sfrecciano convogli blindati a sirene spiegate.
Nel pomeriggio arriva finalmente il momento dell’inaugurazione del centro «Giovanni Paolo II». Una cerimonia in sordina per non dare troppo nell’occhio e non correre il rischio di qualche attentato, eppure sono in tanti in attesa.
Il taglio del nastro, poi la piccola folla entra nell’edificio. A pianterreno c’è un campo di calcetto separato con una rete dal bar e da alcuni locali attrezzati con biliardo e tavoli da tennis. Al piano superiore due belle palestre, una per gli uomini e una per le donne, impensabile fare diversamente in questo Paese. Poi altre stanze che in futuro saranno utilizzate per la formazione di giovani.
I ragazzi presenti attendono con pazienza la fine dei discorsi ufficiali e i ringraziamenti, poi tirano fuori il pallone e il Centro «Giovanni Paolo II» di Baghdad prende finalmente vita. Si alza la voce, si ride, si comincia anche a litigare per una palla tirata male. Insomma tutto quello che succede in un qualunque centro sportivo del mondo. Piano piano la cappa nera e pesante della guerra si solleva. Solo un poco e non per tanto ma si solleva. Per qualche ora queste mura diventano un’oasi di normalità con gente che gioca, si diverte, chiacchiera. Insomma finalmente vive perché quella fuori, con l’incubo delle bombe e delle sparatorie non si può chiamare vita.
Il centro vuole essere un piccolo aiuto alla comunità cristiana di Baghdad per rendere più accettabile una situazione difficilissima. Molti cristiani infatti non hanno retto e se ne sono andati. C’è chi è riuscito a raggiungere l’Europa pagando i nuovi mercanti di carne umana che fanno la spola fra le due sponde del Mediterraneo e chi è finito nei campi profughi di qualche Paese vicino. Altri se ne andranno, se la situazione non migliorerà e segni di quel miglioramento ancora non se ne vedono.
Ma il Centro Giovanni Paolo II è anche un tentativo di avvicinare la comunità cristiana con quella musulmana dato che sarà aperto a tutti, senza distinzione di razza o religione. E si spera che chi impara a conoscersi e a parlarsi qui dentro, non abbia voglia di spararsi quando è fuori.
Il giorno dopo si torna in Italia. Grazie alla presenza del Nunzio Apostolico riusciamo a superare in pochi minuti i posti di blocco sulla strada fra Baghdad e l’aeroporto. Passiamo accanto a una fila praticamente ininterrotta di auto. Di solito occorrono fra le quattro e le cinque ore per percorrere meno di dieci chilometri.
Finalmente l’aereo rulla sulla pista e si stacca dal suolo. Prende quota e descrive una larga curva sopra Baghdad, inclinandosi. Dall’oblo vedo distintamente le anse del Tigri illuminate dal sole. Ecco la Zona Verde, ecco il centro della città con i suoi viali. Mi sembra di distinguere anche piazza Firdaus, quella dove fu abbattuta la statua di Saddam. E mi viene in mente la foto che nonostante i divieti sono riuscito a fare. Il monumento al dittatore naturalmente non c’è più; è rimasto però il piede di Saddam, ancorato saldamente al basamento. Un’immagine che dice molto dell’Iraq di oggi e del suo tentativo voltare pagina: il piede sinistro di Saddam è sempre lì per ricordare che con quel passato occorrerà fare i conti non solo oggi ma anche domani.