Opinioni & Commenti
Un anno fa l’inferno si trasferì in cielo
Mai spettacolo senza manifesto ebbe tanti spettatori. La Cnn è in grado di riprendere il cataclisma dopo il primo scoppio ed è pronta a registrare dal vivo l’urto con la seconda torre. Ciò che era dentro le immagini ripetute poi all’infinito era fuori di ogni immaginazione fino a quel momento. L’America delle fortezze volanti e dei B52 era per la prima volta bombardata nella sua storia. Gli Stati uniti che da centocinquanta anni non avevano più combattuto una battaglia nel loro territorio ora erano colpiti al cuore.
Bisogna partire da questo privilegio storico, da questa presunzione di invulnerabilità simile a quella degli dei, per registrare la sensazione collettiva di sgomento, di rabbia, e di rivalsa collettiva che invase subito l’America. Gli europei, abituati ad altre tragedie ed a convivere fra smacchi e successi con i loro vari terrorismi da più di cento anni, avrebbero avuto qualche grammo in più di rassegnazione e di incertezza. Ma a Washington il nuovo terrorismo che violava il santuario della maggiore potenza militare del mondo fu subito classificato come una guerra. Una guerra che si doveva combattere e vincere, una guerra che, come tutte le guerre, doveva avere una fine con la sconfitta totale e la eliminazione totale del nemico.
Ma il terrorismo è qualcosa di più e di meno di una guerra. Manca di un territorio, di uno stato e di un esercito al fronte e in uniforme per potergli marciare contro. Di fronte alla nuova minaccia sono spuntate anche le armi della dissuasione e della ritorsione promessa che in fondo avevo funzionato al tempo della guerra fredda. Il terrorista suicida si dà da sé la pena di morte mentre commette omicidi. Non si può né intimidirlo né punirlo e in ciò consiste la novità del suo perverso trionfo finché si pensa di affrontarlo solo con la forza delle armi.
Resta, è vero, lo sfogo della caccia ai mandanti, ai presunti complici e protettori anche se qui si entra nel territorio opinabile delle responsabilità e nel rischio di bruciare, nell’ambiente che nasconde i presunti capi e sostenitori, il grano insieme al loglio. All’indomani dell’11 settembre Bin Laden è diventato il principale capro espiatorio che doveva saziare la rabbia. È stato «wanted dead of alive» ricercato morto o vivo, come si leggeva nei vecchi cartelli del West. Eppure, nonostante che per un anno siano state gettate sull’Afghanistan, più bombe che sulla Germania nella seconda guerra mondiale, anche un deserto così frugato non ha consegnato il suo ospite.
Il tema della guerra come risposta unica al terrorismo ora porta a minacciare una guerra contro l’Irak mettendo in discussione il risultato più importante raggiunto dopo l’11 settembre con una coalizione contro il terrorismo che comprendeva anche Stati arabi e musulmani e che andava dal Marocco all’Indonesia. Ma soprattutto si inaugura la teoria della «guerra preventiva» che è un passo ancora più in là del vecchio «equilibrio del terrore», che non esiste nel moderno diritto internazionale, che può giustificare tutto e tutti e che fece sì, come ricordava a suo tempo ironicamente lo storico Gibbon, che «per difendersi Roma conquistò il mondo intero».
Ma il terrorismo, come la criminalità comune, è una realtà che si deve combattere continuamente, ma non può essere sconfitta definitivamente e cancellata dalla faccia della terra, con la sola forza repressiva nemmeno eliminando le persone che lo praticano. Esso non è fatto solo di uomini, di organizzazioni, di finanziatori, di stati più o meno compiacenti. Appartiene alla categoria del male per la cui emarginazione e sconfitta valgono soprattutto criteri di giustizia nel comportamento internazionale, solidarietà fra i popoli, la sensazione che nei rapporti fra gli uomini sono più vincenti la comprensione e la collaborazione che le chiusure.