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Un anno dopo: quel che resta delle «primavere» arabe

di Romanello Cantini

A più di due anni di distanza dall’inizio della cosiddetta «primavera araba» è possibile tentare un primo bilancio di un fenomeno che ha promesso democrazia nel mondo arabo ma che ancora sembra lontano dall’aver trovato un suo assestamento finale e dal mantenere tutte le promesse che erano state fatte. Chi è chiamato a gestire la postrivoluzione è almeno in parte diverso da chi ha fatto la rivoluzione. Forze che sono salite sul treno già in corsa sembrano occupare ora buona parte della locomotiva. La situazione è molto diversa da un paese all’altro ma in ogni caso predominio di forze più o meno fondamentaliste, eventuale introduzione della sharia, cambiamento dei rapporti con Israele, infiltrazioni più o meno pericolose di Al Qaeda e infine condizioni riservate alle minoranze cristiane nei vari paesi sono i punti centrali su cui si può tentare di indovinare un profilo di ciò che tende a diventare la sponda opposta del nostro Mediterraneo.

In Tunisia le elezioni per eleggere la nuova assemblea costituente si sono già tenute il 23 ottobre scorso. Le ha vinte conquistando 90 seggi su 217 il partito musulmano moderato di Rached Ghannushi che probabilmente si alleerà con il partito di sinistra Ettakal e con il partito laico di centrosinistra Congresso per la Repubblica. In Libia le elezioni per eleggere l’assemblea costituente dovrebbero tenersi il maggio prossimo. Ma il nuovo stato non sembra ancora essere costruito perché alcuni gruppi di ribelli rifiutano di sottomettersi al governo centrale, di consegnare le armi e di entrare nell’esercito regolare. In Egitto nel lungo turno elettorale che si è concluso nel gennaio scorso,  hanno stravinto i partiti considerati fondamentalisti con il 42 per cento dei voti conquistati da Giustizia e Libertà (Fratelli Musulmani) e con il 24 per cento raggiunto da Al Nar (salafiti).

Sui paesi usciti dalla «primavera araba» comincia ad aleggiare anche lo spettro della introduzione della sharia, cioè del Corano come testo legislativo. Bisogna tuttavia premettere che quasi sempre nei paesi musulmani, anche laddove non è introdotta la sharia, l’ispirazione islamica è sempre stata presente. In Egitto anche la vecchia costituzione definiva la sharia fonte del diritto e perfino la costituzione tunisina, la più laica in assoluto del mondo arabo, definiva il paese come uno «stato musulmano». È necessario anche aggiungere che, anche laddove la sharia c’è o si vuole introdurre, riguarda soprattutto il codice familiare islamico con il suo predominio dell’uomo sulla donna. Le famigerate punizioni corporali (lapidazione, taglio della mano) sono raramente applicate anche laddove vige la sharia (Arabia saudita, Iran, Pakistan).

In ogni caso, nonostante la vittoria elettorale di un partito islamico, la Tunisia è il paese che intende rimanere più laico. Ghannushi, il vincitore delle elezioni, ha dichiarato che non intende toccare le riforme introdotte ben mezzo secolo fa dal «padre della patria» Burghiba che proibiscono la poligamia e il ripudio della moglie da parte del marito. Al massimo renderà libera la scelta del velo finora in Tunisia osteggiata, per esempio, discriminando chi lo portava nelle assunzioni nei posti di lavoro. Ghannushi ha detto che vuole ispirarsi alla politica di Erdogan in Turchia e in un’intervista ha dichiarato: «Non siamo un partito religioso. Siamo un partito politico che agisce in una cornice democratica non dissimile dai democratico cristiani europei». In Tunisia l’integralismo sembra toccare solo piccoli gruppi come i salafisti che il 9 ottobre scorso hanno assaltato la sede della tv privata che aveva trasmesso il film iraniano Persepolis dove Dio veniva ritratto in forme umane e che nei giorni scorsi hanno manifestato per il Corano bruciato dai soldati americani in Afganistan.

Al contrario in Libia il 23 ottobre scorso Mustafa Abdel Jalil, il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) ha sorpreso un po’ tutti esaltando, in quello che doveva essere il discorso della vittoria, la poligamia che Gheddafi aveva abolito, condannando l’usura secondo la legge coranica e rivendicando l’identità islamica sovranazionale contro l’identità libica nazionale. Il 10 gennaio scorso si sono avute manifestazioni a Bengasi e Tripoli per introdurre la sharia nella costituzione. Chi, bombardando dall’alto, ha aiutato gli insorti libici a vincere comincia già ad avere qualche perplessità dopo la fine atroce riservata a Gheddafi (linciato lentamente in pubblico ed esposto per giorni come cadavere in inizio di putrefazione su un materasso insanguinato dentro una cella frigorifera perché tutti potessero andare a vederlo e portare a casa le foto di un corpo martoriato riprese con il cellulare) e dopo le ripetute denunce da parte di ong come Amnesty International e Human Right Watch delle cacce all’uomo, delle esecuzioni sommarie e delle torture che continuano nel paese.

In Egitto non esiste finora ufficialmente nessuna presa di posizione ufficiale a favore della sharia. Tuttavia Fareek Zakaria, il professore di Harvard specializzato in sondaggi nel mondo musulmano, ha rilevato che oltre l’ottanta per cento degli egiziani oggi sarebbe favorevole alla pena di morte per adulterio e apostasia mentre l’adozione del velo si sta di fatto generalizzando in tutto il paese.

Il rapporto con IsraelePer quanto riguarda il rapporto con Israele non sembra che la Tunisia, che è sempre stata in pace con lo stato ebraico, voglia cambiare in sostanza il suo atteggiamento. Al massimo ci sarà un raffreddamento nei rapporti. Nell’ottobre scorso è stato chiuso a Tunisi l’ufficio per le relazioni con Israele e Ghannushi ha dichiarato di essere contrario ad ogni normalizzazione delle relazioni con Gerusalemme. Anche in Egitto, nonostante che alle elezioni abbiano vinto quei Fratelli Musulmani che trenta anni fa furono ritenuti responsabili dell’assassinio di Sadat che aveva fatto la pace con Israele, sembra prevalere il realismo se non il cinismo di una organizzazione che molti oggi descrivono come meno estremista dal passato. I nuovi protagonisti della scena politica egiziana hanno fatto sapere a Washington che la pace del 1978 non verrà toccata finché continuerà il grosso aiuto economico (3, 5 miliardi di dollari all’anno) che gli Stati Uniti elargiscono al paese. Tuttavia ci sono spinte dal basso in direzione opposta. Nel giugno scorso una delegazione egiziana si è recata a Gaza ad incontrare i capi di Hamas. L’8 settembre la folla ha attaccato l’ambasciata di Israele al Cairo. Il 18 febbraio scorso in piazza Tahir lo sceicco Yasuf al-Qaradawi ha incitato la folla a varcare il valico di Rafah per andare a combattere con i palestinesi. «A Gerusalemme – ha detto – andiamo per essere martiri a milioni».

Eventuali infiltrazioni di Al Qaeda nel nuovo paesaggio nordafricano sembrano possibili soltanto in Libia. Il Movimento islamico per il cambiamento (Mic) guidato da Abdelhakim Belkaj, che ha combattuto in Afganistan fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha partecipato alla rivoluzione libica con circa duemila uomini. Ora Sami Al- Saadi, il teorico del gruppo, è arrivato a promettere a un giornalista del Washington Post: «Noi potremmo forse convincere Al Qaeda a non attaccare l’Occidente». Tuttavia questo movimento non ha ancora detto ufficialmente di accettare la democrazia.

La situazione dei cristianiConfuse e preoccupate fra minacce, incognite e speranze si trovano, con notevoli diversità da un paese all’altro, le minoranze cristiane rimaste nella regione. In Tunisia, il paese che fu di Agostino e Tertulliano, ci sono rimasti ormai poco più di ventimila cattolici per lo più stranieri con solo due chiese, una sola diocesi, 40 sacerdoti e un centinaio di suore. Tuttavia la Tunisia rimane il paese più aperto nei rapporti interreligiosi. La sua costituzione permette perfino le conversioni dall’islamismo al cristianesimo, che nella misura di tre o quattro all’anno, sembrano ancora avvenire.

Monsignor Elias Lahham, vescovo di Tunisi, ha detto ancora poche settimane fa: «Non ho mai sentito una parola contro i cristiani». Anche in Libia ci sono ormai solo due chiese, una a Tripoli e una Bengasi, con soli 25 preti, un centinaio di suore per qualche decina di migliaia di cattolici. Dall’inizio della guerra civile decine di migliaia di cristiani hanno lasciato il paese, ma più perché erano immigrati stranieri che per timore di ritorsioni. Recentemente monsignor Giovanni Martinelli, vicario di Tripoli, ha dichiarato ad Avvenire: «I cinquantamila cattolici residenti nel paese non corrono pericoli».

Molto più preoccupante è la situazione in Egitto dove i cristiani copti sono quasi dieci milioni e rappresentano più del dieci per cento della popolazione. Qui i cristiani erano già emarginati al tempo di Mubarak. Ci voleva il rispetto di ben dieci condizioni per poter costruire una chiesa, cioè in pratica per non farla costruire. Chi si fosse convertito dall’islam al cristianesimo rischiava la vita per mezzo di un attentato anche se non per mezzo di un tribunale. Il primo gennaio 2011 una bomba posta davanti alla Chiesa dei Santi ad Alessandria fece ventuno morti. Tuttavia ora sembra che anche il potere si schieri contro i cristiani. Il 10 ottobre scorso l’esercito ha sparato provocando ventiquattro morti fra una folla di copti che manifestavano davanti alla tv di stato per una chiesa incendiata nella zona di Assuan. Ormai si calcolano in quasi centomila i copti che dall’inizio della rivoluzione avrebbero abbandonato l’Egitto.

Anche in Siria, dove la «primavera araba» non ha trovato ancora la sua estate, il futuro rimane piuttosto oscuro mentre il presente è sempre più drammatico. Ormai sono settemila le vittime della repressione di Assad fra cui quattrocento bambini. E anche il poco che riesce a filtrare dall’interno di un paese chiuso a doppia mandata è spesso un racconto di una barbarie inaudita. Secondo la denuncia di Medici senza Frontiere e secondo il racconto fatto su Le Monde dallo scrittore Jonathan Littell, che è riuscito a nascondersi a Homs per oltre un mese, nella città assediata i tiratori scelti sparano su chiunque, anche donna o bambino, si affacci fuori della sua porta e negli ospedali diventati luoghi di supplizio si torturano i rivoltosi feriti e si lascia che le loro ferite vadano in cancrena perché muoiano o siano amputati. Dall’altra parte gli insorti scendono in piazza uscendo dalla preghiera nella moschea del Venerdì e coltivando il culto del martire e del suo sangue con la ripresa attraverso il cellulare delle più orrende ferite che si cerca di far giungere alle televisioni arabe. Tuttavia il regime di Assad può contare non solo su un certo numero di appoggi internazioni, ma anche sul fatto che la rivolta non è omogenea in tutto il paese. Se la ribellione è quasi generale nella zona intorno ad Homs tanto che l’Armata siriana libera (ASL) ha in pratica il controllo della regione, a Damasco, dove fra l’altro le minoranze alauita e cristiana sono più numerose, solo l’11 febbraio scorso la popolazione è scesa per la prima volta in piazza mentre è rimasta piuttosto tranquilla ad Aleppo dove c’è ancora, seppur ridotta, una forte minoranza cristiana.

Si ripete insomma in Siria la situazione paradossale che si era creata in Iraq al tempo di Saddam Hussein. Il dittatore iracheno, essendo espressione della minoranza sunnita contro la maggioranza sciita, era costretto a proteggere tutte le minoranze compresa quella cristiana. In Siria Assad, rappresentante di una piccola minoranza alauita costituita da circa due milioni di abitanti quanti sono grosso modo i cristiani, è visto come un possibile scudo anche per i cristiani. Non a caso i cristiani fuggiti dall’Iraq negli ultimi anni sono passati prima di tutto in Siria.

Segnali inquietantiUna serie di segnali piuttosto precisi fanno temere i cristiani che ancora vivono nella terra che fu di San Paolo. Il 6 gennaio un kamikaze si è fatto esplodere vicino all’arcivescovato di Damasco uccidendo 25 persone. Il 22 gennaio nel villaggio di Kafarbahan è stato ucciso il sacerdote greco ortodosso Basilios Navar. Il 10 febbraio è stato assassinato a Damasco il generale Issa Al-Khali, direttore dell’ospedale militare con un tecnica che ricorda quella di Al Qaeda. Due giorni dopo Ayman Al-Zawahari, il capo di Al Qaeda, ha lanciato un appello a tutti i musulmani perché sostengano la ribellione siriana. Ma per Al Qaeda i cristiani in terra islamica devono essere uccisi come legittimo bersaglio. Il futuro rimane insomma ancora molto incerto non solo in Siria, dove la situazione non ha ancora trovato uno sbocco, ma anche in paesi dove il vecchio regime è caduto come in Egitto e in Libia. Anche laddove la comunità internazionale ha contribuito o partecipato direttamente alla caduta dei vecchi regimi sembra completamente disinteressata a domandarsi che tipo di regimi possono essere i nuovi regimi che devono sostituire i vecchi, anche se tanti, troppo precipitosi entusiasmi di due anni fa si sono nel frattempo almeno in parte raffreddati.