Toscana
Un 2008 ancora insanguinato
di Romanello Cantini
L’anno che sta per finire ha visto riapparire la guerra nel Congo, il paese che ha pagato il tributo di vite umane più alto alla violenza nella seconda metà del secolo scorso (quattro milioni di morti in una serie ininterrotta di guerre civili durate dal 1996 al 2002). All’inizio di autunno le truppe del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (si chiamano così) di Laurent Nkunda hanno ripreso le armi ed hanno provocato l’emergenza di centomila profughi nel paese. Anche nel Dafur le razzie contro la popolazione non sono cessate tanto che è stata minacciata la incriminazione del presidente sudanese Omar Al Bachir alla Corte Penale Internazionale per genocidio.
Nelle aree di guerra diventate oramai presenza fissa nel panorama mondiale del nuovo millennio il costo in termini di sangue sembra diminuire anche se la soluzione dei conflitti non appare ancora dietro l’angolo. In Iraq i morti che si sono contati durante quest’anno sono circa un terzo di quelli del 2007 e le vittime sembrano diminuite anche in Afghanistan dove tuttavia i talebani hanno riconquistato più della metà del paese.
Il terrorismo non colpisce il mondo occidentale da quasi tre anni. Anche in Israele si rispetta ormai una tregua di fatto negli attentati che dura da quasi trenta mesi. Al contrario, ad onta di chi crede che il terrorismo sia una partita giocata a due fra religioni o civiltà, i principali bersagli del terrorismo islamico di quest’anno sono paesi musulmani o comunque stati dell’Asia o dell’Africa. Il Pakistan è stato il paese più preso di mira con sette grandi attentati e quasi trecentocinquanta vittime seguito dall’India con quattro grandi attentati e poco meno di trecento vittime e poi dalla Turchia e dall’Algeria.
Il 2008 è stato anche l’anno delle persecuzioni contro i cristiani. In India da agosto ad ottobre sono state uccise una trentina di persone, distrutte 41 chiese e 457 case religiose. In Iraq sono state lanciate bombe contro le chiese a Mossul e a Bagdad e dodicimila cristiani hanno dovuto abbandonare le loro case. Le violenze anticristiane si sono estese al Pakistan e alla Somalia.
L’Ufficio internazionale del lavoro ha già previsto per l’anno prossimo come conseguenza della crisi a livello mondiale 210 milioni di disoccupati in più cominciando dai lavoratori precari, dai più anziani e dai meno qualificati. L’esodo è già cominciato: le case automobilistiche General Motors, Fiat, Peugeut-Citroen, Honda, Nissan hanno già licenziato o messo in ferie o in cassa integrazione migliaia di dipendenti.
Nel cuore della crisi non possono essere ignorati due fatti importanti di questo anno che sono il segnale delle sfide e dei drammi che la popolazione del pianeta ha ancora davanti. Nel 2008 per la prima volta la popolazione mondiale che vive nelle città ha superato quella che vive in campagna. Il volto del mondo prende sempre più l’aspetto di enormi agglomerati urbani come Tokio, Mexico, Bombay, Dacca, San Paulo, Karachi, tutte città che superano già i venti milioni di abitanti. Nel frattempo la Fao ci ha informato che il numero degli affamati nel mondo aumenta anziché diminuire arrivando ormai a 936 milioni. (Qualcuno forse ricorderà che nel 1996 ci si era impegnati a dimezzare il numero dei sottoalimentari entro il 2015 cioè in pratica a ridurli in media di 22 milioni ogni anno). Ed è da prevedere che la crisi economica sarà invocata non per aumentare, ma addirittura per diminuire gli aiuti al terzo Mondo.
Il grande fatto nuovo del 2008 è naturalmente l’elezione di un nero alla Casa Bianca. Per il momento, per l’autoidentificazione che la sua figura ha provocato fra le popolazioni di colore del pianeta Barak Obama sembra appartenere al mondo oltre che agli Stati Uniti. Per la sua carta d’identità egli sembra rappresentare l’America e in genere il mondo dei bianchi, ma per la sua pelle è sentito come rappresentante non solo dell’Africa, ma anche di tutto il resto del pianeta. Il neopresidente americano gode quindi di una popolarità enorme a livello mondiale che qualcuno ha creduto di potere quantificare in un consenso dell’ottanta per cento. C’è anche chi, ricordando che il suo secondo nome è Hussein, cioè quello del nipote di Maometto, ha scritto che perfino questo dettaglio potrebbe costituire un buon biglietto da visita per il mondo musulmano. I prossimi mesi ci diranno come Obama riuscirà a spendere questa enorme carica di simpatia che la sua figura ha capitalizzato.
Il nuovo inquilino della Casa Bianca è in una ottima posizione sia per migliorare i rapporti non solo con l’Africa e con l’America Latina, ma anche con l’Europa e forse anche con la Russia e con i paesi asiatici. E tuttavia al di là delle premesse ottime i problemi che si troverà davanti rimangono quelli che sono. Il neopresidente si è impegnato a ritirare le truppe dall’Iraq in sedici mesi e nel frattempo ad aumentare in Afghanistan dove tuttavia appare sempre più ineludibile la via dell’accordo con i talebani moderati come unica via d’uscita. Nei confronti dell’Iran e delle sue velleità nucleari che senza dubbio costituirà la sua prova più difficile e rischiosa dell’Obama si è spinto fino a teorizzare una trattativa senza condizioni. Cioè, detto in parole povere, fino a mettere in conto il riconoscimento vero e senza tentativi di rovesciamento del regime degli ayatollah che oramai ha trenta anni se rinuncia ai suoi progetti nucleari. Resta da vedere se questa apertura sarà sufficiente a disarmare l’Iran senza una spinta verso il disarmo atomico generale e senza nel frattempo una soluzione del problema palestinese che riesca disamare almeno in parte l’aggressività antisraeliana dell’Iran attuale. Ed ogni impegno serio di Obama sul piano della politica esterna presuppone intanto che la crisi economica interna migliori almeno quel tanto necessario a lasciargli il tempo di pensare ad altro.