Cultura & Società

Umberto Cecchi: «Vi racconto Oriana libera e incompresa»

Non ha dubbi, Umberto Cecchi: Oriana Fallaci è stata trattata come il Savonarola: «Bruciata nella memoria dei suoi fiorentini: un po’ per ignoranza, un po’ per uno sciocco adeguarsi alla comoda morale corrente, al buonismo ipocrita che vuole che certe cose si pensino ma non si dicano e ancor meno si scrivano. Un po’ per acquiescenza, per una paura strisciante di andare contro una certa politica di sinistra…Contro la resa incondizionata della nostra fede e cultura occidentale di fronte a qualsiasi altra fede o cultura. Nel caso specifico di Oriana erano la fede e la cultura islamica, quella fondamentalista». A sette anni dalla morte della grande scrittrice – che tanto amava Malaparte e Céline – Cecchi attende ancora da Firenze un gesto riparatore. Intanto le ha dedicato un libro-ritratto molto originale, che fa già discutere.

Umberto Cecchi, perché hai voluto raccontare la tua amicizia con Oriana Fallaci sotto forma di romanzo?

«I motivi sono due. Perché Oriana è un personaggio da romanzo, come Maugham, o Malaparte, o Kapa. Come imprigionarli in un saggio? Vivono molto meglio nei ricordi, e siccome molto spesso la memoria ci inganna, rivivono nella sottile bellezza di certi inganni. L’altro motivo è più facile da spiegare: perché lei mi aveva chiesto, tanti anni fa, di non scrivere una lunghissima intervista che mi aveva rilasciato, ma piuttosto, a suo tempo, di farne un racconto. E così è stato. Scriverlo è stato come essere di nuovo con lei, fra lunghi silenzi e dialoghi graffianti. Qualche volta feroci».

Ti ritrovi nell’interpretazione di Franco Cardini che nella sua stupenda introduzione definisce il tuo «un dialogo di morte e anche di amore»?

«Bello quel passo, come tutta l’introduzione. Franco è un maestro. Io però direi “di morte e d’affetto” qualcosa di diverso dall’amore».

Ma com’era l’Oriana che hai conosciuto all’Università?

«Ero io all’Università. Lei era già una signora giornalista. Era impaziente della vita, curiosa, giocava con la gente come il gatto con il topo. E lo stesso fece con me fin dal primo giorno, quando la incontrai per caso al “Mattino” di Firenze e le detti un passaggio. Era convinta che fossi un giovane giornalista che cercava le sue simpatie. Quando seppe che non era così, si sciolse. Da quel giorno nacque una sorta di amicizia fra due che non dovevano né dare né ricevere nulla l’uno dall’altro. Poi molte cose cambiarono: anch’io feci il giornalista, grazie a Enrico Mattei e a Gastone De Anna. Ma lei fece finta che questa cosa non fosse mai accaduta. “Non voglio essere mai la tua maestra – mi disse – Mai. Sbaglia da solo”».

Antipatia a parte, la consideri anche uno dei più grandi inviati e scrittori del Novecento? Ha intervistato i Grandi del mondo, ha raccontato le avventure, come e quando ha espresso il meglio di sé?

«L’antipatia la rendeva simpatica, qualche volta. Bastava intuire quel che aveva dentro, sapeva d’essere brava e sapeva che ogni articolo le costava gran lavoro e fatica. Per questo era antipatica con chi si credeva un Burton che aveva ritrovato Livingstone senza muoversi da casa. Nessuno ha fatto interviste come le sue. Pochi hanno “spogliato” i potenti – da Khomeini a Kissinger ad Arafat – come ha fatto irriverentemente lei. Ma “Lettera a un bambino mai nato” ha una forza narrativa e psicologica insuperabile. E il Vietnam di Oriana è diverso da tutti i Vietnam descritti da altri giornalisti. Lei lo aveva odiato e amato, lo aveva sofferto davvero, non lo aveva visto e basta, il Vietnam».

Tra i colleghi ricorrono spesso invidia, spirito di concorrenza ed emulazione. Hai provato a volte questi sentimenti per la Fallaci? Ti ha «rubato» mai qualche scoop?

«Per carità. Mai. L’invidia è sempre quella di coloro che non c’erano, o, se c’erano, era come non ci fossero. Ai tempi in cui Oriana era l’italiana del “Times”, tutti la temevano, anche i generali. Soprattutto i generali. Lei ordinava e loro obbedivano, perché sapeva che a un militare si dà un ordine, non si chiede un favore. Scoop rubati? Mai. Una sola volta – mi confessò poi – mi temette. Quando io, per strani motivi, ero a Kuwait City durante il decennale della liberazione, assieme a Bush senior – quello bravo – alla Thatcher, al presidente argentino Menem, e altri potenti della terra, a pranzo alla tavola dell’Emiro Al Sabat assieme al mio amico e collega Pierandrea Vanni e lei non c’era».

Anche tu hai viaggiato molto. A volte vi siete trovati insieme nel mezzo di una guerra. Qualche piccolo aneddoto che non hai raccontato nel tuo romanzo?

«A parte la notte allucinante e feroce in cui fu “generato” il suo “Inscialla”, come racconto nel libro, c’è una cosa che ricordo spesso con affetto e dolore: Oriana imbrattata di fango, a Bassora, che tiene la mano a un bambino morto, e fuma. Piange e mi dice: “Il fumo mi fa lacrimare, maledetto che è”. Poi: “Perché Dio permette questo, qualunque dio esso sia”? A un colonnello americano tutto armi e mimetica che le ordinava di allontanarsi perché lì era pericoloso: “Colonnello – disse – si sposti, mi fa ombra”».

Molti hanno criticato l’ultima Fallaci, quella delle polemiche sull’Islam che ha infiammato anche Firenze. Tu da che parte stavi, condividevi i suoi articoli o eri schierato con Cardini?

«Domanda difficile. Ero d’accordo con Oriana sulla storia dei somali che facevano pipì al muro del Battistero. Era inaccettabile dal punto di vista artistico, igienico e da quello del rispetto religioso. Il crollo delle Torri Gemelle, poi, la colse in un momento di grande solitudine e di profonda spossatezza; quasi nascosta al mondo, che cercava di evitare. Reagì allo stesso modo in cui in tutto l’Islam, quello colto e quello incolto, plaudì alle migliaia di morti. Maledisse gli assassini, ma lo fece solo a parole. Diceva: “Mi vogliono occupare l’anima”. E non voleva cederla, la sua anima, sulla quale spesso aveva da ridire. Mi disse: “La mia libertà d’espressione è la stessa di quello che loro sostengono essere la loro libertà di ribellione: uccidere chi capita. Io, però, non uccido, scrivo”. Non farmi discutere con Cardini: siamo stati a scuola insieme e per me è come un fratello».

Oriana Fallaci ha spesso criticato la Chiesa, ma vivendo in America ha avuto un intenso rapporto epistolare con il vescovo Rino Fisichella, che l’ha tenuta per mano nell’ultimo percorso di vita. Solo amicizia o un accostamento alla fede?

«Oriana, ne sono convinto, aveva un suo dio. Insomma era troppo intelligente per essere atea. Ma era troppo compos sui per aprirsi alla curiosità della gente. Fisichella sarà certo più capace di me di rispondere a questa tua domanda. Ma posso azzardare che una soffio di fede in lei c’era. E non chiedermi perché lo dico: “Non ti risponderei”».

Firenze non l’ha mai amata, anche se Oriana è stata un’eroina della Resistenza. Perché questo ostracismo continua ancora oggi?

«Per incultura. Per le mode politiche, che sono le peggiori. Come dire che Koestler era un cattivo scrittore perché lasciò il comunismo. O che Céline era un analfabeta perché aveva appoggiato il nazifascismo. Che c’entra la politica con la buona scrittura o pittura? Lo stesso Gramsci aveva cercato di smontare questo genere di critica marxista. Ma, come vedi, è assurdamente ancora viva. Oriana è brava, e basta. Non solo, Oriana è sempre stata una donna di sinistra, libera. Non si faceva imporre idee, seguiva le sue».

Anche tu hai visitato e raccontato il mondo, le sue sofferenze sul giornale ed in tanti libri. Cosa più ti ha impressionato?

«I bambini. La quieta disperazione dei bambini. La loro morte come denuncia della non intelligenza dell’uomo. In una capanna al confine fra Sudan e Uganda, ce n’erano una decina, neonati. Era passato Erode: uccisi coi machete. Ebbi l’impressione che quella volta avessero ucciso anche il Bambino Gesù».

Non solo passione per i viaggi, per la cultura e il teatro in particolare. Come presidente del «Metastasio» di Prato che obiettivi ti proponi?

«Farne un teatro europeo. Un piccolo passo per cercare di tenere assieme questo continente stravecchio e un po’ arteriosclerotico, ma anche padre della cultura Occidentale».

Ma ritorneranno o resteranno solo un ricordo gli anni d’oro del Fabbricone con Luca Ronconi, Carlo Lizzani, Wajda e Kantor; oppure l’esperienza successiva con la direzione artistica di Gabriele Lavia?

«C’era una volta un teatro con grandi registi e grandi attori. Ho paura che pian piano si stia perdendo la grandezza del Novecento. Mancano i drammaturghi, molti si improvvisano registi e troppi vogliono far l’attore senza aver faticato per studiare. Ma non disperiamo».

Nella tua lunga carriera di inviato e direttore de «La Nazione», c’è stata anche una parentesi politica come parlamentare. Qualche rimpianto?

«Sì, quello di non aver saputo subito dire di no. A Montecitorio ho avuto grandi esperienze come presidente di commissione, in giro per il mondo. Ma vuoi mettere fare il giornalista?».

 

La scheda

In medico mancato. Ma, in compenso, un giornalista in più. E che fior di giornalista! Pistoiese di nascita (1 agosto 1940), allievo agli Scolopi di padre Ernesto Balducci, si è ben presto trasferito a Prato, subito affascinato dal mito di Curzio Malaparte. Il poliedrico e controverso autore di «Maledetti toscani» e de «La pelle» è stato sempre il suo modello di scrittore.

Umberto Cecchi non l’ha mai nascosto alla sua «covata», alle molte «penne» di belle speranze che ruotavano attorno alla locale redazione de «La Nazione» tra la fine degli Anni Sessanta ed i primi Anni Settanta: talenti puri come Piero Paoli (capo brigata, il più pratese di tutti!) e Riccardo Berti, ai colleghi «in appoggio» che arrivavano da Firenze (portavano il nome pesante di Mauro Mancini e Giampiero Masieri), per non parlare dei più giovani Piero Gherardeschi e Riccardo Mazzoni, che hanno visto lievitare Umberto come «guida» prima che realizzasse la sua aspirazione di «inviato» imitando il «tandem delle meraviglie» Paoli-Berti. Già a Prato Cecchi sfuggiva alla «routine» della cronachetta quotidiana per occuparsi delle vicende comunali, delle strategie espansive allora vincenti della Cassa di Risparmio targata Bambagioni & Prospero e dei fasti del Teatro Metastasio, che già si segnalava come il termometro della salute di una città che ha sempre legato le sue fortune al tessile. E programmava lunghi ed avventurosi viaggi all’estero, attratto soprattutto dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina.

A Firenze ha dovuto fare la sua brava «gavetta» come Capocronista (mio successore) ai tempi del Mostro e nella macchina del giornale, prima di inseguire sulle rotte del mondo la sua egocentrica e affascinante amica Oriana Fallaci. Insieme sono stati in Libano; poi Umberto con coinvolgenti reportages ci ha raccontato l’eccidio di piazza Tienammen, la Cambogia di Pol Pot, Da incorniciare le sue interviste a Borges, a Nelson Mandela, al generale Giap, vincitore di Diem Bien Phu; a Julius Nierere e Sam Nunjoma presidenti della Tanzania e della Namibia. E ancora a Pinochet, Amin Dadà, Siad Barre, Deng, Arafat, l’iraniano Kathami, a Bush padre, allo Sceicco del Kuwait dopo la Guerra del Golfo e l’invasione da parte di Saddam Hussein.

Incontri, esperienze e materiale per scrivere una ventina di libri. Ricordo a memoria La luna di Harar (edito da Mondadori), Sulla via dorata per Samarcanda (Vallecchi, premio Firenze e Fiorino d’oro), Le ceneri del Baobab (Vallecchi, premio Coluccio Salutati), Oltre l’Oriente, su Vietnam, Cambogia, Cina e Mongolia (premio europeo Lorenzo il Magnifico) Tibet (idea libri), Vietnam, il risveglio del drago (Touring Club), Sulla via della seta (Il Golfo dei poeti). Fino a quest’ultimo inedito e toccante ritratto di una delle migliori scrittrici del Novecento Oriana Fallaci. Cercami dov’è il dolore (Mauro Pagliai editore, pp. 320 , euro 13). Che va letto seguendo il consiglio dello storico delle Crociate Franco Cardini, colto e spassoso: «Non si deve affrontare il libro di Umberto Cecchi chiedendoci quanto in esso vi sia di “saggio”, quindi di riflessione critica, quanto di “ricordo”, quindi di esposizione di fatti reali, guidata dalla memoria, quanto di “romanzo”, quindi di “invenzione, immaginazione, fantasia”». Umberto è stato uno dei miei direttori; per anni gli ho fatto da umile spalla come vice: non mi sono mai chiesto quali fossero i confini della sua creatività, forse illimitata. Che ora non si espande solo su giornali e riviste, in televisione, parlando e scrivendo anche di arte contemporanea, ma dovrebbe consentirgli di aprire un nuovo ciclo virtuoso al «suo» Metastasio.