Italia
Ugo De Siervo, il «custode» della Carta
di Claudio Turrini
«Quando in Italia si scelse di avere una giustizia costituzionale si discusse molto, perché era uno dei primi casi. Adesso, a distanza di 60 anni, quasi tutte le democrazie si sono dotate di una Corte. Perché non basta tutelare il cittadino nell’applicazione della legge. Occorre anche vigilare che le forze politiche maggioritarie rispettino i valori fondanti del patto». Ugo De Siervo (nella foto), da pochi giorni vicepresidente della Consulta, ci tiene subito a ribadire che il lavoro che sta svolgendo a Roma, da sette anni, è forse oscuro, ma importantissimo per la democrazia. Essenzialmente due le funzioni della Corte: giudicare i dubbi di legittimità costituzionale che i giudici ordinari sollevano sulle leggi che devono applicare e risolvere i conflitti tra stato e regioni e tra i massimi poteri dello Stato.
Professore, come lavora la Corte costituzionale?
«La Corte è un organo collegiale, composto da 15 giudici, che in un anno riesce a fare 4-500 giudizi. Nessun giudice si muove da solo. Ciascuna questione è istruita da un giudice, ma poi tutto viene portato alla decisione del collegio».
Qual è il vostro ritmo di lavoro?
«Per una settimana lavoriamo collegialmente, cioè prendiamo le decisioni, correggiamo, integriamo. Nell’altra settimana, invece, i giudici lavorano da soli, con i loro collaboratori più stretti, preparando le questioni che verranno discusse la settimana successiva. Quindi non solo uno deve essere molto preparato su quello su cui riferirà lui, ma deve anche prepararsi su tutte le questioni che gli altri giudici stanno istruendo. In più poi in questa settimana deve scrivere le sentenze e le ordinanze della Corte. La Corte giudica sempre due volte sulla stessa questione: prima decide cosa fare e poi approva il dispositivo della sentenza. E questo allunga i tempi».
Questo vuol dire stare molto tempo a Roma?
«Passiamo a Roma almeno 5 giorni nella settimana di lavoro collegiale e un paio di giorni anche nell’altra settimana. Malgrado internet, la posta elettronica, i pacchi spediti avanti indietro Abbiamo necessità continua anche di lavorare in biblioteca in archivio».
Ogni giudice ha un suo staff?
«Abbiamo tre assistenti, che sono tre magistrati o professori universitari che ci aiutano. Ogni settimana giudichiamo da 30 a 40 questioni diverse. Di queste due, magari, le devo istruire io. Le altre le istruiscono gli altri giudici. Allora devo poter predisporre sui miei temi delle ricerche che vanno dalle 200 anche a migliaia di pagine. Queste ricerche vanno poi distribuite agli altri giudici. Per cui ogni quindici giorni ricevo, o faccio, una quarantina di ricerche. E le devo poi leggere e considerare».
Da solo sarebbe impossibile…
«Infatti. Gli assistenti servono a preparare le ricerche e poi a dare una prima lettura alle ricerche altrui, compilando delle schede (se la questione è pacifica, se è complicata…). Oltre agli assistenti abbiamo poi dei funzionari che ci fanno da segreteria. Dopodiché c’è la struttura della Corte, che è piccola ma molto specializzata e ben funzionante. Complessivamente circa 200 persone che ci mettono a disposizione enormi archivi, una bellissima biblioteca giuridica… Insomma quello che ci serve».
E quando c’è un dissenso tra i giudici, cosa succede?
«Si vota. Normalmente dopo un’illustrazione iniziale ci si intende. Anche se ci sono dei dissensi limitati, va bene. Quando le cose sono più incerte, invece, si vota, ad alzata di mano».
E conta la maggioranza semplice?
«Sì. La Corte, soprattutto sulle grosse questioni, cerca di trovare soluzioni che vadano bene ad una maggioranza larga. Non è un organo in cui ci sono schieramenti precostituiti… cambiano sempre le maggioranze, a seconda dei temi, delle sensibilità, dei problemi…».
Ma se il dissenso grave persiste?
«L’unico caso di dissenso che esiste è quando il giudice relatore, quello che porta la questione in discussione, rimane non solo in minoranza cosa che capita spesso ma si rifiuta anche di scrivere la sentenza. Ma sono casi rari. In sette anni una sola volta non ho scritto la sentenza, ma varie volte sono stato in minoranza. E ho scritto al posto di miei colleghi tre sentenze, perché loro non se la sentivano».
Quanto conta per un giudice costituzionale essere un cattolico?
«Non dovrebbe contare nulla, perché lì siamo tutti giudici eguali. Poi, probabilmente, provenire da una fede o da una certa tradizione culturale porta maggiori sensibilità per alcune tematiche. Ma tutto qui».
Qual è il ruolo del vicepresidente?
«Il vicepresidente ha solo una funzione vicaria, di sostituire in caso di necessità, il presidente. Però avviene raramente. Di fatto collabora più strettamente col presidente per tutte le questioni organizzative».
E quello del presidente?
«Il potere vero del presidente è la determinazione dell’ordine del giorno, cioè cosa si discute e qual è il relatore. In questo c’è un minimo di discrezionalità. Soprattutto nel mettere all’ordine del giorno le questioni. Perché poi i relatori in genere vanno un po’ per materia. Ciascuno di noi è specializzato in certe questioni. Per cui se io mi sono occupato, per esempio, di condono edilizio una volta, tutte le questioni successive su questo tema vengono assegnate a me».
Dopo la riforma del Titolo V è aumentata la conflittualità tra Stato e Regioni?
«Sì è aumentata molto. Il vero problema è che questo titolo V che forse avrebbe dovuto essere scritto meglio in alcune sue parti non è stato specificato da leggi successive che riducessero le possibilità di conflitto. La Corte si è trovata lei investita di molte questioni che sinceramente potevano essere risolte altrimenti. In più negli ultimi anni, data la difficoltà del sistema politico, è anche abbastanza cresciuto il peso dei conflitti non legislativi, ma tra i poteri supremi dello Stato, come tra Parlamento e magistratura E questo rende più difficile il lavoro perché su queste cose c’è un tasso di politicità maggiore che sulle leggi».
Come nel caso Englaro…
«È stato un caso molto strano. Era la prima volta che il Parlamento contestava l’autorità giudiziaria di essersi sostituita al potere legislativo. E la Corte non ha ammesso il conflitto perché ci sembrava che il Parlamento doveva far lui la legge, piuttosto che lagnarsi che nell’assenza della propria attività fosse intervenuta la magistratura. La prossima settimana dovremo decidere sul delicato caso di Abu Omar. Quella scorsa abbiamo avuto il conflitto sulla revoca di Petroni al Consiglio di amministrazione della Rai».
Riesce la Corte a tener dietro a tutte le richieste di costituzionalità?
«C’è un arretrato fisiologico. La Corte lavora molto intensamente e ci tiene a non creare arretrati e a dare risposte relativamente sollecite. In media un anno da quando viene sollevata la questione alla sentenza».
Lei era già un grande studioso della Costituzione. Adesso da «custode» come la giudica?
«La Carta costituzionale si dimostra moderna, adeguata alla società. In questi 60 anni ha retto bene. Semmai le parti più deboli, sono curiosamente quelle riviste più di recente. Come la riforma del Titolo V, che è stata lasciata a mezzo, non completata. E poi cosa non funziona bene? Quello che noi chiamiamo la forma di governo, cioè il rapporto tra gli organi legislativo, esecutivo…. Il sistema funziona molto faticosamente. Ci vorrebbero quei famosi aggiustamenti che tutti dicono di voler fare ma che nessuno fa».
E funziona il meccanismo di revisione costituzionale?
«La revisione non è difficile, basta votare lo stesso testo due volte a maggioranza assoluta. Ma le forze politiche dovrebbero stare molto attente quando toccano la Carta. E invece tendono ad usare la revisione a scopo politicizzato. E allora capitano questi incidenti come la grande revisione del 2006 che è stata respinta dal referendum popolare. Fare le grandi riforme costituzionali a colpi di maggioranza è molto pericoloso, perché poi si scatena nel Paese questo potere di veto».
Lei è anche un grande studioso di La Pira. Si avverte ancora nel dibattito costituzionale il suo apporto?
«Sicuramente la parte più viva e vitale della Costituzione sono i principi fondamentali quindi il rispetto della persona e dei gruppi sociali . Ma anche l’altra parte su cui La Pira lavorò, con Fanfani e tanti altri: quello di una democrazia sociale, non neutrale dinanzi ai conflitti, agli ultimi, alle fasce sociali più deboli. Anni fa sembrava che si andasse verso una società neo liberal liberista. Adesso con la crisi economica e finanziaria mondiale le teorizzazioni esasperate stanno scomparendo e sta riemegendo in modo adeguato che lo Stato non può essere neautrale di fronte ai problemi della gente, soprattutto delle fasce sociali più deboli».