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Uganda, un popolo diviso da tribalismo e fedi religiose
Sudan e Uganda. Domenica scorsa il Papa ha lanciato un appello perché la comunità internazionale non dimentichi l’Africa e in particolare questi due paesi sconvolti dalla guerra.
«La nostra storia è molto legata a quella del Sudan. I due governi non lo ammettono, ma tutti sanno che l’Uganda appoggia i neri del Sudan contro gli arabi che voglio islamizzarli e il Sudan cerca di destabilizzare l’Uganda attraverso l’esercito di liberazione del signore al nord».
Da cosa nascono questi conflitti, che pervadono, del resto, tutta l’Africa?
«Il motivo di fondo è il tribalismo, una realtà difficile da capire. Oggi è di moda dare tutte le colpe alle potenze coloniali. È vero, hanno messo insieme realtà tribali diverse che non riescono a convivere ma non era neanche pensabile far nascere un milione di piccoli staterelli. In Uganda mettere insieme i bantu, con una struttura sociale elevata, con niloti e nilocamitici, guerrieri, senza una struttura definita, è stato un disastro. C’è questa consapevolezza di essere neri, però poi la tribu vicina è tua nemica».
La stragrande maggioranza degli ugandesi è cristiana, ma divisa tra cattolici e protestanti. È motivo di unione o di ulteriori divisioni?
«La religione è stata un problema, anche se poi come in Irlanda del Nord i motivi di attrito sono principalmente politici. Da sempre si dice che in Uganda, se vuoi essere ricco devi essere musulmano, se vuoi essere potente devi essere protestante, e se sei povero sei cattolico. L’unico presidente eletto in Uganda era un cattolico, ma gli inglesi con un golpe hanno messo al suo posto il dittatore Amin, un musulmano. Ci sono ancora conflitti terribili tra cattolici e protestanti, a livello di guerra aperta, arrivando anche ad uccidere».
E con l’Islam la convivenza com’è?
«Difficile. Parliamo due linguaggi diversi. Per noi dialogo è accogliere, favorire e integrare le persone, per loro è un segno di debolezza. Noi comboniani abbiamo l’unica parrocchia ugandese a maggioranza musulmana e sono guai seri. Fino a vent’anni fa stavano buoni nella loro zona, chiusi in un loro ghetto. Piano piano hanno cominciato a spostarsi verso il capoluogo Arua, e hanno preso in mano l’economia. I musulmani quando sono pochi si integrano facilmente, e sono anche affidabili: in una zona della mia parrocchia c’era un solo musulmano, che aveva sposato una cattolica e ci ha dato un pezzo di terra per costruire la cappella. Ma un chilometro più in là c’è una moschea e i conflitti già aumentano. Quando sono in gruppo diventano intolleranti. Hanno ucciso catechisti, li hanno minacciati, hanno tirato via un nostro padre dall’altare mentre celebrava».
È ottimista o pessimista sulle possibilità di rinascita del continente africano?
«In tempi brevi la vedo brutta. In tempi lunghi no. Quando si dice che l’Africa sta vivendo il nostro medio evo penso che sia un po’ vero».
Come sono visti gli occidentali?
«L’Uganda non è mai stata un colonia, era un protettorato, e gli occidentali sono ben visti. Anzi, talvolta tocca a noi metterli in guardia che non tutti i bianchi sono… dei missionari».
Dal punto di vista dell’evangelizzazione come vanno le cose?
«La tribu influenza veramente tutto. L’evangelizzazione ha dato molti frutti con alcune tribu e non in altre, non perché i metodi erano diversi, ma perché le tribu erano diverse. Ci sono diocesi con tante vocazioni e famiglie veramente in gamba, altre da sempre sono un disastro».
C’è una predisposizione al trascendente?
«Si dice che l’africano è una persona religiosa, ma non è vero. Almeno non per tutti gli africani. Ci sono tribu dove il sentire religioso è molto povero».
C’è un laicato sul quale potete contare?
«Sì, noi abbiamo ad esempio i catechisti che sono un po’ come dei parroci: persone che lavorano a tempo pieno, fanno il 90% del lavoro pastorale. Sono uomini, sposati, anche se poi tutta la famiglia viene coinvolta».
Quali sono le sfide che come Chiesa avete davanti?
«Siamo in un momento di cambiamento epocale in cui i valori non reggono più e i giovani seguono la cultura consumistica americana. In alcuni luoghi il matrimonio è una sfida, hanno paura. La poligamia è stata portata dai musulmani, adesso è diventato un segno di potere. Poi c’è la promiscuità che ha alimentato anche l’Aids, un’emergenza gestita molto male dal governo che ha puntato solo sui profilattici, sul sesso sicuro. Una volta la verginità era un valore e questa cultura capiva bene anche i voti religiosi, di castità, povertà e obbedienza».
La stregoneria è ancora forte?
«Anche questo dipende molto dalla tribu. Nella parrocchia dove ho lavorato non c’era. In altre invece è una piaga. Ed è una forza disgregante perché, ad esempio, quando muore qualcuno si cerca sempre il colpevole e gli stregoni incolpano qualcuno della famiglia… Si fanno ancora sacrifici umani, per costruire una casa: si dice che sotto ogni edificio di Kampala c’è una testa, ed è molto probabile».
In un paese povero come l’Uganda, chi sono i più poveri?
«L’Uganda non è un paese povero, anche se al sud si sta molto meglio, mentre il nord è più arretrato, specie dove è flagellato dalla guerra. In Africa non ci sono anziani abbandonati, né orfani, perché nella struttura del clan non esistono parole come zio, zia, cugino o cugina, ma si è soltanto papà e mamma e fratello e sorella, quindi mio zio è mio padre e se i miei genitori muoiono, non perdo la famiglia. L’Aids però ha creato un grosso squilibrio: magari si ritrovano i nonni con 20 o 30 orfani. I poveri si trovano o nelle zone di guerra o nelle città, nelle bidonville, dove la gente va, sperando nell’opportunità che non arriva mai».
C’è il rischio di un’emigrazione di massa?
«Purtroppo sì. Il sogno è quello di studiare e poi andarsene in Canada, in Usa o in Inghilterra. Per porvi un freno sono stati contingentati i visti (solo 25 al giorno) e la gente si mette in coda per giorni, rimanendo lì anche la notte. Quando c’è stata la giornata mondiale dei giovani in Canada, su un centinaio di giovani ugandesi, la metà non è rientrata».
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