Italia

Uganda, un popolo diviso da tribalismo e fedi religiose

di Claudio Turrini«Gli africani stessi non credono all’Africa. Ci crediamo più noi missionari. Non si fidano neanche tra di loro. Tutto il circondario è fatto di parenti, ma non riescono a mettersi insieme neanche per lavorare o commerciare». Padre Maurizio Balducci (nella foto), fiorentino, missionario comboniano da dieci anni in Uganda, ama l’Africa, ma non si nasconde dietro lo stereotipo del «buon selvaggio», oppresso dagli occidentali. Come missionario all’inizio ha lavorato al nord, in una zona vicino al Congo, poi si è occupato di pastorale vocazionale per tutto il paese, mentre ultimamente era al sud, ad Arua. Amico di padre Luciano Fulvi, il comboniano originario di Uzzano (diocesi di Pescia), ucciso alla fine di marzo a Gulu nel corso di una rapina, in circostanze non ancora chiarite, è ancora scosso da quell’avvenimento. Dopo un corso di formazione in Messico sembra destinato a tornare in Uganda per occuparsi di una scuola per catechisti, che per come è organizzata la Chiesa africana, riveste una grande importanza. Lo abbiamo incontrato a Firenze, dove è rientrato per qualche settimana.

Sudan e Uganda. Domenica scorsa il Papa ha lanciato un appello perché la comunità internazionale non dimentichi l’Africa e in particolare questi due paesi sconvolti dalla guerra.

«La nostra storia è molto legata a quella del Sudan. I due governi non lo ammettono, ma tutti sanno che l’Uganda appoggia i neri del Sudan contro gli arabi che voglio islamizzarli e il Sudan cerca di destabilizzare l’Uganda attraverso l’esercito di liberazione del signore al nord».

Da cosa nascono questi conflitti, che pervadono, del resto, tutta l’Africa?

«Il motivo di fondo è il tribalismo, una realtà difficile da capire. Oggi è di moda dare tutte le colpe alle potenze coloniali. È vero, hanno messo insieme realtà tribali diverse che non riescono a convivere ma non era neanche pensabile far nascere un milione di piccoli staterelli. In Uganda mettere insieme i bantu, con una struttura sociale elevata, con niloti e nilocamitici, guerrieri, senza una struttura definita, è stato un disastro. C’è questa consapevolezza di essere neri, però poi la tribu vicina è tua nemica».

La stragrande maggioranza degli ugandesi è cristiana, ma divisa tra cattolici e protestanti. È motivo di unione o di ulteriori divisioni?

«La religione è stata un problema, anche se poi – come in Irlanda del Nord – i motivi di attrito sono principalmente politici. Da sempre si dice che in Uganda, se vuoi essere ricco devi essere musulmano, se vuoi essere potente devi essere protestante, e se sei povero sei cattolico. L’unico presidente eletto in Uganda era un cattolico, ma gli inglesi con un golpe hanno messo al suo posto il dittatore Amin, un musulmano. Ci sono ancora conflitti terribili tra cattolici e protestanti, a livello di guerra aperta, arrivando anche ad uccidere».

E con l’Islam la convivenza com’è?

«Difficile. Parliamo due linguaggi diversi. Per noi dialogo è accogliere, favorire e integrare le persone, per loro è un segno di debolezza. Noi comboniani abbiamo l’unica parrocchia ugandese a maggioranza musulmana e sono guai seri. Fino a vent’anni fa stavano buoni nella loro zona, chiusi in un loro ghetto. Piano piano hanno cominciato a spostarsi verso il capoluogo Arua, e hanno preso in mano l’economia. I musulmani quando sono pochi si integrano facilmente, e sono anche affidabili: in una zona della mia parrocchia c’era un solo musulmano, che aveva sposato una cattolica e ci ha dato un pezzo di terra per costruire la cappella. Ma un chilometro più in là c’è una moschea e i conflitti già aumentano. Quando sono in gruppo diventano intolleranti. Hanno ucciso catechisti, li hanno minacciati, hanno tirato via un nostro padre dall’altare mentre celebrava».

È ottimista o pessimista sulle possibilità di rinascita del continente africano?

«In tempi brevi la vedo brutta. In tempi lunghi no. Quando si dice che l’Africa sta vivendo il nostro medio evo penso che sia un po’ vero».

Come sono visti gli occidentali?

«L’Uganda non è mai stata un colonia, era un protettorato, e gli occidentali sono ben visti. Anzi, talvolta tocca a noi metterli in guardia che non tutti i bianchi sono… dei missionari».

Dal punto di vista dell’evangelizzazione come vanno le cose?

«La tribu influenza veramente tutto. L’evangelizzazione ha dato molti frutti con alcune tribu e non in altre, non perché i metodi erano diversi, ma perché le tribu erano diverse. Ci sono diocesi con tante vocazioni e famiglie veramente in gamba, altre da sempre sono un disastro».

C’è una predisposizione al trascendente?

«Si dice che l’africano è una persona religiosa, ma non è vero. Almeno non per tutti gli africani. Ci sono tribu dove il sentire religioso è molto povero».

C’è un laicato sul quale potete contare?

«Sì, noi abbiamo ad esempio i catechisti che sono un po’ come dei parroci: persone che lavorano a tempo pieno, fanno il 90% del lavoro pastorale. Sono uomini, sposati, anche se poi tutta la famiglia viene coinvolta».

Quali sono le sfide che come Chiesa avete davanti?

«Siamo in un momento di cambiamento epocale in cui i valori non reggono più e i giovani seguono la cultura consumistica americana. In alcuni luoghi il matrimonio è una sfida, hanno paura. La poligamia è stata portata dai musulmani, adesso è diventato un segno di potere. Poi c’è la promiscuità che ha alimentato anche l’Aids, un’emergenza gestita molto male dal governo che ha puntato solo sui profilattici, sul “sesso sicuro”. Una volta la verginità era un valore e questa cultura capiva bene anche i voti religiosi, di castità, povertà e obbedienza».

La stregoneria è ancora forte?

«Anche questo dipende molto dalla tribu. Nella parrocchia dove ho lavorato non c’era. In altre invece è una piaga. Ed è una forza disgregante perché, ad esempio, quando muore qualcuno si cerca sempre il colpevole e gli stregoni incolpano qualcuno della famiglia… Si fanno ancora sacrifici umani, per costruire una casa: si dice che sotto ogni edificio di Kampala c’è una testa, ed è molto probabile».

In un paese povero come l’Uganda, chi sono i più poveri?

«L’Uganda non è un paese povero, anche se al sud si sta molto meglio, mentre il nord è più arretrato, specie dove è flagellato dalla guerra. In Africa non ci sono anziani abbandonati, né orfani, perché nella struttura del clan non esistono parole come “zio, zia, cugino” o “cugina”, ma si è soltanto “papà” e “mamma” e “fratello” e “sorella”, quindi mio zio è mio padre e se i miei genitori muoiono, non perdo la famiglia. L’Aids però ha creato un grosso squilibrio: magari si ritrovano i nonni con 20 o 30 orfani. I poveri si trovano o nelle zone di guerra o nelle città, nelle bidonville, dove la gente va, sperando nell’opportunità che non arriva mai».

C’è il rischio di un’emigrazione di massa?

«Purtroppo sì. Il sogno è quello di studiare e poi andarsene in Canada, in Usa o in Inghilterra. Per porvi un freno sono stati contingentati i visti (solo 25 al giorno) e la gente si mette in coda per giorni, rimanendo lì anche la notte. Quando c’è stata la giornata mondiale dei giovani in Canada, su un centinaio di giovani ugandesi, la metà non è rientrata».

La scheda• Forma di governo: repubblica indipendente dal 9/10/1962 (già possedimento del Regno Unito).• Superficie: 241.038.• Popolazione: 16.671.705 (cens. 1991).• Capitale: Kampala.• Moneta: scellino ugandese• Lingua: inglese e swahili (ufficiali)• Gruppi etnici: baganda 18,1%, banyankore 10,7%, bakiga 8,4%, basoga 8,2%, turkana 6,2%, langi 5,9%, bagisu 4,5%, acholi 4,4%• Religione: cattolici 46,5%, protestanti 33%, musulmani 10,5% 20 anni di guerra civileLa guerra civile dura da 20 anni con l’LRA (Armata di resistenza del Signore, fondata da Joseph Kony) che terrorizza le province del nord dell’Uganda fin dal 1987, abitate dagli Acholi, ai confini con il Sudan. Ed è proprio in Sudan che gli Olum («erba» così vengono chiamati in lingua Acholi) hanno le loro basi e da lì partono molti dei loro attacchi. Si calcola che fin’ora abbiano causato 100 mila vittime e 1.200.000 sfollati, senza contare il dramma dei bambini rapiti (20 mila): i maschi vengono addestrati come piccoli soldati mentre le femmine divengono schiave sessuali dei ribelli. Il dossier sulle armiIl dramma della regione del Darfur ripropone la questione della diffusione delle armi in Africa, continente nel quale la spesa militare è in continua crescita. Alla materia l’agenzia vaticana Fides (www.fides.org) ha dedicato un ampio dossier. Le stime collocano nella sola Africa sub-sahariana 30 milioni di armi leggere, il 5% di quelle in circolazione in tutto il mondo, per l’80% in mano a civili. Un continente armato dove si verifica ogni anno il 18% degli omicidi e suicidi con armi da fuoco di tutto il mondo. Il dossier sottolinea come oltre a quelle vendute dai grandi produttori mondiali, come Russia e Usa, «si sta affermando una produzione locale che potrebbe avere nel tempo sviluppi inquietanti». Tra i Paesi produttori di armi, figurano il Sudafrica, lo Zimbabwe, la Nigeria, la Namibia, l’Uganda, il Kenya e la Tanzania, ai quali si aggiunge l’Egitto. «Il maggior produttore» riporta Fides, «è il Sudafrica, che ha ereditato dal regime dell’apartheid un’industria militare sofisticata e diversificata. Attualmente, prosegue il dossier, «in Sudafrica vi sono circa 700 aziende che operano nel settore militare e che impiegano 22.500 adetti (alla fine degli anni ’80 erano 160.000)».

DARFUR (SUDAN), DIPLOMAZIA AL LAVORO, INTANTO UE MINACCIA SANZIONI CONTRO KHARTOUM

DARFUR (SUDAN), INVIATO PAPA: KHARTOUM GARANTISCA SICUREZZA SFOLLATI

EMERGENZA SUDAN E UGANDA: L’IMPEGNO DELLA CARITAS ITALIANA

GIOVANNI PAOLO II: «FERMATE LE GUERRE AFRICANE»

In Uganda con la missione nel sangue