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Ucraina: Kulbokas, “non lasciamo nulla di intentato”
Il nunzio apostolico in Ucraina descrive il clima che si respira nella capitale ucraina in questo periodo natalizio.
“A Kyiv sembra che si respiri un clima di abitudine alla guerra come fosse diventata ormai una normalità. Ma normale non è”. È mons. Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, a descrivere il clima che si respira nella capitale ucraina, in questo periodo natalizio. “Non è normale neanche nei momenti di calma – aggiunge – perché non è mai una situazione di tranquillità completa. Ci prepariamo a vivere il Natale così, in un contesto difficile che però fa risaltare ancor più il suo significato spirituale, mettendo in luce chi è Gesù, il principe della giustizia e della pace”. “Tante persone, credenti e non credenti, si attendono dal Natale la grazia della pace e il dono della vita. La guerra comporta tanto dolore, tante morti, tante ferite. C’è quindi una grande attesa”.
Come scorre concretamente la vita?
Viviamo ogni notte e ogni giorno come fossero momenti a sé, perché la situazione è precaria. Non si sa mai se domani la situazione sarà la stessa del giorno prima. Dipende da quanti missili vengono lanciati, da quanti droni cadono sulla città. Non si ha la certezza di poter fare le cose così come sono state programmate. C’è questa percezione di precarietà con cui tutti facciamo i conti già da due anni.
Quest’anno c’è la grande novità del Natale che sarà celebrato per la prima volta dalla Chiesa greco-cattolica non più il 7 gennaio ma il 25 dicembre. Che segno è?
Non darei troppa importanza alla data. È comunque un segno che anche esteriormente siamo uniti.
Domenica, a Kyiv, parenti e amici di prigionieri ucraini hanno di nuovo manifestato per la loro liberazione, chiedendo di intensificare tutti gli sforzi possibili per riportarli a casa. Ma concretamente, la diplomazia della Santa Sede cosa può fare per loro?
È un problema enorme. Tutti i giorni, quando celebro la messa la mattina, affido la mia preghiera personale alla preghiera di coloro che soffrono. Sono tantissimi. Peraltro, sono prigionieri non soltanto i militari, ma anche tanti civili ed è un grandissimo problema. Tra loro ci sono anche i due sacerdoti greco-cattolici redentoristi catturati a Berdyansk che sono prigionieri da oltre un anno. Sono in contatto con le associazioni dei familiari dei prigionieri e da loro ricevo testimonianze di grandissima sofferenza. Le storie che mi raccontano sono raccapriccianti. Le famiglie non sanno neanche dove sono e se sono vivi. I prigionieri non hanno acqua potabile. Per non parlare del cibo, dei maltrattamenti e delle condizioni in cui devono stare e altro ancora. Proprio questo fronte, quello cioè dei prigionieri, dei bambini e degli aiuti umanitari, è l’impegno primario su cui Papa Francesco insiste personalmente sia parlandone e quindi attirando l’attenzione sia trasmettendo queste richieste alle autorità competenti. I risultati, purtroppo finora, sono pochissimi. Ma questo non vuol dire che si possa interrompere questa attività, perché siamo credenti e perché non abbiamo il diritto di abbassare le braccia.
Il cuore delle persone può sempre cambiare. Anche il cuore di chi è responsabile di tanto male.
Non sappiamo quando, ma sappiamo che bussando incessantemente alle porte, un giorno queste poste si apriranno. Lo crediamo ancora di più perché siamo credenti e, oltre a lavorare concretamente, ci affidiamo anche alla grazia di Dio, nella preghiera.
Di recente la Commissaria per i diritti dell’infanzia della presidenza della Federazione Russa Maria Lvova-Belova ha presentato un rapporto dal quale emerge che finora è stato possibile identificare alcuni minori. Significa che qualcosa si sta muovendo anche sul fronte dei bambini ucraini deportati?
Qualcosa si sta muovendo, nel senso che qualche minimo risultato c’è. Questo ci fa capire che è sempre meglio fare qualcosa che nulla. In più abbiamo informazione di alcune proposte circa il meccanismo su cui lavorare. Seppur piccolo, è certamente un passo perché nella situazione difficile in cui ci troviamo, non possiamo tralasciare nulla di intentato.
In un contesto in cui sembra, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, che la pace sia impossibile, lei come vede la situazione? A due anni dall’inizio di questa guerra, è più ottimista o pessimista?
Non mi permetterei né di fare commenti né di lanciare ipotesi, anche perché così come è oggi la situazione della guerra, navighiamo a vista, viviamo giorno per giorno ed è quindi difficile fare considerazioni generalizzate. Certamente, quanto più perdura la guerra, tanto più il tempo rende più difficile la comunicazione. Perché rovina canali, distrugge tante realtà, chiude anche i cuori. Dall’altra parte, cresce anche la sofferenza ma questo paradossalmente spinge anche a cercare una via di soluzione alla guerra. La mia personale considerazione si basa sempre più su ciò che dicevano i profeti nell’Antico Testamento e cioè che non ci possiamo fidare delle potenze umane ma di Dio che annuncia la giustizia, il rispetto e la pace. Per questo, in questa ricerca della pace, credo personalmente molto di più nei tentativi delle Chiese e delle religioni.
Qual è il punto di forza di Papa Francesco?
Il punto di forza di un Papa è la fede. La fede significa che anche quando tutto il mondo dice di no, il Papa tenta e non smette di tentare. Ma con la fede, occorre anche avere una buona dose di carattere umano. Anche la preghiera deve essere insistente, perché per Dio, tutte le nostre preghiere sono sempre nuove, anche se sono sempre le stesse e dette ogni giorno. Per Dio ogni una preghiera è nuova. E questa è la forza del Papa e della Chiesa.