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Tv e decreto «salvareti», un esito non proprio esaltante

La Camera ha approvato, il 20 febbraio, il cosiddetto decreto «salvareti» (con 314 sì, 197 no, 1 astenuto). In base al testo, Rete4 potrà continuare a trasmettere fino al 30 aprile, data fino alla quale Rai3 potrà continuare a raccogliere risorse pubblicitarie. Entro lo stesso termine, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovrà svolgere «un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri, per accertare la quota di popolazione coperta dalle nuove reti digitali terrestri, anche tenendo conto delle tendenze in atto nel mercato, che non deve essere inferiore al 50%; la presenza sul mercato dei decoder a prezzi accessibili; l’effettivo aumento di programmi diversi da quelli diffusi in tecnica analogica, con corrispondente aumento di pluralismo». Nei 30 giorni successivi al termine dell’indagine, l’Autorità dovrà inviare una relazione al governo e alle competenti commissioni parlamentari. Sul decreto abbiamo chiesto l’opinione di Fausto Colombo, direttore dell’Osservatorio sulla comunicazione dell’Università Cattolica di Milano.

Professore, quale è il suo commento all’approvazione del decreto «salvareti»?

«Questo decreto è l’esito di una storia non esaltante: è la correzione in corsa di una legge indicata da più parti come incostituzionale, ma che invece si era convinti potesse passare il vaglio delle istituzioni di garanzia. Proprio perché figlio di una situazione molto particolare, mette una pezza a un problema che meriterebbe di essere risolto in altro modo. C’era tutto il tempo dalla sentenza della Corte costituzionale per attrezzare Rete4 al trasferimento sul satellite e Rai3 a trasmettere senza pubblicità».

Prima dell’approvazione, si è parlato di possibile perdita di posti di lavoro.

«A quanti affermano che, altrimenti, si sarebbero persi dei posti di lavoro replicherei dicendo che se il mercato si dovesse veramente allargare come tutti invocano, allora non c’è motivo alcuno di preoccupazione. Se Rete4 viene venduta così com’è, i posti di lavoro rimangono; se, invece, viene chiusa, quelle risorse confluiscono nelle altre reti che si aprono. Stesso discorso per la pubblicità di Rai3: basterebbe fare una raccolta pubblicitaria sulle altre due reti e girare i finanziamenti su attività anche a più basso costo, ma di pubblica utilità».

Da qui al 30 aprile è possibile modificare la situazione attuale?

«A una lettura rapida del testo, ho il timore che il decreto pecchi dello stesso ottimismo di cui peccava la legge. È ottimistico pensare che da qui ad aprile la nuova offerta in digitale cambi le caratteristiche del sistema televisivo del nostro Paese. Temo che questo decreto in futuro debba essere prorogato con le stesse motivazioni che hanno portato alla sua elaborazione. Perlomeno, nel testo si riconosce all’Authority un ruolo chiaro».

Nel decreto si parla di «aumento di pluralismo»…

«Il pluralismo vero presenta due volti: un pluralismo di istituzioni e un pluralismo nelle istituzioni. Per avere pluralismo, da un lato, è necessaria la concorrenza tra delle opinioni che si possono esprimere alla stessa stregua; dall’altro, occorrono dei luoghi in cui è possibile esprimersi in modo plurale. Il sistema televisivo e, per certi versi, il sistema radiofonico continuano a porre problemi in questo senso. È come se mancasse una cultura della “terzità” dei media, in due sensi: anzitutto, la classe politica non ha mai ritenuto i media un luogo terzo, non ha mai ritenuto che un buon giornalista non deve essere servo di qualche padrone. In secondo luogo, i giornalisti e tutto il mondo dei media devono fare bene il proprio dovere senza subire pressioni».

Questo decreto potrebbe essere l’occasione per fare una legge di sistema?

«Questo è il mio augurio. Sarebbe interessante fare una legge di sistema, riflettendo sulle emergenze reali del Paese. Purtroppo, la tendenza in atto non è quella di aprire dibattiti collettivi sulle trasformazioni. Ho l’impressione che tutte le riforme attuali siano riforme di maggioranza, con scarsa capacità di coinvolgere le parti sociali, la società civile nel suo complesso».