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Trump, più che al cuore del Paese parla alla rabbia dei suoi elettori
La Nato è ormai un rimasuglio della Storia, il libero scambio un danno costante per gli interessi nazionali. Comprare americano, assumere gli americani: c’è un paese da ricostruire a partire dalle sue infrastrutture, e devono farlo capitali locali per far lavorare maestranze autoctone. Gli altri paesi hanno vissuto per decenni sulle spalle del popolo americano.
Con queste parole, pronunciate quasi tutte nel discorso di insediamento, Donald Trump si è idealmente rifatto a tre suoi predecessori: Theodore Roosevelt per quanto riguarda il primato americano, Dwight Eisenhower per la realizzazione delle infrastrutture, Herbert Hoover per il protezionismo. Tre nomi illustri del conservatorismo d’Oltreoceano che però non fanno una sintesi politica: Eisenhower fece le autostrade su cui ancora adesso gli americani viaggiano, ma non era certo un isolazionista (men che meno era stimato al Cremlino); Roosevelt fu tra i primi a trasformare il governo in mediatore nei conflitti sindacali (come nel caso degli scioperi della siderurgia nel 1902); Hoover infine è quello che più ricorda il nuovo inquilino della Casa Bianca, ma non è un accostamento felice visti i suoi insuccessi di fronte alla Crisi del ’29.
È sicuramente presto per giudicare il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Ma quei 17 minuti di discorso sulla scalinata del Campidoglio non sono sembrati all’altezza del momento. Ci si aspettava un Presidente che si indirizzava alle nazioni, si è sentito un candidato che si rivolgeva al suo elettorato di riferimento. Un discorso con lo sguardo rivolto al recentissimo passato, non al futuro delle prossime generazioni. Nella medesima occasione Franklin Delano Roosevelt lanciò il New Deal, Kennedy la Nuova Frontiera, Obama la riforma sanitaria e l’apertura all’Islam moderato. Il paragone, rincresce dirlo, non è confortante. L’impressione che se ne trae è quella di una certa confusione programmatica, nascosta ora da una polemica con i servizi d’intelligence ora da un attacco ai giornali.
Anche il primo gesto da presidente, il congelamento di una parte dell’Obamacare, ha più il sapore di una simbolica ripicca che non di un gesto politico ponderato: dal giorno dell’elezione Trump ha avuto due mesi per elaborare un’alternativa all’attuale assistenza sanitaria, ma se nella manica nasconde un asso si è guardato bene dal calarlo. In più, Trump ha commesso l’errore di non parlare al cuore del suo paese, ma alla rabbia (giusta, per molti versi) di chi lo ha votato. Limitandosi a giurare a gran voce che il potere da Washington tornava alla gente ha fatto sua la retorica maoista dell’opposizione tra città e campagna elaborata da Lin Piao (come paradosso non c’è male). Asserendo che le altre nazioni hanno sfruttato la ricchezza degli Stati Uniti ha riproposto il tema, non nuovo a orecchie italiane, della Grande Proletaria. Trump, assicurando di voler rendere di nuovo l’America un grande paese, in realtà sta facendo di tutto per farla più piccola, più paurosa, più micragnosa.
Pertanto è bene concedere tempo e fiducia alla nuova amministrazione: esistono anche le belle sorprese. Ma di fronte a chi promette grandezza e poi alza i muri e agita paure non può non venire in mente la terribile definizione che Voltaire dava dello Zar Pietro I: «Voleva far uscire il suo popolo dalla barbarie, ma era un barbaro lui stesso». Trump non è un barbaro, logicamente, ma se è grande deve ancora dimostrarlo.