Opinioni & Commenti
Tre mesi di bombardamenti per la guerra che non si vuole chiamare guerra
di Romanello Cantini
Ormai sono più di tre mesi che si bombarda la Libia. Undici anni fa il bombardamento della Serbia da parte degli aerei della Nato per la questione del Kossovo durò dieci giorni meno. Le diecimila incursioni aeree sul paese africano al ritmo di oltre sessanta al giorno si avvicinano ormai al numero delle incursioni che portarono alla resa Milosevic, ma Gheddafi purtroppo ancora non si arrende. Queste guerre che non vogliono dirsi tali, condotte da paesi che vogliono combattere e non vogliono morti e quindi portate avanti al sicuro a cinquemila metri da terra mostrano sempre di più i loro limiti. Nessun paese della Nato vuole atterrare sul suolo libico e quindi concludere una guerra con truppe di terra che fra l’altro non sarebbero consentite dalla risoluzione dell’Onu. D’altra parte la cosiddetta «rivoluzione assistita» dei ribelli libici non riesce a vincere da sola seppure con un aiuto che gli viene dal cielo. Nonostante le armi che clandestinamente sono giunte ai ribelli in violazione dell’embargo deciso dall’Onu le forze antigheddafi non hanno un minimo inquadramento e addestramento militare e una capacità di usare armi pesanti.
Nel frattempo i fini e i limiti della missione Nato sono sempre più elastici e confusi. Lo scopo iniziale di impedire agli aerei di Gheddafi di volare è stato raggiunto con la distruzione di una ben misera aviazione libica in una settimana. Si è passati quindi alla distruzione di ogni mezzo militare governativo che si muovesse sul terreno. Infine ci si è proposto il bombardamento delle infrastrutture e dei cosiddetti centri di comando con la speranza inconfessata, ma ormai evidente, che dentro uno di questi si faccia trovare il colonnello Gheddafi.
Così un uomo che, se anche cadesse sotto la giurisdizione del tribunale internazionale al massimo rischierebbe l’ergastolo, è di fatto già condannato a morte. E si tratta di un uomo a cui fino a poco più di un anno fa era concesso di piantare la sua enorme tenda a Parigi e a Roma, un uomo socio della Fiat, della Finmeccanica, dell’Unicredit, perfino dell’Juventus, un uomo a cui il parlamento italiano nell’approvare quasi all’unanimità due anni fa il trattato italo-libico attribuiva all’articolo 6 un regime sostanzialmente democratico. La Francia sta addirittura distruggendo con le proprie bombe le proprie armi che ha venduto a Gheddafi fino ad un anno fa.
Ora all’improvviso, dopo che la Nato è impegnata da anni in Afghanistan, in Iraq, in Libano ci si accorge che la guerra in Libia costa, che un missile Tomahawk che si autodistrugge mentre distrugge, costa otto case popolari, che un’ora di volo di un bombardiere Rafale costa lo stipendio annuo di un operaio.
Così, costretto fra la Lega che chiede di finire la guerra e la Nato che vuole continuarla, il ministro degli esteri italiano si inventa una guerra in Libia a tempo determinato come un contratto semestrale precario che ha avuto inizio a marzo e deve finire a settembre.
In realtà anche la guerra libica ha già soprattutto un costo umano oltre che economico. Non si tratta solo delle vittime civili dei bombardamenti che anche qui, come accadde in Kosovo, come accade in Afghanistan, sono sempre fra i «danni collaterali», fra gli abbagli di chi deve colpire da chilometri di altezza per non rischiare. Con gli occhi tutti puntati su Lampedusa abbiamo dimenticato che ben tre milioni di lavoratori stranieri hanno dovuto lasciare il paese per ammassarsi in condizioni indescrivibili in Tunisia e in Egitto. E attenti al presente non pensiamo al costo di una ricostruzione di un paese già bombardato per cento giorni.
Era evidente fin dall’inizio che Gheddafi è uno di quei dittatori che soffrono della tentazione di morire nel bunker prima di arrendersi. D’altre parte l’incriminazione di Gheddafi da parte del Tribunale Internazionale non incoraggia certamente Gheddafi a dimettersi facendogli intravedere come alternativa al potere non l’esilio, ma il carcere.
Gli stati africani continuano a suggerire di tentare un dopo-Gheddafi attraverso una trattativa anche con Gheddafi vista la strada senza uscita che ormai ci troviamo di fronte con il perseguimento di una guerra senza vittoria. Non è cinismo e nemmeno realismo. Gandhi, che era tutt’altro che un opportunista, ci ha insegnato che nella scala dei valori la pace gode di qualche punto in più anche rispetto alla giustizia a cui pure mirò per tutta la vita. E perfino nella vecchia teoria della «guerra giusta» la giustizia è considerata troppo ingiusta se deve essere raggiunta con prezzo troppo alto di violenza.