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Trattati di Roma, di quell’«Europa carolingia» oggi è rimasto ben poco

Pioveva su Roma quel 25 marzo di sessanta anni fa. Sulla cappotta delle limousine che portavano i capi di governo a firmare il trattato che fondava la Comunità Europea scivolavano rivoli di acqua. L’avvenimento storico era alla fine il frutto dell’impegno e della passione di tre grandi statisti cattolici, anzi per essere precisi democristiani: l’italiano De Gasperi, il tedesco Adenauer, il francese Schumann. Il primo è morto a tre anni di distanza dal traguardo. Ma è un socialista, il belga Paul-Henri Spaak, che ha voluto con forza che si facesse il trattato e che il trattato fosse firmato a Roma perché, aveva detto con un perfetto argomento neoguelfo, la Città Eterna è la somma delle tre grandi civilizzazioni europee.

E anche la cerimonia del 1957 conservò perfino in certi dettagli il sapore della Roma dei Cesari e dei Papi, del profano e del sacro. Agli alunni delle scuole della capitale lo stato italiano aveva dato vacanza. Alle 18 tutte le campane delle chiese di Roma avevano suonato per annunziare a chi voleva e a chi non voleva saperlo l’inizio dei lavori. Nella sala del Campidoglio chiamata degli Orazi e dei Curiazi dove furono firmati i trattati c’erano i grandi affreschi che raccontavano la mitica storia di Roma, ma anche le due statue del Bernini e dell’Algardi dei papi Urbano VIII e Innocenzo X che guardavano dai due lati gli statisti seduti e i giornalisti stipati per cui c’erano solo posti in piedi. Qualcuno, non del tutto a caso, parlò in quei giorni di «Europa vaticana». Ed «Europa carolingia» era chiamata comunemente allora quella minuscola e infantile Europa di appena sei stati (cinque addirittura per chi considerava il Lussembugo una città e non un paese) perché non solo coincideva con i confini dell’impero di Carlo Magno, ma sembrava perfino rievocarne l’unità fra il Sacro Romano Impero e la Chiesa di Roma. Nessuno si immaginava che, al di là delle conquiste storiche della pace e dell’integrazione, trenta anni dopo l’Unione Europea avrebbe respinto l’idea delle sue radici cristiane nella sua costituzione e spesso avrebbe dato prova di relativismo morale e di laicismo esasperato in diverse sue decisioni.

Comunque per il momento fu ancora Spaak che colse profondamente la straordinaria importanza e novità dell’evento storico che finalmente vedeva davanti agli occhi quasi sognando. Nel suo discorso sottolineò «l’immensa portata di ciò che può essere considerato la più grande trasformazione volontaria e libera della storia di Europa costruita non più sul ricorso alla forza, ma sull’appello alla intelligenza». Fra tutti a vedere più lontano nel tempo, ma anche più vicino nello spazio, fu il tedesco Adenauer che già nella unione mignon dell’Europa del momento prenotò quello che da sempre più stava a cuore ai tedeschi, cioè la premessa per la loro unità nazionale che infatti sarebbe avvenuta quasi quaranta anni dopo. Il cancelliere avvertì: «I diciassette milioni di tedeschi che sono separati da noi per la costrizione appartengono anch’essi alla nostra Europa». Meno lontano vide il francese Pineau che si augurò che presto nella comunità arrivasse anche il Regno Unito non immaginando che l’anno successivo sarebbe arrivato al potere in Francia quel De Gaulle che per dieci anni avrebbe sbattuto la porta dell’Europa in faccia agli inglesi cinquanta anni prima che alla fine loro stessi se ne uscissero tranquillamente per conto proprio.

Anche altri non videro troppo bene nella nebbia del futuro. Nel parlamento italiano i comunisti, come del resto fecero da parte loro i comunisti francesi, votarono contro il trattato. «Il Mec – disse alla Camera Giuseppe Berti, uno dei padri fondatori del Pci – è la forma sovranazionale che assume in Europa il capitale monopolistico». Non immaginava che sessanta anni dopo il lontano discendente di quel partito sarebbe diventato il più importante partito europeista del paese di fronte all’euroscetticismo della Lega e del Movimento Cinque Stelle. Per l’occasione invece i socialisti si astennero distinguendosi nettamente per la prima volta dai comunisti in una scelta di politica internazionale. Anzi Nenni era cosi convinto che all’Italia fosse indispensabile una bella cura di centrali nucleari che per quanto riguardava l’Euratom votò a favore. Non gli passava naturalmente nemmeno per la mente che trenta anni dopo le centrali nucleari italiane sarebbero state smantellate soprattutto per volontà del partito socialista italiano dopo essere costate migliaia e migliaia di miliardi.

Il trattato di Roma prevedeva la liberalizzazione delle merci, dei capitali e dei lavoratori entro dodici anni. Ma entro questo termine riuscì solo la creazione graduale del mercato comune delle merci che fra l’altro permise al nostro paese lo straordinario boom economico degli anni Sessanta. Per le altre due misure, che di fatto erano una anticipazione regionale della globalizzazione, i responsabili della Comunità dell’epoca furono più prudenti e più attenti alle condizioni sociali dei vari paesi di quanto lo saranno i frettolosi creatori dell’euro quaranta anni dopo. Di fatto per introdurre la liberalizzazione dei capitali si aspettò ben trentatré anni e si cominciò ad attuare solo nel 1990.

Bisogna inoltre tenere conto che nel trattato di Roma accanto alle misure di liberalizzazione economica si presero impegni anche in fatto di sviluppo equilibrato e di riequilibrio sociale. Ci si propose «il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione», «l’unità delle economie», «lo sviluppo armonioso», «una espansione continua ed equilibrata», un «miglioramento sempre più rapido del tenore di vita», una «strategia coordinata per l’occupazione», una «politica nel settore sociale comprendente il fondo sociale europeo» (preambolo e art. 2 e 3). E soprattutto oggi bisogna rievocare questo spirito di solidarietà di allora che nel frattempo è quello che più si è perso per strada mentre del trattato di Roma si è coltivato ed alla fine esasperato soprattutto l’aspetto della liberalizzazione economica.