Cultura & Società
Tradizioni: le antiche «parate»
di Carlo Lapucci
Non è necessario avere l’età di Nestore per conoscere il significato particolare della parola parata come nome di un’usanza che a dire il vero è pressoché dimenticata, salvo in piccole località dove si fanno ancora semplici rituali che la ricordano.
Ho fatto in tempo (si fa per dire) a partecipare di persona a diverse parate nel Mugello, bambino o ragazzetto, negli anni seguenti alla Seconda guerra mondiale: era cosa riservata ai giovanissimi e consisteva in un rito semplice. Nei matrimoni celebrati in campagna era uso che, dopo il pranzo di nozze che di solito si protraeva fino al calar del sole, gli sposi si avviassero verso la loro casa tutti vestiti a festa come in chiesa, accompagnati da un gruppo di parenti e invitati. Questo percorso, nelle parrocchie di campagna, era allungato ad arte in modo da poter passare per le case degli amici più cari dove si faceva una breve sosta.
Dato che i matrimoni venivano fatti per lo più nella bella stagione le famiglie che aspettavano la visita apparecchiavano nell’aia, o davanti all’abitazione, un tavolo con tovaglie, stoviglie e tutto il necessario per un rinfresco, o una bevuta. Gli sposi venivano accolti dal suono di uno strumento, se c’era, da applausi, gradivano quanto veniva offerto, davano i confetti e visitavano gl’infermi che non erano potuti andare in chiesa. Si cantavano stornelli, si scherzava, si rinnovavano gli auguri, poi si riprendeva il cammino.
Anche questa era detta parata, ma aveva la caratteristica di essere più un’oblazione, un omaggio e di fatto non parava nessuno. Quella vera veniva dopo: dietro un curva un gruppo di ragazzi aveva predisposto attraverso la strada, all’altezza di un bambino, un nastro colorato lungo il quale erano appesi alcuni ciondoli: borchie, campanelli, bubbolini e oggetti luccicanti. Il nastro di fatto impediva il cammino, parava il percorso al corteo degli sposi. Questi sapevano che cosa significava e semmai veniva anche loro spiegato: se volevano passare da quella strada ostruita dal nastro dovevano offrire una congrua quantità di confetti, altrimenti bisognava cambiare strada o prendere per i campi.
La cosa non era consigliabile perché il rifiuto del pagamento del pedaggio autorizzava i ragazzi a rappresaglie (cosa che avrebbero anche preferito) con sberleffi, lanci di frutta, segatura, acqua e altro, trasformando tutto in una gazzarra. Ma era solo una possibilità che non ho mai visto realizzarsi. Chi doveva offrire e contrattare il pagamento era in questo caso lo sposo, mentre la sposa baciava tutti quanti.
I giovani ribaldi stabilivano il prezzo secondo la bellezza della sposa: più era bella, più lo sposo doveva versare in confetti, mettendo il poveretto in grosso imbarazzo: se dava poco offendeva la sua compagna, se dava molto aumentava le spese. Si veniva comunque a un’intesa: con allegria e battimani l’ostacolo veniva rimosso e il corteo proseguiva verso un’altra aia, con un’altra sosta, altri canti e bevute e un’altra parata. Naturalmente, dopo tutti questi brindisi, che spesso erano numerosi, oltre che stanchi gli sposi arrivavano alla loro casa quanto meno alticci e così concludevano allegramente la serata.
Si raccontava che uno sposo un po’ tirchio non volle mollare sul prezzo e consegnò al capo del manipolo una quantità di confetti veramente misera: prendere o lasciare. Il ragazzotto che aveva forse scarpe grosse, ma il cervello certamente fino, accettò per il ben della pace, ma lo ripagò per benino. Con la manciata di confetti in mano andò davanti alla sposa, le sollevò il velo che le copriva la faccia e, consideratala bene, tornò davanti allo sposo e gli restituì la metà dei confetti, poi dette ordine di togliere il nastro.
Questa piccola cerimonia è la vera parata, la forma più antica, rispetto al brindisi offerto sull’aia. Il gioco dei ragazzi conserva il nucleo di un’usanza, di più, di uno statuto arcaico che sprofonda forse, come si dice, nella notte dei tempi.
La prima cosa che mi meravigliò in passato fu scoprire la sua diffusione che si estendeva sempre più man mano che ne facevo ricerche. Oltre a trovarsi in diversi luoghi della Toscana con nomi come barriera, ricopre l’Italia e gran parte dell’Europa. È detta serra in Valtellina, lacci, zagarelle in Abruzzo, barricata in Piemonte e Lombardia, serraglio, sbarra nelle Marche, barrera nel Canavese, sciupa nell’Ossola, serraglio della sposa a Firenze.
Un’usanza così diffusa e persistente non può che collegarsi a un istituto antichissimo e per di più fondamentale nella vita dell’antichità. Saltando tutti i dati noiosi, anche se per molti aspetti interessanti, dell’antropologia storica, detto in parole povere, tutto si collega alle forme arcaiche del matrimonio, quando con la ragazza che andava sposa non si moveva soltanto una persona, ma (piccolo o grande) un capitale, rapporti di alleanza o di assistenza, e addirittura persone se la sposa era ricca e si portava dietro un seguito. Questa complessa struttura del matrimonio arcaico perpetuato tra i primitivi è stato descritto e analizzato da Claude Lévi-Strauss nelle Strutture elementari della parentela.
La sposa in certe civiltà si acquistava, in altre si offriva per un matrimonio prestigioso e ambito con una persona ricca o potente, mettendole come dotazioni una cifra più o meno considerevole, ovvero beni, terreni, ricchi elementi di corredo. Era comunque un piccolo terremoto nella vita quieta di un paese, di una parrocchia, di una zona cittadina: un elemento veniva sottratto alla comunità: l’amica con cui si era stati bambini, che si sentiva come parte della nostra esistenza a un certo punto svaniva come possibilità di rapporto: la sua vita, anche se rimaneva nella terra d’origine, cambiava per lasciare i divertimenti, gli svaghi, i lavori consueti dedicandosi alla vita di famiglia e alla cura dei figli.
La partenza della sposa che lascia la casa natale era particolarmente dolorosa quando abbandonava del tutto la comunità per andare ad abitare lontano: questo era sentito come uno strappo, una lacerazione del nido originario e in tempi arcaici era compensato da quanto si moveva con la sposa: dote, beni ceduti dallo sposo, vantaggi di potere, di prestigio, di alleanze, possibilità d’ogni genere.
Spesso era la donna a bruciare il sentimentalismo, soprattutto se la barriera era di carta: lei stessa provvedeva a romperla indicando chiaramente la propria spontanea volontà di lasciare gli amici e seguire lo sposo; altrimenti la rimoveva con gentilezza.
Comunque era un vulnus del quale nessuno la incolpava, dato che spesso non agiva per sua volontà, ma seguendo quella della famiglia. Allora il colpevole era lo sposo che in un certo senso, se non con la forza fisica, ma con quella morale, affettiva, e altro, se la portava via.
Il matrimonio per ratto simulato della sposa, a cominciare da quello delle Sabine, è stata una delle forme più praticate ai primordi della civiltà ed è durata a lungo nelle società tribali, sia pure regolata da norme rigide e precise. Tale forma aveva i suoi vantaggi, se non altro liberava la sposa dalla responsabilità di lasciare volontariamente la casa, ma quali che fossero i modi, sempre lo sposo era quello malvisto e lui doveva pagare.
Al tempo stesso la partenza della sposa era sentita come una perdita, non solo affettiva, ma di presenza fisica nella vita comune. In certi luoghi, quando una ragazza andava ad abitare fuori del paese si arrivava, come a Rivara a suonare le campane a morto finché non veniva fatta l’oblazione dallo sposo. Ognuno piangeva la perdita a modo suo: i parenti con le lacrime, gli amici con la parata e poi ci si metteva anche il parroco. Tra i diritti di parata si trovano non di rado istituiti anche quelli della parrocchia la quale, andando a stare fuori la sposa, veniva a perdere tutti quanti i proventi che sarebbero derivati dalla sua presenza, per cui ancora prima della guerra a Mangano lo sposo della donna che andava a stare fuori della parrocchia, offriva al parroco un’oblazione pari a alla metà del costo d’un funerale per la chiesa, cifra che veniva detta sepoltura della sposa, che il parroco non avrebbe mai celebrato.
Lo sposo per antica consuetudine è destinato a pagare e pagava quasi sempre volentieri: dal numero delle parate che trovava per la strada verificava quanto affetto la gente aveva verso la sua sposa e si rallegrava della bella chiappa che aveva fatto. Certamente non faceva considerazioni di carattere antropologico, ma capiva benissimo il senso dell’usanza, tanto sono forti i riti da comunicare senza parole sentimenti primitivi, presenti ed eterni.
Un tempo non era così. A cominciare dal mondo romano e da quello greco i giovani si aggregavano in associazioni riconosciute con le loro funzioni, i loro diritti, le loro regole rispettate dagli adulti. Le età si distinguevano in certi luoghi cominciando dal gioco delle noci, quindi da tenere le monete, sedere a tavola con gli adulti, avere qualcosa in proprietà, la prima barba, la prima fiera e il primo amore che dava il crisma di giovane. Prima di 16-17 anni non si poteva giocare a bocce o altro, né ballare alle feste. La vita si svolgeva in comunità che erano le associazioni giovanili dette anche Juventus o Abadie. Il princeps juventutis era detto Abate e aveva giurisdizione sui membri dell’Abadia. A Firenze queste organizzazioni presero il nome di Signorie, Potenze, Principati, Ducati. Altrove si chiamarono compagnie dai nomi stravaganti: compagnie di Asini, di Disperati, di Pazzi, ecc. A loro competeva lavorare all’organizzazione di giochi della festa del patrono, gare di tiro, rappresentazioni, pranzi, scampanate, maggi, danze e quindi fare anche le barriere.