Cultura & Società
Tradizioni, gesti e modi di dire che ci vengono dal passato
Anche correndo a enorme velocità su un aereo supersonico senza che ci se ne accorga si apre un passo accanto a noi il baratro della preistoria, ossia ne ripetiamo schemi mentali, simboli, gesti che i nostri predecessori usavano nelle caverne, forse anche loro convinti d’essere modernissimi, superiori alle vecchie credenze e alle superstizioni. Abbiamo un corno al portachiavi, un piccolo ferro di cavallo al braccialetto, una zampa di lepre in valigia, un’immagine devota o una croce al collo, si tocca ferro vedendo sul giornale la foto d’un noto menagramo, si fanno le corna sentendo il nome d’una brutta malattia, si evita di sedere al posto numero diciassette, non si magnifica la potenza e la sicurezza del mezzo di trasporto, non si fanno le lodi del pilota, si ricorda un defunto premettendo la formula la buon’anima, ci si turba sentendo fischiettare il Walzer delle candele o Caminito e si usano tante altre belle precauzioni, se vogliamo: attenzioni.
È lecito pensare, sia per l’evidenza, sia per i ritrovamenti antropologici, che oggetti elementari e perfetti come il martello, l’imbuto, la grattugia, l’ago così come furono con l’uomo nelle caverne, con lui resteranno anche nei suoi trasferimenti di galassia in galassia.
Si può pensare che un suicida quando si prepara al passo estremo abbia altro da pensare che alla simbologia, eppure, stando a ciò che ha rilevato Wilhelm Stekel, non c’è persona più attenta al simbolo di un suicida, se è vero che la maniera di togliersi la vita segue un codice mediante il quale esterna il disagio interiore, il tormento, la sofferenza che accompagna la disperata decisione. La scelta inconscia del sopraffatto (strangolato, soffocato) dai debiti è, ormai sancita dalla tradizione ottocentesca, l’impiccagione, così come fa colui che si trova dentro un laccio di rimorso che si stringe sempre di più, come Giuda.
La donna caduta, che si riteneva degradata dal proprio comportamento, che aveva perduto la dignità, l’onore sceglieva una volta un salto nel vuoto, oppure si faceva travolgere da una forza enorme, come Anna Karenina dal treno. Il calunniato cui è stata inquinata la vita si rivolge all’avvelenamento e così i rovinati che disperano di qualunque soccorso, come Annibale e Cleopatra. Il gas viene scelto per lo più da chi ha sbagliato vita, ha dato amore a chi non meritava, ha seguito idee sbagliate, mentre colui che è tormentato da un amore negato, impossibile, tradito si spacca il cuore con un colpo di pistola. Il tormentato, ossessionato dalla passione irrealizzabile si getta nel fuoco o si da fuoco; l’acqua, raggiunta per lo più dai ponti, è cercata da coloro che non hanno più speranze come Ofelia.
Se in qualche misura questo è vero quali altre nostre reazioni, impulsi, schemi mentali sono collegati per sottili, invisibili filamenti al passato prossimo o remoto?
Purtroppo è impossibile documentare anche quanto della nostra vita quotidiana è materia arcaica passata dalla spelonca a noi attraverso il linguaggio. Guardando i proverbi che sembrano saperla lunga in fatto di antichità, si trovano sorprese che, se non dimostrano, additano significativamente. A chi si lamenta del fumo che lo investe fastidiosamente si usa ad esempio a ripetere un proverbio: Il fumo va dai belli. Pare uno scherzo, dal momento i brutti si trovano con il fumo negli occhi come Adone o Rodolfo Valentino. In realtà il detto è più sottile, concreto, empirico e si chiarisce considerando il fumo come una metafora dell’invidia, della critica, che logicamente colpiscono più chi è ricco e dotato e quindi richiede d’essere offuscato e annerito per fare un po’ di spazio anche a chi gode meno di doni e talenti.
Molti nostri proverbi si trovano seminati a piene mani, non solo nelle letterature classiche, ma anche delle documentazioni più antiche come l’Antico Testamento, i testi egizi, quelli della Biblioteca d’Assurbanipal o i Veda: tutti testi che provengono a loro volta da precedenti tradizioni orali.
Un gesto innocente, e si direbbe anche piuttosto moderno, come quello del lancio dei confetti sulla folla da parte degli sposi all’uscita dalla chiesa sorprende per i suoi antecedenti arcaici. Le noci sono state le antenate delle palline nei giuochi dei ragazzi: si sa soprattutto dai testi poetici (viene attribuito a Ovidio un poemetto De Nuce) che i bambini e i ragazzi della Roma antica ne avevano una vera passione e quando arrivavano ad essere adulti, al momento di sposarsi, come le ragazze lasciavano le bambole ai piedi dell’ara, i giovani lanciavano le noci, le mandorle, i noccioli dei loro giochi infantili al corteggio degli adolescenti che si gettavano nella baruffa per raccoglierle.
La struttura di questi vegetali ripete quella dei nostri confetti: una parte interna rivestita da materia dolce, e il perdurare così a lungo dell’usanza, suggeriscono l’idea che le noci fossero anche portatrici del simbolo della fecondità, del seme nascosto destinato a dare pieno valore al matrimonio.
Un orrore misterioso si aveva per la profanazione di certe cose come il pane avanzato che assolutamente non doveva essere gettato via, ma dato agli animali; così le immagini, in particolare quelle sacre, santini, oggetti del culto, scapolari, corone che dovevano rigorosamente essere bruciati.
Uno di questi tabù era il focolare. Quando la fiamma ardeva in ogni casa costituiva una specie di sacco delle immondizie dove spariva tutto ciò che di inutile era combustibile, ma se qualcuno s’azzardava a gettarvi qualcosa d’impuro, di sconcio, di puzzolente erano guai perché il camino era sacro. Lassù nella cappa nera volavano le monachine (faville) che andavano in Paradiso a raccontare agli scomparsi se la famiglia li ricordava. Di là passava la Befana; là sotto stava il Ceppo, segno del Natale su cui si ponevano i regali; di là scendevano nelle fiabe le fate, stavano in ascolto le anime erranti e si calava a volte anche il Diavolo.
Niente di strano se di pensa che il focolare era il luogo più sacro della casa romana, la sede dei Lari, gli spiriti degli antenati protettori della famiglia, per cui si comprendono anche le voci che vengono giù dal camino, i folletti che vi abitano, le fate che ascoltano e anche la tradizione del Grillo del Focolare, l’essere misterioso col quale litigava e parlava Pinocchio. Grillo dei muri, di forma simile al grillo dei campi, ma di colore marroncino o grigio, è ritenuta ancora una presenza benefica per una casa e il suo canto è apportatore di felicità e ricchezza, per cui non va né molestato, né scacciato. Per la sua esistenza sotterranea è ritenuto in contatto con la vita dei morti, anzi ne è addirittura l’incarnazione.
Ancora usa, sia pure come gioco, far nascondere al bambino il dente di latte caduto in un luogo segreto, nel buco di un muro perché la notte un topino se lo porterà via lasciandovi una moneta. Anche questa è una scoria d’un rito arcaico volto a far sì che nessun estraneo alla famiglia si possa impadronire di una parte del corpo così intima di una persona: nel mondo della magia equivale a venire in possesso della persona stessa, potendosi agire su questa con incantesimi, fatture o altre diavolerie che ancora si fanno da maghi e maghesse. Per questo si usa ancora bruciare i capelli rimasti nel pettine, oppure in senso opposto donarsi all’amato completamente consegnandogli un ciuffo dei propri capelli.
Fino a qualche anno fa i ragazzi in campagna giocavano al fuori verde, un gioco infantile molto diffuso nel Centro Italia ma conosciuto in tutta l’Europa in forme diverse ed era il retaggio di operazioni scaramantiche volte a portare il primo germoglio verde della primavera come amuleto, uso simile alla primizia, all’olivo benedetto o all’erba della Madonna raccolta durante le Rogazioni. Consisteva nel patto stipulato tra due amici di tenere sempre sulla propria persona un ramoscello verde, in genere di bosso. Incontrandosi il primo che si ricordava chiedeva al compagno:
– Fuoriverde! L’altro, se ne era privo, perdeva un punto, ma se aveva il bosso, lo mostrava dicendo:
– Fuori il tuo, il mio non perde! Durante tutta la Quaresima si cumulavano i punti e alla fine si bilanciavano facendo pagare a chi aveva perso quanto era stato convenuto.
La natura offre un’infinità di giocattoli elementari, ma per rimanere ai documenti archeologici basta considerare che il Gioco dell’Oca, come quello della Campana, ha la configurazione di un percorso iniziatico. Se poi si considera che nell’Egitto più antico era assai diffuso un gioco simile alla spirale dell’Oca detto del Serpente Mehen (v. Enciclopedia universale dell’arte, De Agostini, Novara 1981, VI, voce Giuochi, pag. 259) che era disegnato sopra una tavola rotonda avvolto a spirale con la testa nel centro, si ha qualche ragione di pensare che la strada sia lunga e sprofondi nella notte dei tempi. Anche gli egizi usavano pedine che facevano avanzare verso la meta con birilli e sistemi di sorteggio, cosa che rimanda a riti divinatori.
Il nascondino, mosca cieca, l’aquilone, la fionda, raggiunto il vertice della perfezione, sembrano eterni. Il tracciato della Campana (o il Mondo, la Settimana) si ritrova incisa nei selciati del periodo romano. Gli scacchi hanno origine favolosa tra i saggi e i sovrani dell’India Vedica, la Dama è documentata in un papiro egizio risalente alla Terza Dinastia e conservato al British Museum: vi si trova rappresentato umoristicamente un leone che gioca a dama con un liocorno sgomento e lo vince ammucchiando le monete sotto la propria zampa: tra loro sta la scacchiera identica a quella che usiamo oggi.
Lo stesso può dirsi delle bacchette cinesi dette shanghai, dei tarocchi, le carte, l’arpa eolia. Solo il kottabo un gioco complesso da tavola di cui etruschi e romani andavano pazzi, è scomparso.
In via d’estinzione con l’industrializzazione è la regola dell’ultimo frutto, che si soleva lasciare sulla pianta al momento della raccolta così come si lasciava nel vassoio il boccone della creanza, per dire con quell’avanzo che sulla tavola era stato apparecchiato abbondantemente per cui tutti si erano alzati senza desiderare altro. La consuetudine risale almeno al Medio Evo quando nel raccogliere i frutti dei campi se ne lasciava una parte agl’indigenti, agli spigolatori, ai poveri, ai viandanti e agli animali, che è quanto dire che l’uomo non si riconosce come unico padrone della natura.
Altrettanto si può dire dell’ultimo goccio di vino rimasto nel bicchiere che i contadini versavano in terra quasi una libagione scaramantica agli dei inferi; della zolla di terra che i congiunti gettano nella tomba dello scomparso, dello spalancare le finestre appena uno muore, del lancio di riso agli sposi, quello della moneta nella fontana, dei cocci in strada la notte di Capodanno, l’orrore per trovarsi in tredici a tavola, il cappello appoggiato sul letto e cento altre ubbie.
C’è ancora un’arcaica sopravvivenza nei paesi: in certe ricorrenze si usava da parte di giovani disturbare le ragazze con più o meno rituali percosse, che le donne a parole non gradivano, ma di fatto ricercavano, anche perché le tormentate erano di solito le più bellocce. A Montepulciano si chiama le mestolate: per la fiera del Primo di Maggio i giovanotti usano ancora comprare a un banco un mestolo e con quello infastidire quante belle spose e ragazze capitano loro a tiro. A Milano qualcosa di simile avveniva per la festa di S. Stefano (26 dicembre): ragazze da marito e giovanotti da moglie convenivano durante la fiera nella Piazza di S. Stefano e qui, evitando elegantemente l’imbarazzo delle dichiarazioni, ognuno prendeva a spallate, spinte, urtoni, la bella su cui aveva messo l’occhio e questa capiva subito il profondo sentimento dell’uomo e, se le andava bene, le nozze avvenivano per la Domenica Grassa (R. Bagnoli, Festività e tradizioni milanesi, Multigrafica Editrice, Milano 1973, pag. 256).
A nessuno sfugge il sospetto che dietro questo strano rito si nasconda una propiziazione della fecondità che gli antichi credevano che si attivasse con le percosse, tanto che a primavera percorrevano i campi percotendo la vegetazione con le verghe. A Roma in onore di Fauno Luperco, si celebravano i Lupercali, feste durante le quali giovani e i sacerdoti Luperci percorrevano le strade colpendo con le cinghie ricavate dalle pelli degli animali sacrificati le donne che ne erano contente.
Un altro uso arcaico, ma ancora celebrato è quello delle parate o barriere. Nei matrimoni in campagna dopo il pranzo di nozze era uso che gli sposi si avviassero verso la loro casa tutti vestiti a festa come in chiesa. Durante questo tragitto trovavano la parata fatta da un gruppo di ragazzi sbarrando la strada con un nastro colorato lungo il quale erano campanelli e oggetti luccicanti: se volevano passare dovevano offrire una congrua quantità di confetti, altrimenti bisognava cambiare strada o prendere per i campi. Il rifiuto del pagamento causava rappresaglie con sberleffi, lanci di frutta, acqua. Ma era solo una possibilità: lo sposo contrattava il pagamento e i giovani ribaldi stabilivano il prezzo secondo la bellezza della sposa: più era bella, più lo sposo doveva versare.
L’uso ricopre l’Italia e gran parte dell’Europa. È detta serra in Valtellina, lacci, zagarelle in Abruzzo, barricata in Piemonte e Lombardia, serraglio, sbarra nelle Marche, barrera nel Canavese, sciupa nell’Ossola, serraglio della sposa a Firenze. Un tempo era una cosa molto seria ed era volta a regolare i passaggi da una comunità a un’altra delle donne che si sposavano fuori. La partenza della sposa che lascia anche la comunità per andare ad abitare lontano era sentito come uno strappo, una lacerazione e in tempi arcaici doveva essere compensato. Il matrimonio per ratto simulato della sposa, a cominciare da quello delle Sabine, è stata una delle forme più praticate ai primordi della civiltà ed è durata a lungo nelle società tribali, sia pure regolata da norme rigide e precise.
In certi luoghi, quando una ragazza andava ad abitare fuori del paese si arrivava, come a Rivara, a suonare le campane a morto finché non veniva fatta l’oblazione dallo sposo dei diritti di parata, rigorosamente previsti.