Opinioni & Commenti
Terrorismo e antiterrorismo nella stessa logica di sangue
Dopo quasi 700 vittime degli attentati terroristici ormai un israeliano su quattro ha un parente o un amico che è stato ucciso o ferito in un attentato. Un israeliano su due non prende più un autobus. Otto su dieci fanno squillare il telefono più volte al giorno per assicurarsi della sorte dei loro cari.
Il terrorismo ha ormai troppe celebrazioni nelle case, nelle strade, nelle scuole, persino sui siti Internet. Se per le frange estremistiche del movimento palestinese ogni israeliano è un obiettivo potenziale anche se è un ragazzo o una donna, per la strategia repressiva di Sharon ogni eventuale terrorista va eliminato prima che compia il suo gesto con una sorta di inedita punizione per non aver ancora commesso il fatto. In due anni terrorismo e antiterrorismo non hanno provocato altro che lutti e uno schiacciarsi sulle posizioni estreme dall’una e dall’altra parte. Solo poche voci si levano per interrompere una logica che ormai è chiaro non avrà né vinti né vincitori, ma solo il crescere dell’odio contro l’odio. Al di là delle misure militari inefficaci e spesso ingiuste, al di là del lavoro diplomatico che ormai sembra essersi arreso, forse c’è bisogno sempre più di una diplomazia dal basso, di un tentativo sul territorio per ricucire una realtà lacerata e accecata, per cancellare l’immagine dell’altro come male assoluto.
Ha scritto lo scrittore israeliano Amos Oz: «Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto fra ciò che è giusto e ciò che è giusto, fra il bene e il bene, talvolta fra il male e il male, ma mai fra buoni e cattivi». Eppure, proprio in questi casi in cui ognuno ha almeno una parte di ragione, la pace sembra impossibile finché le proprie ragioni accecano la ragione e la necessità di vivere accanto.