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Terrasanta, la mossa russa

di Romanello Cantini La visita di Putin in Israele, il 27 e 28 aprile, ha costituito un avvenimento: è la prima volta, da quando lo Stato ebraico è nato, che un uomo di Stato russo vede Gerusalemme. Per quasi quaranta anni quella che fu l’Unione Sovietica è stata la naturale alleata del mondo arabo, il soccorso estremo nei momenti peggiori, l’arsenale dove ci si riforniva di armi e la scuola dove si imparava a maneggiarle. Dall’altra parte c’era solo il sionismo descritto come la punta di diamante dell’imperialismo e la terra che aveva costituito l’alternativa polemica per più di un milione di ebrei fuggiti dall’Urss.

Il fatto che ora Putin abbia violato una interdizione quasi semisecolare non deve tuttavia troppo sorprendere. Già Samuel Huntington ne “Lo scontro delle civiltà” aveva previsto questi rovesciamenti di fronte e queste sorprendenti alleanze fra i nemici di ieri di fronte al terrorismo. E soprattutto da questo lato Putin e Sharon hanno addirittura una sintonia particolare che li distingue e li caratterizza. Per entrambi la lotta al terrorismo è una priorità contro il male assoluto senza “se” e senza “ma” indipendentemente dalle ragioni domestiche che possano alimentarlo o addirittura giustificarlo, si chiamino esse Cecenia o Palestina.

Va da sé che il viaggio di Putin si inserisce anche in quella competitività nei confronti degli Stati Uniti che rappresenta l’ultima eredità residua della guerra fredda e che è ridiventata più acuta negli ultimi mesi. Da quando, due anni fa, i Paesi baltici sono entrati nella Nato e da quando, negli ultimi mesi, Paesi come l’Ucraina e la Georgia sono passati in mano a governi filoccidentali, la Russia vede ormai penetrare l’influenza americana fatta anche di basi militari, di assistenza tecnica e di accordi petroliferi in quella che ancora quindici anni fa era la grande periferia del suo impero. Un nuovo protagonismo russo dentro il grande alleato di sempre degli Stati Uniti può servire a cercare una compensazione nel campo avverso a questa invasione anche senza illudersi troppo sulla sproporzione delle forze fra Mosca e Washington nella capacità di indirizzare la politica israeliana.Come strumento di pressione Putin ha dalla sua parte l’uso di quel supermercato delle armi che la Russia oggi costituisce nei confronti del mondo intero se non altro come ripiego per svuotare i magazzini di una grande industria del passato che non ha più clienti in patria. Sharon di fronte a Putin si è, infatti, opposto alla fornitura di armi russe all’Autorità palestinese e alla Siria e si è detto molto preoccupato della fornitura di materiale nucleare all’Iran. Putin ha accolto solo in minima parte le richieste di Sharon, ma ha potuto, comunque sia, dimostrare il suo punto di forza nel campo dei suoi tradizionali alleati, oggi in cerca di una qualche sponda di sostegno di fronte alle pressioni americane e anche europee. Putin mantiene ottimi rapporti con la controparte palestinese come è stato dimostrato dai colloqui avuti, il 29 aprile, dal presidente russo a Ramallah. E su questo piano, nell’attuale delicatissima situazione del nuovo rapporto creatosi fra israeliani e palestinesi, un’opera di mediazione meno squilibrata nei confronti di Sharon di quanto non lo sia la posizione americana, non è del tutto sprecata. Sharon ha potuto ospitare Putin in Israele anche perché si è parzialmente riabilitato nei confronti del mondo arabo con la proposta di ritiro delle colonie israeliane da Gaza previsto al massimo per il prossimo agosto. Da quasi tre mesi, dopo l’incontro fra Sharon e Abu Mazen a Sharm el Sheikh, la tregua regge quasi per un incanto prodigioso, nonostante la uccisione di tre ragazzi palestinesi a Rafak e i conseguenti colpi di missile senza vittime sulle colonie.E tuttavia, in questa calma quasi miracolosa rispetto al recente passato, rimangono minacciose nel sottofondo le opposizioni alla evacuazione da Gaza e soprattutto la sorte delle altre grandi colonie ebraiche in Cisgiordania oltre alla ventilata creazione di una nuova enorme colonia di 3.500 abitazioni a Nord-Est di Gerusalemme. In effetti il ritiro da Gaza deve essere un punto di partenza e non di arrivo, se si vuole consolidare la tregua e offrire argomenti ai sostenitori di un processo di pace da perseguire nella nonviolenza anche in previsione delle elezioni legislative del prossimo luglio nei territori palestinesi. Putin che già fa parte insieme agli Usa, all’Ue e all’Onu del quartetto che deve guidare la cosiddetta “road map” chiede di accelerare i tempi e di mettere tutte le carte della pace sul tavolo di una conferenza a Mosca. Sharon ha rifiutato la proposta perché non vuole trovarsi in un consesso in cui sarebbe in minoranza. Eppure, pur in questa o in altre sedi, meglio prima che troppo tardi, è questa la soluzione globale a cui si dovrà arrivare.