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Terra Santa, un incendio che può essere spento solo dall’esterno

DI ROMANELLO CANTINIQuando la guerra dichiara che la vita umana non è più sacra anche i luoghi cessano di essere santi. Perfino Betlemme non è più un presepio, ma un bunker, anche se è stata la culla non solo di Gesù, ma anche di David. La basilica della Natività è diventata trincea da un lato e fortezza assediata dall’altro. E questo nonostante gli accordi del 1993 con Israele e quelli del 2000 con l’Autorità palestinese che dovevano riconoscere in Terra Santa i luoghi in cui i cristiani sempre meno numerosi si riconoscono. In poche settimane si è elevato enormemente il livello dello scontro e si è abbassata la soglia di umanità. Nel conflitto senza fronte e senza regole non è più necessario essere soldati israeliani o terroristi palestinesi per essere uccisi. Basta sempre più spesso essere israeliani o palestinesi. Si muore per quello che si è non solo per quello che si fa. Nella temperatura di fusione raggiunta dall’odio sono uguali uomini e donne, vecchi e bambini.La guerra aperta ha arruolato su fronti contrapposti non solo i combattenti, ma anche gli animi. Dietro il bulldozer Sharon che stritola i territori occupati, che fruga nelle città che dovrebbero essere dell’Autorità palestinese come se fosse una propria riserva di caccia, che seppellisce vivo a Ramallah l’interlocutore di ieri, c’è oggi la stragrande maggioranza degli israeliani, compresi coloro che alcuni mesi fa ancora marciavano per la pace.

Dietro un Arafat diventato simbolo quanto più è mummificato nelle sue due stanze a Ramallah si ricompatta il suo ruolo palestinese più dialogante con le frange di Hamas e della Jihad negatrici della esistenza di Israele, si promettono kamikaze a centinaia, si onorano le bombe umane come martiri, si concedono gratificazioni e provvidenze alle loro famiglie.

Due premi Nobel per la pace di dieci anni fa, Arafat e Peres, sono diventati, secondo gli opposti insulti, «capo degli assassini» e «ministro di un governo boia». Dietro le nuove vittime che ogni giorno si accumulano nelle opposte, incancellabili memorie si possono vantare dei fini assurdi di vittoria, ma non si intravede nessuna fine che possa assomigliare ad una pace. Anche quando si fossero scovati tutti i «terroristi» non si troverà più fra i palestinesi un interlocutore.

Dall’esplosione della Palestina si sviluppa una nube tossica che infetta anche il resto del mondo. Su opposte piazze da un lato si torna a sostenere Israele come l’oasi di democrazia in un deserto di dittature, come il mantello lungo dell’Occidente in un mondo semi barbaro. Dall’altro l’israeliano diventa di nuovo «il sionista», perfino «l’ebreo», forse domani anche «il giudeo» che ha nel suo Dna la sete di dominio secondo una logica pericolosa che ha visto negli anni più recenti il nuovo antisemitismo, compreso il negazionismo dell’Olocausto, nascere spesso da un estremismo sinistro.

La Palestina è ormai incapace di salvarsi da sola. Prima che i cocci siano irreparabili come quelli di una lampadina rotta, prima che l’incendio si estenda, ci vuole un deciso intervento esterno. La seppur tarda iniziativa americana decisa, almeno a parole, a porre un alt all’occupazione dei territori occupati e a spiegare anche una forza internazionale, può essere oggi l’ultima chance. Purché sappia veramente farsi intendere e purché abbia intorno il sostegno e l’iniziativa del resto del mondo a cominciare dai nostri governi europei.

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