Opinioni & Commenti
Terra santa, la via tragica della violenza
DI ROMANELLO CANTINI
Ogni sera che accendiamo il televisore sappiamo già una notizia prima che ci venga raccontata dal telegiornale: che cioè anche in quel giorno ci saranno stati morti e feriti in Palestina. L’eccezione è la regola, lo straordinario il quotidiano. La notizia, la vera notizia, sarebbe il miracolo dell’assenza della notizia, che cioè in quelle ventiquattro ore nessun uomo o donna o bambino è stato ucciso. E per arrestare almeno per un giorno il moto perpetuo della rappresaglia e della controrappresaglia ci vorrebbe un sasso, un granello di sabbia, un sabotaggio oggi impensabile come un attimo di tregua, un istante di perdono, un brivido di rimorso prima della risposta automatica della legge del taglione.
La logica che si è instaurata in Israele è ormai quella di domare la violenza con la violenza, di stancare il nemico con le perdite, di imporre la resa con il terrore. Nulla è più illusorio di questa presunta pace raggiunta con la presunta vittoria. Fino a due mesi fa i morti di ogni giorno si potevano contare in genere sulle dita della mano. Oggi sono ormai decine a cadenza quotidiana. Negli ultimi diciassette mesi, da quando nel settembre di due anni fa iniziò la nuova Intifada, i morti da una parte e dall’altra sono ormai 1400: più di quanti non ne aveva fatti la prima Intifada in un periodo di sei anni dal 1987 al 1993.
Da una parte si muore ai posti di blocco, in pizzeria, in discoteca, nei bar, in autobus. Dall’altra nelle case, per le strade, perfino negli ospedali e nelle prigioni. Sharon si è prefisso di eliminare il «terrorismo» con l’assassinio preventivo dei presunti terroristi, con la distruzione delle loro sedi, con il setacciamento casa per casa dei presunti covi dei «terroristi», in realtà con l’occupazione a colpi di mitra e di cannone dei campi palestinesi. Ogni giorno che passa dimostra che il «terrorismo» non è alimentato solo da uomini, da capi, da sedi, da santuari, ma dalla violenza stessa che fa sì che anche delle bambine diventino kamikaze e che perfino organizzazioni vicine ad Al Fatah, come i Martiri di Al Aqsa, si dedichino ormai all’attentato.
Tutto quello che Sharon voleva fare l’ha fatto con i risultati che vediamo. Potrebbe addirittura fare il massimo rioccupando tutti i territori palestinesi. Ma anche qui la prova è stata già fatta addirittura trentacinque anni fa all’indomani della guerra dei Sei giorni.
Nemmeno la «vittoria» del 1967 mise fine alle rivendicazioni e alla resistenza dei Palestinesi. Anche senza terra, anche senza basi di appoggio, anche senza un’autorità riconosciuta, i palestinesi hanno continuato per venticinque anni a incalzare e a interrogare Israele.
In realtà tutto quello che si poteva tentare con le armi è stato già tentato, quello che si poteva ottenere con la forza è stato già consumato da tempo e tragicamente invano.
Da Israele arrivano ormai da troppo tempo notizie, ma non novità. Spetta alla comunità internazionale introdurre il nuovo in un copione ormai troppo visto, troppo ripetuto, troppo fallimentare.