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Terra Santa, la verità sull’assalto al villaggio di Taybeh

di Giovanni GianfrateLa notizia che Taybeh-Efraim, il villaggio cristiano palestinese adottato dalla diocesi di Firenze e gemellato con la parrocchia della Basilica fiorentina di San Lorenzo, sia stato violentemente attaccato dagli abitanti musulmani del vicino villaggio di Deir Jarir ha fatto il giro del mondo, ma nel senso sbagliato.

In Italia, dopo il servizio «romanzesco» di Claudio Pagliara per il Tg2, ne hanno parlato tutte le testate giornalistiche generalmente ripetendo quanto aveva scritto il quotidiano israeliano Ha’aretz. Perciò, la tendenza è stata quella di presentare gli avvenimenti come uno scontro tra musulmani e cristiani.

In breve, per vendicare l’onore di una donna, nella notte di sabato 3 settembre, centinaia di giovani del vicino villaggio musulmano di Deir Jarir sono entrati a Taybeh e hanno dato fuoco a 14 case, spargendo il panico tra la comunità cristiana in fuga. L’incursione, grave e brutale, poteva avere conseguenze ben più drammatiche.

Soprattutto, la saggia mediazione di Don Raed Abusahlia, parroco latino di Taybeh, ha fatto sì che il conflitto tra due famiglie non degenerasse in un cruento scontro fra musulmani e cristiani. Ai cristiani di Efraim, l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Ennio Antonelli, ha inviato un’affettuosa lettera nel giorno della Natività di Maria, esprimendo la sua vicinanza nel momento doloroso e chiedendo la protezione della comunità per intercessione di Nostra Signora di Efraim, che nel villaggio ha già fatto molti «miracoli» in questi ultimi anni.

«Il Signore – ha scritto Antonelli – illumini i cuori di chi semina odio e violenza; liberi da ogni forma di oppressione, perché siano riconosciuti ovunque i diritti umani e primo tra tutti la libertà di coscienza. Maria, Regina della Pace, ottenga ai cristiani di poter vivere in pace nella terra che ha visto nascere lei e suo Figlio Gesù; tenga viva e accesa in voi la fiamma della fede, della speranza e dell’amore».

L’intervista:«Non è statouno scontro tra cristianie musulmani»Don Raed Abusahlia è il parroco latino di Taybeh. A lui abbiamo chiesto cos’è accaduto sabato 3 settembre nel suo villaggio.

«Il mercoledì precedente – spiega don Raed – una donna di 32 anni è stata uccisa nel vicino villaggio di Deir Jarir dalla sua famiglia perché hanno scoperto che era incinta. Per nascondere il loro crimine, l’hanno sepolta senza certificato di morte. Quando le forze di sicurezza ne sono venute a conoscenza, hanno fatto riesumare il corpo ed eseguire accertamenti a Ramallah, verificando che era incinta. La famiglia ha allora accusato un giovane del nostro villaggio di aver avuto rapporti con questa ragazza. Lei lavorava in un laboratorio di cucito di Taybeh da più di dieci anni. Abbiamo cercato di impedire ogni possibile reazione violenta del villaggio e della famiglia. La famiglia Khouri e la gente di Taybeh hanno deciso di mandare una delegazione per chiedere una A’twa (mediazione per giungere alla riconciliazione). Purtroppo, loro hanno rifiutato la A’twa e hanno deciso nella stessa notte l’attacco con centinaia di giovani. Hanno incendiato la casa di questo giovane e altre 14 case che appartengono a membri della famiglia Khouri».

Qualcuno è rimasto ferito?

«Nessuno. Tutti hanno saputo che stavano venendo ed hanno lasciato le loro case. L’attacco è stato molto violento e la polizia palestinese è arrivata molto in ritardo, dopo la mezzanotte, perché vi è stato un problema di coordinamento con gli Israeliani. Siamo nella Zona B, e avere la polizia palestinese in uniforme e armata sul posto richiede il coordinamento con l’esercito israeliano».

Ci sono ancora forze di sicurezza nel villaggio?

«Sono rimaste solo tre giorni. Il secondo giorno, la domenica, i sindaci dei villaggi circostanti, il governatore di Ramallah e l’ufficio del presidente Mahmoud Abbas si sono tutti mobilitati per porre fine a questa aggressione. La domenica vi era anche il funerale della ragazza e abbiamo temuto un altro attacco».

La situazione è calma da allora?

«La domenica abbiamo mandato un’altra delegazione con il governatore di Ramallah per chiedere la A’twa. Abbiamo detto di lasciare prevalere la legge. Lasciare che le forze di sicurezza continuino la loro indagine. Fortunatamente, dopo la A’twa di riconoscimento della colpa la situazione si è calmata e fra sei mesi speriamo che ci sia una Sulha (riconciliazione)».

Che considerazioni ha tratto da questa vicenda?

«La prima è che non è accettabile e non è giusto che tutta la comunità di Taybeh debba pagare un costo pesante per le azioni di due persone. La seconda è che l’aggressione dei giovani di Deir Jarir è stata una reazione violenta, ingiusta e barbara, ma non deve essere considerata come un attacco da parte di un villaggio musulmano contro un villaggio cristiano. Terza, l’intervento delle forze di sicurezza palestinesi, anche se tardivo, è stato molto efficace. Per questo motivo abbiamo chiesto all’Autorità di avere una presenza in tutti i villaggi della zona, per proteggere la gente e per imporre l’ordine della legge. L’ultima considerazione è che abbiamo risolto questi problemi in un tempo molto breve grazie alla concordia e alla solidarietà di tutte le autorità e i sindaci di tutti i villaggi musulmani della zona. Sono intervenuti e mandato una delegazione a Deir Jarir e chiesto la cessazione delle ostilità. Hanno condannato l’attacco a Taybeh e successivamente si sono adoperati per abbassare la tensione».

Non avete paura, dunque, che siano stati compromessi i rapporti tra musulmani e cristiani?

«No. Certamente dobbiamo lavorare ancora molto su questo fronte, ma respingo i giornali e le persone che hanno sostenuto che si è trattato di uno scontro tra musulmani e cristiani. Ripeterò questo milioni di volte: noi siamo arabi, siamo palestinesi e siamo cristiani da duemila anni. Questo è un piccolo villaggio biblico. Siamo vissuti in pace con i villaggi musulmani circostanti per quattordici secoli. Non abbiamo altra scelta che vivere insieme, l’uno a fianco all’altro, in rapporti amichevoli».

Croce e Mezzalunanella terra per tutti santadi don Peter MadrosPer i lettori toscani, il sottoscritto è un illustre sconosciuto. Il nome e il cognome sono occidentali: l’inglese Peter si aggiunge al quasi greco o spagnolo o amerindiano Madros. Si tratta invece di un sacerdote palestinese del Patriarcato latino di Gerusalemme dove nacque, battezzato Peter perché ai genitori l’equivalente arabo «Butros» sembrava antipatico. Il cognome è la contrazione dell’armeno «Mardirossian», la Famiglia dei Martiri. Ho avuto l’onore di essere l’alunno del padre Carlo Maria Martini all’Istituto biblico di Roma e di laurearmi in Scienze bibliche presso la Pontificia Commissione biblica, davanti al cardinale Josef Ratzinger. In poche parole, un miscuglio armeno-palestinese, responsabile del Centro pastorale biblico diocesano ed insegnante di Storia della Terra Santa.

Da qualche giorno gli incidenti di Taybeh – l’antica Efraim – l’unico villaggio nei Territori palestinesi autonomi rimasto quasi interamente cristiano – hanno risollevato la tematica dei rapporti cristiano-islamici nel seno del nostro popolo.

Gli incidenti sono nati dal fatto che una ragazza musulmana del villaggio vicino di Deir Giarir muore per avvelenamento. Pare che «ci fosse del tenero» – fino a una sua gravidanza – con un uomo cristiano sposato di Taybeh. O i fratelli l’hanno avvelenata o lei si è tolta la vita. Indignata, la gente di Deir Giarir ha fatto irruzione in Taybeh.I commenti sono divisi, come sempre in questa Terra della discordia! Qualcuno ha tuonato: «I musulmani di Deir Giarir, da tanto tempo desiderosi di ridurre o addirittura cancellare la presenza cristiana a Taybeh, hanno colto l’episodio al volo!». Altri invece ha dichiarato che «qui la religione non c’entra: tra due famiglie musulmane sarebbe successo lo stesso». «In medio stat virus». La verità, che normalmente viene evitata quando si parla di certi argomenti, si trova tra la prima e la seconda posizione, a mio parere. Parliamoci chiaro, tra due famiglie cristiane succederebbe, sì, un pandemonio, ma non giungerebbe a queste conseguenze.Ma che «la religione non c’entri», beh, no! Mica siamo in Svezia. La «religione», nel buono e nel cattivo senso, pesa, soprattutto negli ambienti musulmani. Che alcuni (tanti) abitanti di Deir Giarir, musulmani, s’intende, abbiamo reagito molto violentemente, superando i limiti dell’occhio per occhio e dente per dente, la cosa è palese. Hanno fatto quel macello perché il presunto trasgressore, un «massihi-nussrani» (un cristiano nazzareno), ha deflorato l’onore di una musulmana! Che lei fosse stata maggiorenne e consenziente non cambia nulla.

Persecuzione o no? I diplomatici dicono di no; le persone che non hanno nulla da perdere o da temere, sostengono il contrario. Qui, ancora, la verità è a mezza strada tra una convivenza pacifica di cittadini dello stesso popolo, martoriato e umiliato dall’occupazione israeliana, e tante ingiustizie soprattutto nella zona di Betlemme, dove i cristiani palestinesi sono le principali vittime di tante oppressioni.

Ma ecco, in riassunto, la nostra posizione: come palestinesi – sempre cristiani, perbacco – respingiamo l’occupazione israeliana come illegittima egemonia fondata non sulla forza del diritto ma sul diritto della forza! E come palestinesi cristiani vogliamo uno Stato palestinese sovrano, ma non islamistico, dove saremmo degli «zimmi», cioè degli abitanti di seconda categoria lasciati alla «zimmah» (coscienza in arabo) dei musulmani che ci debbono teocraticamente dominare, perché Allah l’avrebbe decretato così nel Corano, il Libro sacro dei musulmani, che disegna i cristiani con due vocaboli: «rum», romani (si tratta piuttosto dell’impero bizantino) e «nassàra», cioè nazzareni. Nei loro riguardi, la prima fase del Corano è tollerante, ma gli studiosi/scienziati musulmani (Ibn Hazm, per esempio) scrivono che i «versetti benevoli sono stati abrogati dal versetto della spada». In sintesi, bisogna uccidere i politeisti, anche i miscredenti, e umiliare «la gente del Libro» (ebrei e cristiani) facendo loro pagare la tassa, la «capitatio», per ogni maschio adulto sano di mente e di corpo.

Il Corano accusa i «nazareni» di essere dei bestemmiatori perché hanno divinizzato, a loro parere, Gesù (in realtà il Vangelo dichiara l’opposto: è Dio che si è fatto carne non viceversa, ma chi capisce queste sfumature?). Il Corano critica un «duo» che non è la nostra Trinità: Gesù e Maria! I musulmani ci considerano triteisti, adoratori di tre divinità!

I musulmani non possono vedere la Croce perché secondo la loro interpretazione del Corano Gesù non è mai stato crocifisso e credono che noi adoriamo quel legno. Quando poi uno sa che «l’Islam è religione e stato», «l’Islam deve sormontare e non lasciarsi mai sormontare».

Essendo questo il «principio», le conseguenze si fanno sentire e vedere sotto occupazione o no, «nella prosperità e nella povertà», nella guerra e nella pace. «Les idées mènent le monde», le idee guidano il mondo. Queste sono le idee, queste sono le premesse. Basta trarre le conclusioni. No, non basta del tutto! No, non è sufficiente conoscere il «principio». Per il caso della Palestina – cioè dei Territori palestinesi autonomi – bisogna aggiungere almeno due fattori.

I palestinesi, con tutto il rispetto, sono novizi in politica. È la prima volta nella loro storia, dal 1994 a questa parte, che si auto-governano. Sono sempre stati schiacciati, sottomessi ad altri popoli! Allora, liberi adesso, si sfogano: corruzione, furti astronomici, abusi di potere, ma nello stesso tempo buona volontà, sforzi di migliorare, riforme…

Secondo fattore: l’incubo, anzi la realtà amara dell’occupazione israeliana e l’egemonia sionista fino al Paese dello Zio d’America, quell’Uncle Sam che regge il mondo con il telecomando. È una frustrazione non indifferente per i musulmani che, come i nostri poveri Apostoli delusi della sconfitta di Gesù, sopportano male che il principio della dominazione dell’Islam venga contrariato dal superpotere israeliano e sionista, localmente e internazionalmente. Quando infine uno sa che, a Betlemme e nei dintorni, i terreni «non sono stati delimitati bene», o almeno «non con tutte le dovute pratiche», si capisce che quella zona soffre più delle altre di trasgressioni da parte di certi individui e gruppi islamici.

La conclusione la traggo dal Vangelo: «Venite e vedrete!». Veniteci a trovare, non da turisti ma da pellegrini, non da spettatori ma da protagonisti, non da stoici ma da simpatizzanti; non solo per parlare ma per agire, non solo per criticare (che ci fa del bene!) ma anche per aiutare, come avete fatto, e fate, a Taybeh.I due sacerdoti saranno a FirenzeSia il parroco don Raed Abusahlia, che il biblista don Peter Madros, saranno a Firenze a fine settembre. A questo proposito, le comunità parrocchiali che volessero incontrarli possono mettersi in contatto con il diacono Lorenzo Paolino (347 6146541) o con Giovanni Gianfrate (335 5340565), dell’Associazione Coltiviamo la pace.