Toscana

Terra santa, è l’ora dell’Europa

DI IGNAZIO INGRAO Dopo 39 giorni di assedio, la Basilica della Natività a Betlemme è tornata libera. La gente asserragliata nella Basilica è potuta tornare a casa e i tredici presunti terroristi palestinesi indicati dal governo israeliano sono stati trasferiti a Cipro. L’Unione Europa ha raggiunto un accordo sullo “status” da riconoscere ai tredici palestinesi: soggiorno sorvegliato, divieto di trasferirsi da un Paese all’altro dell’Unione, permanenza in Europa fino ad un anno. Accordo solo parziale invece sui Paesi di destinazione: l’Italia è disponibile ad accogliere non più di tre palestinesi ma le trattative non sono ancora concluse. Il cardinale Achille Silvestrini, già prefetto della Congregazione per le Chiese orientali e attento conoscitore della situazione mediorientale, lancia un appello attraverso il Sir: “L’Europa ha la responsabilità morale di sviluppare un’opera di sostegno e di mediazione per il processo di pace”. Lo abbiamo intervistato.

Eminenza, come valuta il comportamento del governo italiano per risolvere il problema della Basilica della Natività?

“Bisogna esprimere una parola di apprezzamento per l’opera fiancheggiatrice che ha svolto il governo italiano sia inviando soccorsi alimentari che facendo pressione perché si trovasse il modo di arrivare ad una soluzione per liberare la Basilica e permettere a tutti coloro che vi si erano rifugiati di tornare a casa”.

Ma come giudica le riserve espresse rispetto all’accoglienza dei tredici palestinesi espulsi?

“Non si può non riconoscere che era fondata l’obiezione espressa dal governo italiano di non volere e non potere agire da solo rispetto al problema dei tredici palestinesi. Così come era legittima – e infatti ha trovato l’assenso degli altri partner europei – la richiesta del governo italiano di precisare lo status di questi palestinesi prima di stabilirne la destinazione. Ora lo status è stato chiarito e, senza più indugio, i Paesi europei dovrebbero trovare un accordo definitivo sulla destinazione”.

La pro posta di accogliere i Palestinesi in Italia è stata forse troppo precipitosa?

“In realtà il governo italiano è sempre stato disposto a collaborare per risolvere il problema della Basilica della Natività. Ma, come dicevamo, aveva solo alcune perplessità da chiarire. Alcuni hanno ipotizzato che la tregua militare tra le parti sia stata gestita dalla Cia (i servizi segreti statunitensi, n.d.r.) e che questa abbia dato per scontata anche la piena disponibilità del governo italiano. Disponibilità che non è mancata ma che aveva bisogno di una preventiva intesa diplomatica”.

E’ stata lanciata l’ipotesi di una conferenza internazionale per risolvere il problema palestinese. Come la giudica?

“Tutti desideriamo che questa conferenza venga organizzata, abbia luogo al più presto e possa porre basi precise per un’intesa tra israeliani e palestinesi. Per la realizzazione di questa conferenza occorre tenere presenti alcuni dati di fondo della questione mediorientale che sono costanti. In particolare, tutti i piani di pace che sono stati formulati in varie circostanze dal 1948 ad oggi, specialmente nel corso dell’ultimo decennio, hanno come elemento comune il riconoscimento all’esistenza di due territori: il territorio dello Stato di Israele e quello del futuro Stato palestinese, pur con le varianti che ogni piano di pace può prevedere per i confini da tracciare. In nessun piano di pace si prevede che tutto il territorio venga definitivamente assegnato a una sola delle due parti”.

Quali sono le conseguenze di tale principio?

“Ciò comporta che i due territori, le due realtà, israeliana e palestinese, devono convivere. Bisogna perciò trovare la formula per garantire il rispetto, la dignità e la sovranità di entrambe le parti. Per perseguire questi obiettivi il negoziato non è sufficiente. Bisogna puntare a capovolgere la cultura della diffidenza e dell’ostilità e sviluppare una cultura di accettazione e di pace. Il negoziato è urgente e tutti speriamo che si svolga rapidamente ma l ‘affermazione di una cultura di pace naturalmente è molto più lenta”.

Quali sono le condizioni per garantire il successo della conferenza di pace?

“Per il successo di questa conferenza è necessario ricreare le condizioni favorevoli che, per esempio, esistevano in occasione della visita del Papa in Terra Santa, nel marzo del 2000. Giovanni Paolo II in quella circostanza ha incontrato il presidente di Israele, i grandi rabbini, ha visitato il monumento alla memoria delle vittime dell’olocausto e ha depositato una preghiera di perdono nel Muro del Pianto. Ma negli stessi giorni ha incontrato anche Arafat, si è recato in un campo profughi palestinese e ha confermato il diritto di questo popolo ad avere una patria con gli attributi della sovranità. Questo momento felice, nel quale venivano simultaneamente riconosciute le prerogative di entrambe le parti, va in qualche modo riproposto con una creatività di mediazione internazionale capace di sviluppare una cultura di pace”.

La definizione dello “status di Gerusalemme” è un ostacolo alla riuscita del negoziato?

“Certamente la definizione dello status di Gerusalemme è un problema importante. La Santa Sede chiede uno status internazionalmente garantito per Gerusalemme, da estendere nei modi appropriati agli altri luoghi santi. Ma, senza dubbio, questo non rappresenta il primo ostacolo da superare nel negoziato. Prioritaria è invece la rinuncia e la condanna di ogni forma di terrorismo e la definizione dei rapporti tra i due Stati”.

Arafat continua ad essere un valido interlocutore per la conferenza di pace?

“Oggi c’è Arafat. Finché il popolo palestinese lo riconosce è lui l’interlocutore per la comunità internazionale. Ora Arafat ha annunciato le elezioni per il popolo palestinese. Questo dovrebbe contribuire a chiarire la situazione. Tuttavia ha anche condizionato lo svolgimento di tali elezioni al verificarsi di alcune circostanze. Forse sarebbe desiderabile anticiparle”.