Toscana

Terra Santa, dove l’archeologia è davvero… sacra

di Filippo PaoliLe sue mani forti e robuste, la sua faccia che ha il colore di chi passa le giornate all’aria aperta parlano chiaro: padre Michele Piccirillo ama scavare, e si vede. E la passione con la quale parla del suo lavoro di archeologo in Palestina lo conferma. Padre Michele è un noto specialista nel campo dell’archeologia biblica e docente allo Studium Biblicum Francescanum di Gerusalemme. Francescano minore, è pubblicamente riconosciuto come il maggiore studioso di siti archeologici sulle rive del Giordano. Celebre al punto da diventare il protagonista de Il custode dell’acqua, un romanzo di Franco Scaglia che ha vinto il premio Campiello 2002 e nel quale ammette di ritrovarsi.

A Gerico padre Michele dirige un centro di formazione del restauro del mosaico antico; attualmente sei ragazzi seguono le sue lezioni e, finiti gli studi, tre di questi andranno poi a lavorare nei progetti dello stesso frate archeologo, gli altri tre rimarranno al centro per formare altri alunni. Padre Michele scava sul Monte Nebo, in Giordania dove Mosè, dopo aver visto la Terra promessa, morì ed è stato sepolto. In occasione della visita del Papa in Terra Santa durante il Giubileo padre Michele gli ha fatto da guida nella tappa sul Monte Nebo.

Padre Piccirillo, alunno di padre Bagatti, ha alle spalle secoli di presenza dei francescani in Terra Santa. Fu direttamente Francesco nel 1217 ad affidare a Frate Elia l’evangelizzazione della «provincia di Terra Santa». Nel corso dei secoli, con alterne vicende, i francescani sono sempre rimasti nei luoghi dove Gesù ha vissuto la sua esperienza terrena. L’archeologia, secondo padre Michele, non è qualcosa di accessorio per una fede storica come quella cristiana; e ci spiega perchè. Lo incontriamo dopo una conferenza che ha tenuto presso la sede pratese dell’Università di Firenze, invitato dal «Comitato pro pace in Palestina» che comprende le forze sociali, sindacali, ed ecclesiali della città laniera.

Allora, padre Michele, cosa comporta oggi lavorare in Terra Santa?

«Qualche difficoltà supplementare soprattutto per gestire i rapporti con l’estero e con la popolazione locale, particolarmente con i giovani con i quali lavoro. Ma le difficoltà maggiori sono per loro più che per noi. La difficoltà maggiore per questi giovani è quella di muoversi a causa dei numerosi check point che devono attraversare (con relativa perdita di tempo) per venire al nostro centro di Gerico. Per ovviare a ciò abbiamo chiesto anche al Governo italiano dei finanziamenti per fare una piccola pensione, lì al centro, in modo che i ragazzi non si debbano spostare tutti i giorni. A causa dell’Intifada le città palestinesi sono strette dall’esercito israeliano e dopo un po’ i ragazzi smettono di venire e vanno a lavorare da altre parti; alcuni di loro hanno già famiglia e devono sfamare moglie e figli. Proprio in questi giorni ho avuto la bella notizia che il Ministero degli Esteri italiano ha approvato il nostro progetto con i relativi finanziamenti anche per Gerico; così possiamo realizzare questa struttura residenziale».

In questo momento dove state lavorando e quali sono i vostri progetti?

«Il progetto principale è quello di Gerico nel Palazzo di Karshim Shan. Il progetto che abbiamo presentato al Ministero degli esteri è quello di realizzare delle copie dei mosaici raffiguranti Betlemme nel IV, V e VI secolo che si trovano nelle chiese di Roma; in questo modo diamo lavoro ai ragazzi e abbiamo il materiale per eventuali esposizioni».

Che significato ha l’archeologia in Terra Santa per i cristiani?

«Per noi che ce ne interessiamo direttamente l’archeologia in Terra Santa è un modo per tener vivo a livello scientifico, ma non solo, una presenza. Il cristiano sta lì non perché è terra ebraica o musulmana ma perché è casa sua. È da venti secoli la terra delle sue origini, delle origini del Vangelo cioè e da venti secoli è sempre stato lì. Il cristianesimo infatti è nato in Palestina e non a Roma o a Parigi. Dunque anche l’archeologia deve essere presente per documentare questa presenza e, in particolare nei santuari, può aiutare i pellegrini che visitano quei luoghi. Dire questa è la casa della Madonna, qui è nato Gesù, qui è stato condannato a morte o è stato crocefisso è una cosa molto importante. L’archeologia aiuta a spiegare che queste affermazioni non sono soltanto un fatto devozionale. Il fatto storico ha un rilievo molto importante nella fede cristiana che è una fede storica relazionata a un Tu, figlio di Maria, nato in una casa in Palestina; non è nato altrove e, soprattutto, non è un mito».

Ma non può essere riduttivo proprio per la fede cristiana, limitarsi a qualche pietra?

«No. In Palestina c’è bisogno anche delle pietre! Pensare che il cristianesimo sia soltanto la predicazione del Vangelo è sbagliato. Prendere il messaggio e astrarlo dalla persona di Cristo è un pericolo che c’è sempre stato nella storia della Chiesa. Il pericolo è anche quello di far diventare il cristianesimo una teologia o una filosofia che può essere anche una cosa bella ma non è cristianesimo perché la nostra è una religione storica, con un fondamento storica».

L’archeologia come salto nel passato, dunque?

«Sì, un salto nel passato, ma molto presente».

Un ponte per legare passato e presente?

«Esattamente. Il nostro lavoro è cercare di partire dal presente e, piano piano, scendere all’indietro lungo i secoli per trovare gli anelli che legano questa tradizione. È un materializzarsi della fede nella sua localizzazione».

Che rapporto c’è tra tempo e archeologia?

«Proprio questo. Appena ritrovato un anello, una cosa di 2 mila anni fa, diventa un’attualità. Così, i fatti del passato hanno incidenza diretta sul presente».

Un francescano in Terra Santa è proprio al suo posto?

«Per noi francescani l’archeologia in Palestina è una cosa normalissima. A Gerusalemme abbiamo l’Istituto di archeologia creato in funzione dei santuari di Terra Santa e rappresenta un complemento di tutto quello che si conosceva precedentemente e alle altre attività che si svolgevano già. Oltre a mantenere i santuari e presentarli ai pellegrini studiando le fonti storiche, i francescani hanno sentito l’esigenza di indagare ulteriormente. La prima missione archeologica francescana risale al 1933. Sarebbe come pensare alla storia di Firenze senza l’archeologia».