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Tempi duri per i giovani, ma la via d’uscita c’è: la indica Papa Francesco
Secondo il Rapporto annuale Istat per il 2012, l’Italia ha la quota più alta d’Europa dei cosiddetti NEET, ovvero giovani fra i 15 e i 29 anni che non lavorano, né studiano, né si formano al lavoro. Al 2012, ben 2 milioni 250 mila persone, ovvero il 23,9 per cento. E in quello del 2013, a proposito di questa massa che non ha un’occupazione, ma neppure segue un qualche percorso per averla, si precisa che «tra le forze di lavoro potenziali è aumentata la quota di quanti dichiarano come motivazione della mancata ricerca lo scoraggiamento: non si cerca più un lavoro perché si ritiene di non poterlo trovare». Siamo davanti a qualcosa di diverso dalla semplice disoccupazione: le parole che vengono alla mente sono «scoraggiamento», «disperazione». Non di una piccola minoranza, ma di due milioni e mezzo di giovani!
Il secondo fattore è la sproporzione tra il livello del benessere diffuso – con le attese e le esigenze che suscita in chi ci vive dentro – e le prospettive di inserimento dei giovani. Nel secondo dopoguerra la società italiana era molto più povera di oggi. Si tirava avanti con poco e si era contenti di farlo. Anche il tenore di vita della borghesia medio-alta era, a confronto di quello odierno, decisamente più modesto. Non era tanto virtù, quanto necessità. Il succedersi dei «boom» economici, a cominciare da quello degli anni sessanta, ha cambiato le cose radicalmente. I giovani, oggi, anche quelli di famiglie non particolarmente agiate, sono cresciuti in un contesto consumistico che li ha abituati ad accedere a una serie di beni voluttuari di cui non ritengono più di poter fare a meno, senza però in realtà avere alcuna prospettiva di poterseli permettere quando saranno morti i nonni o i genitori che attualmente li mantengono. Questa non è una generazione di poveri, ma di ricchi sull’orlo di un drammatico impoverimento.
Il terzo fattore che rende difficile la vita dei nostri giovani è forse il più decisivo e riguarda la crisi che ha colpito, più della finanza, più dell’economia, la dimensione etica e culturale della nostra società. La fine delle ideologie tradizionali ne ha lasciato in campo, dominatrice, soltanto una (più insidiosa perché mascherata): quella di un individualismo possessivo che rivendica come diritti tutti i desideri, scambiandoli automaticamente per bisogni reali e trasformandoli in pretese. Una simile ideologia restringe gli orizzonti all’angusta ottica della propria realizzazione, in una chiave tendenzialmente narcisistica, che porta a escludere ogni impegno verso orizzonti più ampi, capaci di includere anche gli altri. E rende impossibile pensare a una donazione piena di sé a una grande causa.
Emblematico il bel film di Peter Weir, L’attimo fuggente (1989), splendido nel valorizzare l’autenticità dei singoli di fronte alle pressioni di una istituzione conformista e bigotta, ma dove non risuonano neppure una volta termini come «società», «politica», «poveri», «giustizia». I giovani protagonisti vogliono «succhiare il midollo della vita», ma non sembrano minimamente preoccupati di condividerlo con gli altri. E il solo martire non muore per una causa più grande di lui, come tanti giovani in passato, ma perché dispera di potersi realizzare.
Acquistano a questo punto una singolare, bruciante attualità i richiami rivolti a giovani da Papa Francesco in queste ultime settimane: «Giocate la vita per grandi ideali. Scommettete su grandi ideali, su cose grandi. Non siamo scelti dal Signore per cosine piccole: andate oltre» (Omelia pronunciata il 28 aprile in piazza San Pietro, a 70 mila giovani, per il rito della Confermazione).
E ancora: «Quanto è difficile, nel nostro tempo, prendere decisioni definitive. Ci seduce il provvisorio. Siamo vittime di una tendenza che ci spinge alla provvisorietà… come se desiderassimo rimanere adolescenti per tutta la vita. Non abbiamo paura degli impegni definitivi, degli impegni che coinvolgono e interessano tutta la vita. In questo modo la nostra vita sarà feconda» (Discorso del 3 maggio a S. Maria Maggiore).
E più recentemente: «Avere un cuore grande», non aver «paura di andare controcorrente, anche se non è facile! Essere liberi per scegliere sempre il bene è impegnativo, ma vi renderà persone che hanno la spina dorsale, che sanno affrontare la vita, persone con coraggio e pazienza» (Discorso agli alunni delle scuole dei gesuiti, 6 giugno).
Fra poco si svolgerà la Giornata mondiale della gioventù. Le parole di Francesco ci ricordano quanto sia importante che essa non resti un evento isolato, una bella parentesi di spiritualità, ma assuma la funzione di uno snodo in cui devono confluire i problemi reali di cui abbiamo parlato e prendano forma, almeno in germe, una nuova cultura e un nuovo stile, che abbiano al loro centro il rifiorire della speranza (di cui la stessa economia ha tanto bisogno), il senso della sobrietà e del limite (antidoto al dilagante consumismo), la capacità di aprirsi alle grandi prospettive e di donarsi con scelte coraggiose e impegnative (superamento del nichilismo odierno). Il Papa ci addita la strada con straordinaria lucidità. Non aspettiamo il Brasile per cominciare a camminare.