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Tasse, un dilemma sul quale si gioca il futuro dell’Italia

di Piero TaniConcludendo la conferenza stampa seguita alle sue dimissioni, il ministro Tremonti ha detto: «Volevo ridurre le tasse. Me l’hanno impedito». Il contrasto interno alla maggioranza non si riduce a questo, ma la questione è stata in ogni modo oggetto di accese discussioni: il presidente del Consiglio è impegnato a ridurre la pressione fiscale; l’opposizione obietta che la cosa non è praticabile; nella stessa maggioranza vi sono sempre state posizioni differenti almeno sul modo in cui realizzarla. La discussione ha lasciato spesso imprecisati gli obiettivi dell’operazione e le altre decisioni che la devono accompagnare. Se, d’altra parte, la riduzione della pressione fiscale potesse realizzarsi senza cambiare nient’altro, il consenso sarebbe unanime; come dire «è meglio essere belli, ricchi e sani piuttosto che brutti poveri e malandati».

Poiché la funzione del prelievo fiscale è, innanzi tutto, quella di fornire le risorse per la spesa pubblica, una riduzione della pressione fiscale dovrebbe comportare una corrispondente riduzione della spesa, e dunque dei servizi offerti ai cittadini. I quali potrebbero anche essere soddisfatti di provvedere da sé ad alcune spese (per esempio, sanità) con il maggior reddito che rimarrebbe a loro disposizione dovendo pagare meno tasse. In termini generali, l’alternativa sarebbe quella tra mantenere un sistema «all’europea» (alta pressione fiscale e molti servizi) oppure passare ad un sistema «all’americana» (bassa pressione fiscale e pochi servizi). I cittadini dovrebbero però esserne correttamente informati.

Naturalmente si può anche cercare di ridurre sprechi e inefficienze, ma le tasse potrebbero essere ridotte solo dopo che questo risultato virtuoso fosse stato realizzato. Tuttavia, la pressione fiscale può avere anche effetti sulla produzione di reddito. Ci si può, cioè, aspettare che la domanda di beni sia stimolata dal maggior reddito che rimarrebbe a disposizione dei consumatori a causa del minor prelievo; e, dal lato dell’offerta, che, riducendo le tasse, si realizzi un incentivo a produrre di più, poiché del guadagno così conseguito una minor parte se la prende lo stato. Questi effetti possono essere così importanti da far sì che la riduzione delle aliquote non comporti una riduzione del gettito (o si accompagni addirittura con un suo aumento), e quindi non richieda una riduzione delle prestazioni sociali. Questa era la direzione in cui il ministro Tremonti intendeva muoversi, e in cui il presidente Berlusconi sembra voler procedere, anche se le dichiarazioni a Bruxelles fanno pensare ad una strategia mista, più consona alle regole del patto di stabilità di Eurolandia: ridurre le tasse e la spesa, contando sul fatto che la riduzione delle tasse dia un impulso espansivo al sistema economico.

Sul fatto che gli effetti possano essere così positivi vi è molta discussione fra gli esperti; e la prima esperienza di questa politica negli Stati Uniti all’epoca di Reagan non ebbe il successo sperato. D’altra parte, i risultati dal lato dell’offerta sono presumibilmente più forti se si riduce la pressione fiscale sui redditi più elevati, quelli cioè che più direttamente possono essere coinvolti in iniziative produttive. In questo modo, però, si contraddice un’altra funzione del prelievo fiscale, quella – sancita anche dalla nostra Costituzione e alla quale sono maggiormente sensibili i partiti della coalizione di governo che si richiamano più esplicitamente alla dottrina sociale cristiana – di realizzare una maggiore equità distributiva. La discussione sulla priorità da rispettare nella riduzione delle aliquote riguarda proprio questo fondamentale aspetto della questione.