Opinioni & Commenti
Tasse, ci vuole un atto di onestà collettiva
di Franco Vaccari
Passando le ore, il dibattito sta riconquistando un traguardo impensato. Pare che quasi tutti siamo d’accordo: le tasse vanno pagate. Però! I sì ma , gli allora , nel caso in cui , stanno tornando ad essere ciò che sono: subordinate di una frase complessa che ha una principale: si devono pagare le tasse, si deve ubbidire alla legge.
Spostando le virgole e gli accenti del discorso su alcune parole anziché altre, i ragionamenti che corrono sul filo della lama di un rasoio possono produrre ferite pericolose. Nel caso delle tasse la lama è più che mai affilata. Infatti i cittadini che le pagano o che dovrebbero pagarle sono raggruppabili in categorie diversissime, per cui solo la riaffermazione della proposizione principale si devono pagare le tasse può garantire di solidarizzare con chi riceve un sopruso dal fisco e di stigmatizzare senza reticenze chi alimenta il vento antitassazione per garantirsi iniqui privilegi e costruirsi alibi per l’evasione. Tra i destinatari dell’azione del fisco c’è di tutto: chi è libero da problemi di coscienza perché è tassato alla fonte, chi vorrebbe pagare credendo che sia giusto, ma se lo facesse chiuderebbe o non inizierebbe la propria impresa economica, chi se la ride con tecnicismi o sistemi di scatole cinesi al cui centro non si trova più nulla e chi fa finta di credere che le tasse siano le femmine dei tassi!
Una cultura condivisa sulla questione non esiste e gli approcci etici risultano sfibranti per chi ha già comportamenti virtuosi e inutili per chi non gioca la vita su questo registro. Pochi, per esempio, si soffermano sul fatto che non pagare non conviene. Una cultura del bene comune genererebbe l’evidenza di tale considerazione.
Davanti a tanta complessità possono essere utili due semplici considerazioni sempre più neglette nella nostra vita civile: esigenza del controllo e costruzione della fiducia tra cittadini e tra Stato e cittadini. Per l’affermarsi della prima esigenza si dovrà attendere una rivoluzione culturale che stacchi la parola controllo da associazioni come stato poliziesco, dittatura, autoritarismo, per collocarla accanto a realismo e civiltà. Per la costruzione della fiducia, invece, si deve inesorabilmente partire da chi ha le maggiori responsabilità: la classe dirigente. Non ceto politico, ma classe dirigente. Che dia urgenti ed evidenti segni di trasparenza e di credibilità perché fiducia e autorevolezza si conquistano sul campo, con la fierezza di documentare pubblicamente la propria legalità. Un rinnovamento profondo è la via per rovesciare una storia italiana pesante sull’argomento, in cui il «potere» che si avvicinava al cittadino gli rovesciava le tasche, derubandolo. Che questo potere si chiamasse «conte», «granduca», «monsignore» o «viceré» poco importa. Il contadino l’85% degli italiani fino a due generazioni fa: e questa memoria ha tempi lunghi aguzzava l’ingegno per sottrarre al padrone il prodotto e difendersi dalla rapina quotidiana. Legittima difesa. Non c’è dubbio.
Dal «mi devo difendere» al «mi conviene pagare» la strada è lunga e non basterà questa generazione. Ma dobbiamo accelerare il processo con dosi di buona cultura perché il primo adagio ci confina nel feudalesimo, il secondo ci apre a un patto civile capace di farci competere con altri paesi.
Forse conviene dichiarare che questi pensieri sono scritti dall’Austria. Domenica, andando a Messa, ho visto cassettine piene di spiccioli di chi si era portato a casa la stampa cattolica. Uscendo, davanti alle edicole chiuse, altre cassettine erano ugualmente piene di spiccioli di chi aveva preso il quotidiano lì accanto. Non occorre altra riflessione per un immediato confronto: sarebbe possibile in Italia? Ecco, senza incrementare la diffusa, comoda, deresponsabilizzante esterofilia (anzi dichiarando che dovremmo apprezzarci molto di più per mille altre qualità che possediamo), per guarire da questo male è opportuno compiere un atto di onestà collettiva, riconoscendo che rispetto dell’altro e senso del bene comune, dalle nostre parti, sono deficitari.