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Sulle orme di pace lasciate in Terra Santa

Dal 28 marzo al 3 aprile un piccolo gruppo dell’Opera per la gioventù «Giorgio la Pira», guidato dal presidente Gabriele Pecchioli, e accompagnato da mons. Alberto Alberti, direttore della agenzia Turishav, e da don Franco Brogi, si è recato in Terra Santa per un pellegrinaggio nei luoghi sacri alla cristianità. Scopo del viaggio era anche quello di preparare il prossimo campo internazionale alla «Vela» dell’agosto 2005. Anche questa estate, oltre ai giovani russi, saranno infatti presenti giovani palestinesi e israeliani, ebrei, cristiani e musulmani, per un cammino di amicizia e di fraternità. Tappe del viaggio, oltre naturalmente a Gerusalemme, sono state Hebron, Betlemme, Nazareth, Gerico, Ramallah e Tel Aviv-Jaffa. Ad accompagnare il gruppo toscano i giovani venuti quest’anno al Villaggio «La Vela», in particolare i palestinesi Basel di Hebron, Wassem e Antony di Betlemme, e gli israeliani Idan, Hadas e Pnina. Il calore della loro accoglienza e la completa disponibilità, oltre a permettere incontri con diverse realtà locali, hanno davvero commosso tutti.dal nostro inviato Claudio TurriniLa notizia ci arriva con un sms dall’Italia. «Il papa è grave». Sono le 8 di venerdì 1° aprile (le 7 in Italia) e proprio in quel momento stiamo varcando l’ingresso di Cafarnao, la città di Pietro. Nel perimetro degli scavi tutto ci parla dell’apostolo. «Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi», gli aveva predetto il Signore (Gv 21,18). E il pensiero corre al suo successore che in quelle ore vive su un letto in Vaticano la sua agonia. L’itinerario prosegue sul lago di Tiberiade, a Tabga, nel luogo della moltiplicazione dei pani e dei pesci e in quello del primato di Pietro. E ancora, il Monte delle Beatitudini, il Tabor… La giornata che il gruppo dell’«Opera La Pira» trascorre in Galilea sembra pensata apposta per sentirsi vicini a Giovanni Paolo II. Non ci sono le logorroiche dirette a distrarre. Non c’è la spasmodica ricerca della notizia. C’è solo il silenzio della preghiera.

Anche la notizia della morte ci arriva con un «messaggino» sul cellulare, pochi minuti dopo che si è diffusa in Italia. Siamo in un albergo di Tel Aviv con Hadas e Pnina, due ragazze israeliane conosciute quest’anno a La Vela. Ci stiamo scambiando impressioni su questa terra, i suoi problemi. Raccontiamo della calorosa accoglienza ricevuta nei giorni precedenti dai comuni amici palestinesi e israeliani. E le due ragazze si uniscono a noi per una preghiera spontanea. Le tv locali interrompono la programmazione per le dirette dal Vaticano.

La mattina dopo troviamo evidenti i segni del dolore che ha percorso anche la Terra Santa. «Israele piange il pontefice che ha cambiato i rapporti tra ebrei e cattolici», titola The Jerusalem post, l’autorevole quotidiano in lingua inglese. «Israele e il mondo ebraico piangono il papa che ha combattuto l’antisemitismo e incoraggiato la pace» gli fa eco, sempre in prima pagina, il quotidiano in lingua ebraica Ynet.

La morte di Giovanni Paolo II ci fa toccare con mano quanto sia amato e rispettato il pontefice anche in questa terra. Quando si parla di Wojtyla si abusa spesso dell’aggettivo «storico». Ma la sua visita nel marzo 2000 in Terra Santa è stata davvero un evento «storico». Tutti ricordano con commozione il discorso allo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto e quella preghiera scritta nel biglietto infilato tra le pietre del Muro del Pianto. Eppure la preparazione della visita fu laboriosa, come ci conferma uno dei più stretti collaboratori del patriarca Latino di Gerusalemme, p. William Shomali, che fu incaricato dal nunzio mons. Pietro Sambi di organizzare il grande raduno interreligioso a Notre Dame. Solo dieci giorni di tempo a disposizione e difficoltà apparentemente insormontabili. Quell’incontro sembrava facesse «esplodere tutte le divisioni di Gerusalemme», ci confida il sacerdote, al punto che 48 ore prima arrivò a suggerire al nunzio di far saltare tutto. L’incontro invece ci fu e il discorso di Giovanni Paolo II commosse tutti. La pace di Gerusalemme – ripeté con forza – non è solo a Gerusalemme, ma è mondiale. Quello palestinese, ci spiega ancora p. Shomali «non è solo un problema politico è anche religioso: l’ideologia sionista fa ritenere agli israeliani di avere un diritto divino su questa terra. E loro non possono fare concessioni su questo punto».

Certo in questo periodo si avvertono dei cambiamenti. Controlli di polizia meno assillanti, il ritorno dei pellegrini. Il nostro gruppo, pur sconsigliato dall’agenzia di viaggio, ha potuto visitare Hebron, Ramallah e Gerico, fino a pochi mesi fa inaccessibili. «Oggi c’è più calma, ci si uccide di meno», ci dice mons. Giacinto Marcuzzo, vicario patriarcale per Israele, che abbiamo incontrato a Nazareth. «Ma la pace purtroppo non è vicina. Perché la pace non è la calma che si può ottenere anche con l’oppressione o con l’interesse», è qualcosa di integrale come indica la parola stessa nelle lingue semitiche. «Abbiamo troppa storia, per così poca geografia: non c’è terra sufficiente per contenere tutta questa storia», continua il vescovo. «Bisogna necessariamente cercare dei compromessi, ma non sulle cose essenziali come la libertà: finché non ci sarà libertà per il popolo palestinese non ci sarà pace».

Anche nella società civile israeliana, quella più aperta al dialogo non ci sono troppe illusioni. «Non vorrei apparire troppo pessimista – ci dice Danny Shanit, responsabile del Dipartimento di medicina del Centro Peres, che incontriamo nella sede a Tel Aviv –, ma temo che ci voglia molta pazienza e tempo per la pace a Gerusalemme». Certo, «il bisogno di pace della società civile è più forte che in passato, forse perché il dolore è stato più forte di prima», prosegue Shanit. La soluzione «non può essere chiudere gli occhi e far sparire l’altro. Ci vogliono delle coincidenze divine perché le persone giuste si trovino nel posto giusto, al momento giusto. Se non fossi un folle ottimista – conclude – non sarei qui». Al Centro Peres si lavora per favorire il dialogo tra ebrei e palestinesi. La Toscana lo sa bene, visto che è stata la prima regione italiana a collaborare all’operazione «Save the children», che permette di curare in ospedali israeliani i bambini palestinesi più gravi.

E altrettanti fermenti positivi si vedono anche sul fronte palestinese. A Ramallah incontriamo i responsabili della ong Medical Relief Committees, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria (26 centri in altrettante città). Una rete di volontari che non si limita all’assistenza ma che dopo la nascita dell’Anp vuole anche far pressione politica. E il dott. Allam Jarrar, stretto collaboratore di Mustafa Barghouthi, uno dei candidati alle scorse presidenziali, ci tiene a sottolineare come alla morte di Arafat i palestinesi siano stati capaci di portare avanti pacificamente una transizione politica e di svolgere elezioni regolari, tra candidati diversi. Adesso c’è una nuova classe politica.

Purtroppo a fronte di questi progressi e della tregua delle azioni violente, sono rimaste tutte le difficoltà. Il dott. Jarrar le elenca con precisione: i «700 checkpoint che rendono difficile la vita», la «costruzione del muro che toglie il 27% dei territori palestinesi» la continua «espansione degli insediamenti», la «giudeizzazione di Gerusalemme». Anche la «smobilitazione degli insediamenti» per Jarrar è un miraggio: «lasciano Gaza per mantenere tutta la Cisgiordania». «Se si va avanti così non c’è la possibilità di due stati indipendenti. È stato confiscato più del 50% del territorio della Cisgiordania. I palestinesi staranno dietro al muro come riserve indiane. Abbiamo il 30-50% di disoccupazione e il 70% dei palestinesi vive con meno di 2 dollari al giorno». Denuncia forte che abbiamo ritrovato anche nelle parole del presidente della camera di commercio di Betlemme, il cristiano Samir Hazboun. Un economista che ha lavorato a lungo in Europa e che in molti vorrebbero sindaco della città, ma che più probabilmente potrebbe essere il nuovo ministro dell’economia palestinese. Dal 2002 Betlemme ha stretto, anche grazie a lui, legami profondi di cooperazione con la Toscana. Una cooperazione che è servita non solo ad alleviare le sofferenze di una popolazione affamata e senza lavoro a causa del blocco dei pellegrinaggi, durato quattro lunghi anni, ma che ha anche insegnato alle imprese locali a capire cosa produrre per poter esportare tutto l’anno. Non più solo presepi o altre immagini religiose, che si vendono solo a Natale o Pasqua, ma anche oggetti di uso quotidiano. Hazboun ci racconta le tante difficoltà a muoversi a Betlemme, i problemi che aumenteranno con la costruzione del muro. «Non pensate che io difenda la violenza» ci dice. «Non credo alla violenza. Ma gli israeliani devono capire che invece di costruire muri devono costruire ponti. Loro e noi possiamo vivere in pace in due stati indipendenti. Sembra facile a dirsi ma con Bush e Sharon è difficile. Non dobbiamo però mai perdere la speranza. Abbiamo il diritto di sognare».

Di un altro sogno, opposto, ci parla Emil Jarjoui, membro del comitato esecutivo dell’Olp e del Clp, direttore dell’Alta Commissione per gli Affari Ecclesiastici dell’Anp, che grazie a padre Ibrahim Faltas, nuovo parroco di Gerusalemme, incontriamo in un albergo di Gerusalemme Est. È il sogno del «grande Israele» che ormai sembra realizzato. «E perché Israele dovrebbe rinunciare a quel sogno?», si chiede provocatoriamente il ministro. «È la quarta forza militare nel mondo; è la prima forza economica grazie alla presenza ebraica nel mondo». «Nel giugno 2002 Bush ha riconosciuto che ci deve essere uno stato palestinese, ma noi ci siamo guardati attorno e ci siamo visti accerchiati dagli insediamenti: in queste condizioni uno stato palestinese è impossibile». Una realtà che abbiamo toccato con mano a Hebron, dove piccoli insediamenti di coloni nel centro della città rendono la vita impossibile a centinaia di migliaia di palestinesi.

Eppure, prosegue il ministro palestinese, «chiediamo solo giustizia. Basta con il sangue, basta con le violenze, basta con la distruzione di case. Vogliamo dare ai nostri bambini un futuro migliore della vita che abbiamo vissuto noi. Siamo disponibili a qualsiasi cosa ci chieda l’Onu. Dicono che costruiscono questo muro per essere sicuri, ma non saranno mai sicuri se anche noi non lo saremo. Né elicotteri, né aerei, né missili o carri armati possono risolvere i problemi della Palestina: l’unica via è il ritorno al tavolo del negoziato e risolvere un problema per volta, non tutti insieme. Purtroppo, aggiunge «per ballare un tango ci vogliono due ballerini e la musica; noi adesso non siamo pronti a ballare».Mostra le foto del pellegrinaggio