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Sulle orme di pace lasciate in Terra Santa
Anche la notizia della morte ci arriva con un «messaggino» sul cellulare, pochi minuti dopo che si è diffusa in Italia. Siamo in un albergo di Tel Aviv con Hadas e Pnina, due ragazze israeliane conosciute quest’anno a La Vela. Ci stiamo scambiando impressioni su questa terra, i suoi problemi. Raccontiamo della calorosa accoglienza ricevuta nei giorni precedenti dai comuni amici palestinesi e israeliani. E le due ragazze si uniscono a noi per una preghiera spontanea. Le tv locali interrompono la programmazione per le dirette dal Vaticano.
La mattina dopo troviamo evidenti i segni del dolore che ha percorso anche la Terra Santa. «Israele piange il pontefice che ha cambiato i rapporti tra ebrei e cattolici», titola The Jerusalem post, l’autorevole quotidiano in lingua inglese. «Israele e il mondo ebraico piangono il papa che ha combattuto l’antisemitismo e incoraggiato la pace» gli fa eco, sempre in prima pagina, il quotidiano in lingua ebraica Ynet.
Certo in questo periodo si avvertono dei cambiamenti. Controlli di polizia meno assillanti, il ritorno dei pellegrini. Il nostro gruppo, pur sconsigliato dall’agenzia di viaggio, ha potuto visitare Hebron, Ramallah e Gerico, fino a pochi mesi fa inaccessibili. «Oggi c’è più calma, ci si uccide di meno», ci dice mons. Giacinto Marcuzzo, vicario patriarcale per Israele, che abbiamo incontrato a Nazareth. «Ma la pace purtroppo non è vicina. Perché la pace non è la calma che si può ottenere anche con l’oppressione o con l’interesse», è qualcosa di integrale come indica la parola stessa nelle lingue semitiche. «Abbiamo troppa storia, per così poca geografia: non c’è terra sufficiente per contenere tutta questa storia», continua il vescovo. «Bisogna necessariamente cercare dei compromessi, ma non sulle cose essenziali come la libertà: finché non ci sarà libertà per il popolo palestinese non ci sarà pace».
Anche nella società civile israeliana, quella più aperta al dialogo non ci sono troppe illusioni. «Non vorrei apparire troppo pessimista ci dice Danny Shanit, responsabile del Dipartimento di medicina del Centro Peres, che incontriamo nella sede a Tel Aviv , ma temo che ci voglia molta pazienza e tempo per la pace a Gerusalemme». Certo, «il bisogno di pace della società civile è più forte che in passato, forse perché il dolore è stato più forte di prima», prosegue Shanit. La soluzione «non può essere chiudere gli occhi e far sparire l’altro. Ci vogliono delle coincidenze divine perché le persone giuste si trovino nel posto giusto, al momento giusto. Se non fossi un folle ottimista conclude non sarei qui». Al Centro Peres si lavora per favorire il dialogo tra ebrei e palestinesi. La Toscana lo sa bene, visto che è stata la prima regione italiana a collaborare all’operazione «Save the children», che permette di curare in ospedali israeliani i bambini palestinesi più gravi.
E altrettanti fermenti positivi si vedono anche sul fronte palestinese. A Ramallah incontriamo i responsabili della ong Medical Relief Committees, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria (26 centri in altrettante città). Una rete di volontari che non si limita all’assistenza ma che dopo la nascita dell’Anp vuole anche far pressione politica. E il dott. Allam Jarrar, stretto collaboratore di Mustafa Barghouthi, uno dei candidati alle scorse presidenziali, ci tiene a sottolineare come alla morte di Arafat i palestinesi siano stati capaci di portare avanti pacificamente una transizione politica e di svolgere elezioni regolari, tra candidati diversi. Adesso c’è una nuova classe politica.
Di un altro sogno, opposto, ci parla Emil Jarjoui, membro del comitato esecutivo dell’Olp e del Clp, direttore dell’Alta Commissione per gli Affari Ecclesiastici dell’Anp, che grazie a padre Ibrahim Faltas, nuovo parroco di Gerusalemme, incontriamo in un albergo di Gerusalemme Est. È il sogno del «grande Israele» che ormai sembra realizzato. «E perché Israele dovrebbe rinunciare a quel sogno?», si chiede provocatoriamente il ministro. «È la quarta forza militare nel mondo; è la prima forza economica grazie alla presenza ebraica nel mondo». «Nel giugno 2002 Bush ha riconosciuto che ci deve essere uno stato palestinese, ma noi ci siamo guardati attorno e ci siamo visti accerchiati dagli insediamenti: in queste condizioni uno stato palestinese è impossibile». Una realtà che abbiamo toccato con mano a Hebron, dove piccoli insediamenti di coloni nel centro della città rendono la vita impossibile a centinaia di migliaia di palestinesi.